Questa non è propriamente una recensione. Sono già state scritte tante, troppe parole sull’inutilità delle recensioni al giorno d’oggi. Do per scontato che chi è interessato a leggere qualcosa su Kamasi Washington già sappia chi è, e comunque sia gli basterebbe aprire YouTube o Spotify per farsi in cinque minuti un’idea di come suona. Mi sembra infatti più interessante parlare di cose che gli girano intorno, di come la sua musica viene recepita, del nostro ruolo di ascoltatori, di come girano le cose nel mercato.
Kamasi Washington è uno che polarizza: per molti è il salvatore della patria, una stella che brilla a fianco di quelle più lucenti del mondo del jazz, per altri è una specie di bluff.
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Nella mia bolla i secondi sono probabilmente più dei primi, ma forse è anche perché ho una bolla particolare: le definizioni che si sprecano sono “jazz per hipster”, “jazz per gente che legge solo Pitchfork”, “jazz per gente che non conosce Sun Ra” e cose del genere. Un mio amico recentemente, in un post in cui si magnificava questo album, chiedeva “ma avete mai ascoltato del vero spiritual jazz?”.
Quando qualcuno in poco tempo ha molto successo è naturale che si sviluppi un meccanismo per cui molte persone, soprattutto tra gli appassionati, ci tengano a dire che questo qualcuno non è poi davvero così bravo, così meritevole. Perché è vero: è difficile che venga fuori qualcuno che cambi la storia della musica, in questo momento. Soprattutto in un genere che ha già una sua storia lunghissima e brillante.
Da persona che di “vero” spiritual jazz c’ha la casa piena, però, mi sento di poter essere più generoso. Kamasi Washington è bravo e fa bella musica. Lui e la sua band sono dei mostri, sono molto divertenti, e hanno avuto il merito (e anche un po’ la fortuna) di riportare in auge sonorità che erano decisamente passate di moda. È vero che non è l’unico a fare questo tipo di musica, non è il più bravo, e sta sulle spalle dei giganti. Però in un mondo dove ancora la gente si reca in massa a vedere i concerti dei Pearl Jam o dei Negramaro credo che Kamasi Washington sia davvero l’ultimo dei problemi. Fa bella musica, l’abbiamo già detto.
Sicuramente non è John Coltrane, non è Sun Ra, non è Miles Davis (per citare tre musicisti molto diversi tra loro ma che hanno in comune il fatto di essere stati dei band leader), ma penso che sia il primo a esserne consapevole, e i titoloni che lo mettono al fianco di questi nomi forse non gli rendono un buon servizio (o forse sì, ma a un livello superficiale, di cui magari ha bisogno fino a un certo punto).
Se ci sono due critiche che mi sento di muovere alla sua opera è che fare dischi lunghi tre ore non è obbligatorio, e poi la solita cosa che dico rispetto un po’ a tutti i musicisti più in voga di questo genere: che rispetto ai padri li sento molto meno liberi sul serio. C’è sempre una grossa dose di controllo, qualcosa che li trattiene, non li sento mai disposti ad andare fino in fondo, a lasciarsi andare davvero a una vena di follia, o di trasporto, che erano poi le cose che hanno reso grandi i nomi storici dello spiritual-free jazz. L’unico di questa nuova leva che sento un po’ più vicino a quella lezione è Shabaka Hutchings (attivo in svariati progetti che vi consigliamo), mentre in tanti altri mi piacerebbe sentire un po’ meno rigore (ma Kamasi non è il peggiore in questo senso, meglio lui degli ex-Yussef Kamaal, per esempio).
Un buon esempio per capire pregi e difetti della musica di Kamasi sta in “One Of One”, il brano che chiude il primo CD di questo lunghissimo lavoro (un po’ meno lungo del magniloquente, esagerato, e per questo più interessante The Epic): in certi momenti arriva un coro in crescendo, sempre di più, sempre di più. E poi si ferma. Proprio quando il pezzo sembrava pronto a diventare davvero un sabba, a sprigionare la follia, ecco che si fermano e ripartono. E il pezzo dura dieci minuti. Ed è anche un bel pezzo, ben suonato, fatto di bella musica. Insomma, in dieci minuti secondo me contiene tutti i pregi e i difetti di questo lavoro, che è buono, che (lo ripeto per la terza volta) è un disco di ottima musica, ma è anche il lavoro più debole del sassofonista di Los Angeles. Per me lo scettro del migliore ce l’ha l’EP dell’anno scorso Harmony Of Difference, che sarà anche il suo disco easy listening ma ha una bellissima atmosfera e la capacità di andare dritto al punto (con pezzi di tre o quattro minuti, e uno soltanto oltre i dieci, ma giustificatissimi).
Heaven and Earth è uscito il 22 giugno per Young Turks.
Ascolta Heaven and Earth su Spotify:
TRACKLIST:
Earth
1. Fists Of Fury
2. Can You Hear Him
3. Hub-Tones
4. Connections
5. Tiffakonkae
6. The Invincible Youth
7. Testify
8. One Of One
Heaven
1. The Space Travelers Lullaby
2. Vi Lua Vi Sol
3. Street Fighter Mas
4. Song For The Fallen
5. Journey
6. The Psalmnist
7. Show Us The Way
8. Will You Sing