Devo dire la verità: il nove maggio ho sperato che non succedesse nulla. Sarà che vivo un po’ troppo immerso in questa bolla, ma mi annoiava l’idea che ancora una volta ci sarebbe stato il solito meccanismo dell’uscita a sorpresa, prontamente ricondivisa da decine di contatti e accompagnata da infiniti commenti e discussioni. Più che altro perché questo tipo di modalità, per quanto sia da manuale della creazione dell’hype ai nostri tempi, a mio avviso rischia di mettere sempre più in secondo piano l’aspetto musicale del progetto, che invece ho sempre apprezzato.
Al di là del discorso sull’immagine, potentissimo e realizzato magistralmente, Liberato mi è piaciuto fin da subito per la sua specificità musicale. Sarà per il mio amore per il canto napoletano in generale, o sarà per il tentativo di svecchiare il panorama pop italiano, ancora troppo legato a sonorità vecchie e scontate (soprattutto in ambito mainstream).
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In una visione un po’ romantica speravo anche quasi che Liberato si fosse ritirato, che si fosse stufato, che non avrebbe più fatto niente (anche se una data romana già in programma non faceva propendere per questa ipotesi): sarebbe stato un gesto molto umano, in barba a tutti quelli che hanno voluto vedere solo il marketing all’interno di questa storia. Dopo avere tastato una volta per tutte la qualità del progetto assistendo a un ottimo live al Club To Club dell’anno scorso, mi sembrava un peccato che il tutto rimanesse legato a sortite molto estemporanee, da consumare sull’onda della sorpresa del momento, e senza dare prove di una solidità più duratura.
Ma queste sono le divagazioni di un vecchio di merda, di uno che ancora si dispiace quando un bel disco non esce in formato fisico (per esempio The Life Of Pablo, o elseq 1-5 degli Autechre), insomma non certo i pensieri del pubblico medio. Ora anche uno come me può rallegrarsi del fatto che dal mondo Liberato è finalmente uscito un disco, un album intero, come piace a noi.
In coda all’uscita non sono mancati i soliti commenti: da un lato gli innamorati dell’hype che si esaltano acriticamente per ogni cosa, dall’altro gli eterni scettici che considerano il progetto un’operazione commerciale senza valore. Ma cosa succede se invece si ascolta il disco, senza tante sovrastrutture?
Il disco, per chi è cresciuto in un’epoca di album della durata di un’ora di cui all’uscita conoscevi al massimo due pezzi, ha lo stesso difetto di altri ottimi lavori pubblicati quest’anno (Scialla Semper di Massimo Pericolo e 40 di Quentin40): sei pezzi su undici li conoscevamo già, o cinque se vogliamo considerare inedita la riedizione in chiave acustica di “Gaiola Portafortuna”; detto questo, però, i difetti sono finiti. Se i brani già editi ci avevano fatto intuire la qualità e lo spessore del progetto musicale, le novità non fanno che confermarlo, andando anzi ad aggiungere nuovi livelli di profondità.
“Oi Marì” e “Tu me faje ascì pazz’” sono due hit sulla scia di quelle già uscite, ottimi pezzi che non hanno nulla da invidiare ai successi già noti, e che come quelli faranno un’ottima figura sul dancefloor; “Guagliò” è il momento in cui si osa di più dal punto di vista delle sonorità, compreso un notevole impazzimento jungle finale; “Niente” è una splendida ballata emozionante e evocativa, che conferma un grande talento anche in quella che è puramente la fase di scrittura, anche al di là di sonorità, produzione e arrangiamenti (cosa che fa anche la nuova versione di “Gaiola”, per chi non avesse avuto modo in precedenza di soffermarsi su quell’aspetto).
Il pezzo più interessante secondo questi parametri di giudizio (quelli più puramente legati alla produzione) è invece la lunga traccia-monstre “Nunn’a voglio ‘ncuntrà”: il brano parte rarefatto e atmosferico, diventa man mano più epico per poi diventare una specie di “Coro delle lavandaie” (lavoro della Nuova Compagnia di Canto Popolare del 1976 diventato in anni recenti un must sui dancefloor di tutto il mondo) in cassa dritta, virare quasi eurodance, rallentare di nuovo sull’epico, reintrodurre la cassa, interrompersi improvvisamente, scalare mostruosamente i bpm, introdurre un bridge evocativo e pacato, far partire un beat, virare su un intermezzo astratto che introduce al ritorno del simil-“Coro delle lavandaie”, e andare a chiudere di nuovo in terreno dance.
Non so chi sia o chi siano le persone dietro le produzioni di Liberato, ma sono tra i più grandi talenti che ci siano in Italia in questo momento, e questo disco è a un livello incredibile, forse l’unico nel genere a poter essere tranquillamente esportabile e fare impazzire gli ascoltatori di qualunque parte del mondo. Se il suo pubblico di riferimento è esattamente lo stesso dell’itpop/nuovo indie italiano, c’è però un abisso tra la sua proposta e quella standard di un genere che tende molto a ripiegarsi sul già sentito e sul dare all’ascoltatore qualcosa a cui il pubblico italiano è già abituato da decenni.
Sono pochissimi i nomi (mi viene in mente Cosmo) che in quell’ambito e non in quello urban stanno davvero provando a svecchiare il pop italiano, e non semplicemente a dare un nuovo packaging a sonorità vecchie di decenni. RnB contemporaneo, house, disco: in questo lavoro di esordio si mescolano mille sonorità e atmosfere con eclettismo, originalità e personalità, dimostrando in maniera definitiva che Liberato è uno di questi nomi e che lo è in modo assolutamente credibile. Marketing o non marketing.
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