“Poptimism” è una parola che mette insieme “pop” e “ottimismo”. Se la inventarono gli americani qualche tempo fa quando si resero conto che forse era arrivato il momento di considerare la musica pop degna di analisi critica, proprio come si era sempre fatto con il rock, l’elettronica, il jazz, il soul, il folk, il blues e qualsiasi altra corrente musicale nata nella storia.
Perché il giornalismo musicale, storicamente, è stato sempre abbastanza snob. Almeno nei giri americani e statunitensi il pop era considerato robaccia plasticosa, era “commerciale” (vi ricordate quando c’era ancora l’idea che la musica, come qualsiasi forma d’arte, potesse prescindere dai soldi?), era un copione interpretato da bei maschietti e belle ragazzine.
Videos by VICE
Poi però è cominciato un lento processo di accettazione per cui gente come Taylor Swift, Lady Gaga e Beyoncé si sono lentamente prese spazio anche su testate storicamente “indipendenti” come Pitchfork e Stereogum. Per farla breve, oggi le barriere sono completamente cadute e le testate o si rivolgono a una nicchia di gusto molto specifica o cercano, con le risorse che hanno, di trattare la musica tutta.
Per arrivare a questo punto il poptimism si è come radicato nei cervelli di molti addetti ai lavori, aiutato dallo sviluppo del processo nostalgico che ci fa vedere con occhi diversi l’opera di artisti che un tempo consideravamo delle marionette. Tipo, che ne so, Tiziano Ferro: da ragazzino mi sembrava musichetta da radio, adesso mi mangio le mani per non essermi reso conto delle mine R&B che cacciava fuori da giovane. Ma me ne sono dovuto convincere e accorgere piano piano.
Ecco, Billie Eilish è la prima popstar accettata come tale dall’industria musicale che non ha bisogno del poptimism. Billie Eilish è la dimostrazione definitiva che nessuno, né i cinquantenni che scrivono sui quotidiani e men che meno i ragazzi che hanno la sua età—17 anni—deve fare uno sforzo per apprezzare, capire o spiegare un prodotto commerciale che macina milioni (di dollari, di follower). Billie Eilish è un alieno, ma parla la lingua dell’oggi e si sa spiegare benissimo a tutti.
Com’è questa “lingua dell’oggi?” Dice cose tipo “smettiamola di farci”. Oppure “la vita fa schifo, ridiamoci sopra.” Oppure “Il futuro mi fa paura”. Oppure “Chissenefrega se ti senti un uomo o una donna, se ti piacciono gli uomini o le donne.” Oppure “Sono triste, ditemi che valgo qualcosa.” Tutte cose che il pop, fino a qualche tempo fa, non diceva. Britney raccontava fiabette adolescenti, Gaga creava mondi pazzi, Taylor scriveva di sentimenti americani, Beyoncé parlava di cose grosse come l’identità, i valori, l’amore. Billie, invece, parla di male e dolore. È distaccata, ironica, dolce e cattiva.
Può raccontare di sere in cui tutti i suoi amici sono fatti e si calano psicofarmaci e lei no. Può flexare come i rapper, mettersi una metaforica corona in testa. Può giocare con l’idea dell’inferno e immaginare la California come un suo girone. Può parlare di tipi che la fanno stare male, ma senza la retorica da haters gonna hate. Può mettersi nei panni di un mostro che vive sotto il suo letto e le sussurra nell’orecchio di annegamenti e suicidi e incubi. Si tratta del compimento di quel processo cominciato anni fa e collegato al modo in cui la società si è evoluta, spinta da internet, per cui la musica si è fatta sempre più lagnosa e ora quasi non può che esserlo per fare successo.
E tutto questo sarebbe anche inutile se non ci fosse, accanto a questo salto di pensiero, un equivalente balzo musicale. Se a fare le canzoni di Billie ci fosse un Max Martin, un Diplo, un Pharrell, in lei probabilmente si rispecchierebbero milioni di ragazzi in meno. E invece le fa lei insieme a suo fratello, in cameretta, con un Mac e qualche strumento. Anche sul suo album d’esordio WHEN WE ALL FALL ASLEEP, WHERE DO WE GO?. Un prodotto in cui sono stati investiti milioni di dollari. Un album che ho ascoltato solo dopo aver firmato un documento che mi faceva intendere che, insomma, se leakavo qualsiasi cosa ero finito.
Nelle canzoni di Billie Eilish la musica si spacca, si distorce, si annulla, sussurra. È il compimento del processo cominciato da Yeezus di Kanye West, ributtato nell’underground di SoundCloud da XXXTentacion, risollevato e spinto alle vette della fama in maniera spontanea da milioni di ascoltatori. Si sente nel ritornello di “Xanny”, nel basso intestinale che si mangia la traccia quando “bury a friend” si fa quieta, nel break alla fine “Bad Guy”, nel drop pachidermico di “you should see me in a crown”. Arriva come un blob a ingoiare anche “8”, un brano in cui Billie recita la parte della ragazzina che fa le cover con l’ukulele su YouTube—a sua volta, dato il contesto in cui ci troviamo, un’importante smottamento di campo. L’alto non pesca più dal basso: è il basso che si prende l’alto.
Il gioco del pop è saltato e così le sue regole. Perché dovrebbero rispettarle Billie e suo fratello? Azzardo un’iperbole: WHEN WE ALL FALL ASLEEP, WHERE DO WE GO? è l’album più importante del 2019 perché in un certo senso è il primo prodotto del suo genere. È il fai-da-te da GarageBand che ha fatto i miliardi, è l’umorismo da presi male che prende a schiaffi i “dai, non pensarci che tutto passa”, è lo sbrego della forma-canzone che si normalizza, è il nero che copre il rosa.
Elia è su Instagram.
Segui Noisey su Instagram e Facebook.
Leggi anche: