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Il reggaeton spirituale di Kelman Duran

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Quando chiamo Kelman Duran su Skype, giovedì scorso sera, non realizzo subito che è il giorno del Ringraziamento. Ho un debole per le festività totalmente retrograde che gli USA si ostinano a mantenere per amor di patria perciò, appena la nomina, ci tengo a rimanere sull’argomento. “In questo momento tutta la mia famiglia a NYC sta festeggiando, poco ma sicuro. Mi manca un po’ l’atmosfera, non posso negarlo, benché sia una festività oscena che non ha alcun senso di essere celebrata. Resta che qua sono solo e ancora non ho chiamato nessuno…” Mi spiega che sono alcuni mesi che, per scelta, oltre a non avere Facebook non ha neanche un telefono. “In genere me lo procuro quando so che devo lavorare. Questo semestre sono libero, mi dedico esclusivamente alla musica, e ne sto facendo a meno. So che lo devo riprendere però, mia mamma poi si arrabbia se non la chiamo il giorno del Ringraziamento… [Ride] Come qualsiasi altro cittadino statunitense, purtroppo.”

Kelman è dominicano di nascita, ha 33 anni, e vive a Los Angeles dal 2009. Cresciuto a Washington Heights, NYC, il quartiere a più alta densità dominicana della città, è artista, regista, producer dai 17 anni, e dai 30 anche dj. Non ci vuole molto a capire lo spirito e l’integrità con cui Duran si dedica da sempre alla sua arte: la politica è un tutt’uno col processo creativo, e va necessariamente a plasmare il prodotto finale. Musicalmente Kelman si muove su quei terreni fertili in cui è stato immerso fin da ragazzino, grazie allo stretto e indissolubile legame con la comunità dominicana e afro-caraibica di NYC. “All’inizio campionavo vinili, e facevo beat hip-hop,” mi spiega, “poi sono passato alla fase reggaeton e dembow, volevo qualcosa che suonasse bene nella mia stanza e su cui potessi ballare. Da lì la voglia di modificare un po’ dei miei pezzi reggaeton preferiti.”

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Una volta trasferitosi in California la sua ricerca musicale si è andata adattando alle nuove urgenze che una città così disgregata e dispersiva come Los Angeles hanno comportato. Due anni fa, assieme a Muñeka e Foreigner, ha fondato Rail Up, clubnight che celebra la moltitudine di culture e subculture afro-caraibiche, e relative comunità, in un confluire di sonorità che spaziano dal dembow, soca, baile funk, dancehall, reggaeton, etc. “LA è davvero il posto più ghettizzato e segregato in cui abbia mai vissuto,” specifica Kelman, “ma allo stesso tempo ci vivono pochi caraibici, e non è stato semplice adattarsi all’inizio”.

Uno dei motivi che lo hanno spinto a lavorare sul recupero di questa identità, in parte dissolta dopo l’allontanamento da NY, è proprio il senso di frammentazione che Los Angeles si porta dietro. Lo scorso 4 agosto è uscito su Hundebiss di Simone Trabucchi il suo primo lp, 1804 KIDS; 10 edit compressi e distorti di hit reggaeton/dembow nuove e vecchie, tra cui spiccano quelle di Ozuna, Hector el Father, Cosculluela. “Non sono pezzi casuali, non faccio nulla per caso. C’è sempre un contenuto a livello di testo a cui sono intimamente legato.”

Domani Kelman Duran presenterà a BASE il suo show audiovisivo, per la seconda giornata di S/V/N Mash17, terza edizione del festival sulle ibridazioni sonore e culturali come motore delle risorse artistiche e politiche del futuro. Dopodomani, sempre a BASE verranno proiettati i film New York Played Itself, narrazione distopica di una New York in declino, e To The North pt 1 & 2, il progetto portato avanti dal 2012 ad oggi nelle riserve di Pine Pidge, South Dakota, in cui Duran immortala la realtà reclusa della comunità nativa degli Oglala Lakota, attraverso paesaggi, testimonianze e spaccati di vita quotidiana degli stessi.

L’intervista qua sotto si perde spesso in confronti di esperienze di vita, in parte simili considerando lo “sradicamento” a cui entrambi siamo stati sottoposti, in parte totalmente diverse, a causa dei distinti contesti culturali che ci hanno cresciuti. “Ti ringrazio per questa telefonata. Credo sia la miglior chiacchierata fatta nel giorno del Ringraziamento che io ricordi. [Ride]”

Noisey: Questa storia del giorno del Ringraziamento continuerà a lasciarmi sempre stupefatta.
Kelman Duran: Sarebbe più giusto venisse abolita. Sostanzialmente si tratta di festeggiare un genocidio, ma alla gente non lo si può dire. Si offendono a morte. L’anno scorso mi trovavo in questo quartiere bianco, e una signora pensa bene di dedicarmi un ‘Buon giorno del Ringraziamento!’ Io non rispondo, e lei se ne esce con ‘Potresti almeno ringraziare…’ al che faccio ‘Scusi? Oggi io non festeggio.’ Mi ha guardato come fossi un pazzo.

Qua più o meno la reazione degli italiani medi è la stessa quando provi a spiegare perché negli USA c’è sempre più gente che si rifiuta di festeggiare “la scoperta dell’America” di Colombo. Sai, solo per il fatto che il soggetto in questione è italiano, in tanti ritengono giusto che esista una festività a suo nome.
Sì, ironia della sorte sbarcato proprio in Repubblica Dominicana. Almeno in questo, qua in California sono stati corretti: hanno abolito la festività, o meglio, l’hanno rinominata “Giornata della popolazione indigena”. Ovviamente c’è una componente offensiva anche in questo, perché non è che serve davvero una giornata ufficiale per onorare e ricordarsi delle popolazioni indigene… ma almeno non si chiama più “Columbus day”. Non c’è scuola, è festivo a tutti gli effetti, e ha questo nuovo nome. È tutto regolare, qui negli Stati Uniti, nonostante sia evidente quanto poco senso abbia. Soffriamo di amnesie che si impadroniscono delle nostre menti, e ci fanno vivere in una dimensione in cui l’universo e la storia rinascono ogni giorno, e assieme ad essi la società. Il passato conta poco.

Di che parte della Repubblica Dominicana sei?
Non so neanche se c’è sulla mappa. Il posto si chiama La Ermita, la città più vicina è Moca. Pieno entroterra dell’isola, aperta campagna, ed enormi piantagioni. Sono cresciuto con mio padre da bambino, mentre mia mamma lavorava negli Stati Uniti.

Quando ti sei trasferito negli USA?
Mio nonno si era portato tutti i suoi figli, quindi miei zii e zie, e ha lavorato in città per un sacco di anni. Avevamo e abbiamo una famiglia molto grande negli Stati Uniti, a Washington Heights, NYC. Avevo 5 anni quando mia mamma è tornata a prendere me e mia sorella per andare a vivere là, dove vive la più grande comunità dominicana della città. Sono tornato in Repubblica Dominicana ogni estate fino ai 16 anni, dopodiché mia mamma ha smesso di portarmici. Erano davvero belle vacanze, passavamo tutta l’estate in campagna. Mi ci sono voluti 10 anni per tornare.

Ho fatto una scuola d’arte, e mi sono messo a girare film e video sulla mia famiglia. A distanza di anni ho deciso di girarne uno su alcuni zii e zie che vivevano ancora là, e sono tornato. Sarà stato nel 2010-2011. A dicembre in realtà ho una data a Santo Domingo, sono contento perché è la prima volta che suono in Repubblica Dominicana. Sono curioso di vedere come può reagire la gente alla mia musica.

È bello quando si riesce a mantenere un contatto stretto con la propria terra di origine. La mia esperienza è già diversa: sono cresciuta in una provincia in Toscana, in cui ero sempre l’unica ragazzina figlia di genitori stranieri e non bianca in classe. Nella città dove vivevo non c’era nessun’altra famiglia latina. Alla lunga una realtà del genere può diventare alienante e appiattire ogni altro senso di appartenenza, conscio o inconscio.
Lo credo bene. È interessante perché ho avuto l’esperienza opposta. Sono cresciuto in una comunità esclusivamente dominicana, fino a quando non ho iniziato le superiori. Quando vivevo là, Washington Heights era una specie di ghetto dominicano. Ora non lo è più, è molto gentrificato e fighetto. Il cambiamento è stato lento e strano: hanno iniziato col renderlo più “sicuro”. Tutti gli spacciatori avevano delle gang, e imponevano strane regole e norme all’interno del quartiere. Ad esempio per un periodo avevano proibito di indossare vestiti colorati, a seconda del periodo dell’anno non potevi metterti robe blu, gialle, rosse…

Credo fosse perché non volevano attirare l’attenzione della polizia con reati minori, e cose del genere. Se ne stavano lì fermi a ogni angolo, a controllare, in gruppi da 10-12. Era quel tipo di ambiente, insomma. Oggi è molto più raro ritrovarsi in quelle situazioni. Non vivo più a Washington Heights dal 2009, quindi non so bene come sia la vita là adesso. So solo che quando hanno iniziato a regolare la questione sicurezza, le cose sono cambiate. Ho degli ottimi ricordi della mia infanzia in quel quartiere, ma dopo aver finito le superiori mi sono spostato, quindi non ho ben presente i successivi cambiamenti. Ho un bel po’ di problemi con NYC, a dire il vero. Non mi piace per niente.

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Fotografia di Carlo Cruz.

Non ti piace New York?
No, mi è sempre sembrata una piccola prigione. L’architettura, in questo senso, mi ha sempre dato quell’impressione e turbato non poco. Ora che sto a Los Angeles è ancora più chiaro: qui riesci a vedere il cielo, il sole, l’orizzonte, a NY no. Più delle volte si vedono solo mattoni, e i palazzi sono solo tutti serrati tra loro. Da piccolo non ci facevo tanto caso, ma crescendo è diventato un limite non indifferente. Avevo bisogno di un ambiente più fisicamente aperto, anche per la produzione di musica. Il tipo di musica che faccio l’avrei potuto fare solo a LA. So che può suonare pretenzioso, ma qua la comunità artistica riesce ad essere davvero incredibile, a volte. Aperta, disponibile, attenta a un sacco di cose. A NY non ho mai vissuto la stessa cosa, non ci ho neanche mai suonato. Quando vado è per visitare mia mamma nel Bronx.

A NY però c’è una scena consistente di artisti che musicalmente si avvicinano a quello che fai tu.
Sì certo, è pieno di feste e dj che stimo. Il problema penso risieda anche nell’accessibilità economica ristretta: i prezzi sono generalmente molto alti e la gente ne risente, c’è sempre un senso di fatica che si ripercuote negativamente su ciò che crei. LA al contrario ti dà come l’impressione di un continuo work in progress, e maggiore libertà. A NY devi essere produttivo, presentarti in tempo, essere sul pezzo, vestirti in un certo modo… Una volta ho lavorato in un museo e la prima cosa che mi hanno detto appena mi hanno visto è stata “Non puoi vestirti in quel modo qui, non sei a Los Angeles.” Quella è stata la mia prima interazione con una collega, durante il mio primo giorno di lavoro dopo il college. Mi sono licenziato, e tre mesi dopo ero di nuovo a LA. Non me lo sarei aspettato, sinceramente. Il mondo intero dipinge NY come questa città così cosmopolita, ma non è proprio così semplice.

Per chi non ha conoscenza del territorio statunitense non è così semplice da comprendere, in effetti.
Ci credo. Questo paese è molto variegato a sua volta e in totale confusione. Non sono per niente sorpreso di quello che sta succedendo, ad esempio. La white supremacy di cui si parla tanto ora è sempre esistita, è solo che adesso c’è qualcuno più onesto di altri a parlarne.

Qua è ancora diverso. Abbiamo ben chiaro l’esempio degli USA, i movimenti di autodeterminazione delle minoranze e la lotta all’evidente sfacelo trumpiano (ma non solo), sono realtà che, declinate in altri modi, viviamo quotidianamente anche qui. Eppure non è esattamente la stessa cosa. L’Italia, ad esempio, non ha la stessa storia degli Stati Uniti alle spalle. La comunità nera, qui, non ha alle spalle secoli di schiavitù come negli USA—li sta avendo lo stesso nelle piantagioni di frutta e verdura a Sud del paese, ma è un’altra storia—di conseguenza non esiste nessun Black Lives Matter. Per certi versi non tutti gli italiani, bianchi e poc, sentono il bisogno di riconoscere la white supremacy come un problema, si cerca più di puntare il dito contro la definizione da vocabolario di razzismo.
Deve essere molto alienante. Credo di capire il sentimento che provi, succede anche a me a volte. Qui ci sono sì i movimenti in risposta a determinati problemi, vedi Black Lives Matter, ma c’è qualcosa in questo paese che ha un effetto sedante… per esempio, è la prima volta che si sente parlare così tanto di questi problemi. Anche ai miei studenti delle superiori parlo di oppressione capitalista. Percepisci un po’ questa mancanza di rappresentazione. Spesso succede che se ti sposti da uno stato a un altro, negli USA, pare di essere in un altro paese. Vige ancora una cultura totalmente patriarcale che assume forme diverse a seconda di dove vai. Se in Italia puoi anche non aver bisogno, come dicevi tu, di conoscere a fondo le tue origini perché poco a contatto con realtà simili alla tua, qua negli Stati Uniti ti viene ricordato tutti i giorni chi sei e da dove vieni. Non è proprio possibile ignorarlo per questioni di segregazione, ed è un fenomeno normale.

LA in quel senso è estremamente segregata. Probabilmente dipende dalla struttura stessa della città, concepita a uso e beneficio dell’industria automobilistica. Il tuo caso è molto specifico, mentre qua negli Stati Uniti le comunità esistono e si impongono nel territorio. Quando le abbandoni ti imbatti in realtà ancora diverse. Penso che per persone come noi sia anche normale provare questo senso di frattura nei confronti di chi siamo realmente. Siamo sempre presi nel cercare di comprenderlo appieno, e appena pensi di averlo capito il contesto cambia e pure le certezze che avevi. Non penso sia necessariamente negativo. Credo porti a qualcosa.

Assolutamente, per quanto sia difficile aprirsi con tutti su certe esperienze, e trovare fili conduttori e solidarietà, penso anch’io sia un processo costruttivo. Tornando ai Caraibi, so che gran parte della popolazione caraibica ha problemi a identificarsi come eredi della diaspora africana, quindi come afro-latini.
Un sacco di dominicani si definiscono “latinos”, anche se di fatto sono afro-caraibici. Questo è ancora un problema per noi: definirsi afro-caraibici significa accettare di appartenere alla diaspora africana. Quello che vogliono i dominicani, invece, è l’appartenenza alla diaspora bianca, quindi latina/ispanica… non c’è un vero termine che la definisca.

L’attuale governo dominicano è estremamente fascista e ha deportato migliaia e migliaia di haitiani, negli ultimi anni. È il 2017 ed è ancora possibile che cose come queste succedano. È molto indicativo di come i media percepiscono i nostri corpi marroni o neri. Non è un caso se i dominicani amano definirsi “latinos”. Qua a Los Angeles ultimamente va un sacco di moda il termine “latinx”. È diventato mainstream. Anche alle superiori, i ragazzi non dicono più “latino”/”latina”, ma “latinx”. Lo trovo ok, perché qui a prevalere sono le comunità sudamericane, centroamericane e messicane. Non ci sono tante persone dei Caraibi, e la cultura caraibica è molto diversa da quelle qui presenti. Varia anche da isola a isola, a seconda dei paesi che le hanno colonizzate.

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Quali sono le differenze che intercorrono tra LA e NY, per chi è caraibico?
A NY la comunità caraibica è molto più sviluppata e radicata nel territorio. Una cosa che mi ha colpito quando sono venuto a vivere a LA è che qua la gente non balla en parejas, a coppie, ma sono tutti da soli, o in gruppi. Mi ha scioccato perché sono cresciuto nella east coast, dove tutti i latini ballano a coppie, alle feste. È stato d’impatto sul momento, provenivo da un altro contesto culturale. Per questo quando esco a volte evito i club per giovani, e vado a quelli per viejos, dove si balla vecchio stile. Se vai in questi locali dove chiamano a suonare band che fanno cumbia, vedi la gente ballare con i rispettivi partner, in genere sono tutti sulla 50-60ina. È bellissimo. È la cosa che amo fare in assoluto qua a LA. Molti dei miei amici finiscono sempre col dirmi “Dai, perché mi hai portato in questo posto…” È pieno di viejos con cappelli da cowboy che spesso ci guardano con questi sguardi giudicanti, “Che cazzo ci fate qua?” [Ride] Altre volte invece sono carini e accomodanti, ma sanno benissimo che non è un posto per noi.

Ho vissuto uno shock al contrario quando, tornando in Perù e più di recente in Ecuador ho visto che invece la normalità è ballare a coppie. È una cosa a cui non ero abituata, ma mi è subito piaciuta.
Qualcuno dovrebbe creare una sorta di archivio per conversazioni come queste, in cui esperienze di vita come la nostra vengono condivise tra persone che non si conoscono, ma che hanno un background comune. Sarebbe bellissimo da ascoltare o da leggere. Impareremmo tutti molto, anche se sicuramente sussisterebbero lo stesso limiti di comprensione dovuti alle differenze di contesto culturale.

Sarebbe stupendo, mi hai dato un’idea. Che rapporto hai con Los Angeles e la sua geografia?
Amo Los Angeles, la preferisco infinitamente a NY, come dicevo prima, ma a volte ho bisogno di avere persone a distanza ravvicinata con cui parlare. Spesso qui non è possibile. Nessuno cammina a LA, tutti hanno una macchina. Io non ne ho, e uso i mezzi pubblici, ma ho come l’impressione che ormai siano diventati una questione di classe. Ho sentito molti miei amici dire di non volerli prendere perché… “Non prendo l’autobus.” LA è così. Tanti di loro semplicemente non li vedrai mai sui mezzi. Gli autobus sono visti come mezzi per i senzatetto, non solo da chi ha soldi. Quasi tutti lo pensano, e tutti i miei amici hanno una macchina. Sono l’unico a non averla mi sa. Tante persone si rifiutano di vederlo come un problema di classe, ma per me lo è.

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Rail Up: Kelman Duran, Muñeka, e Foreigner.

Come hai conosciuto Simone Trabucchi e Hundebiss?
L’ho conosciuto quando vivevo a Tijuana, tra il 2012 e il 2013. Assieme ad altri amici con cui avevo studiato a scuola, abbiamo aperto una specie di galleria là, ed era vicino a un bar con un palco nel retro. Ne approfittavamo per invitarci a suonare delle band, spesso. Lui suonò lì una sera come Dracula Lewis, e fu una bomba. Non c’era tantissima gente, ma tutti i presenti sono rimasti galvanizzati. Quell’energia era perfetta per Tijuana. Amo quella città, ma come sai non è uno dei posti più tranquilli dove abitare. Impari a non fare domande e basta.

Abbiamo tenuto aperta la galleria per sei mesi, poi siamo stati costretti a chiuderla perché la comunità aveva bisogno di quello spazio. Ci sembrava più giusto così, e oltretutto era davvero tanto pericoloso stare lì. Non mi occupavo prettamente di arte, ma di gestire queste assemblee pubbliche dove si discutevano temi caldi con gente che invitavamo. Erano discussioni poco moderate, quindi spesso degeneravano in liti… non nei miei confronti, che ero brown e parlavo spagnolo, ma magari i locali se la prendevano con i bianchi. Nonostante ciò, devo dire che dopo i primi scontri siamo tutti diventati amici, ed è venuta fuori una cosa molto bella. Però appunto, dopo sei mesi siamo dovuti tornare a LA.

Con Simone non siamo rimasti granché in contatto da allora. Ci siamo risentiti per la prima volta l’anno scorso. Mi ha trovato su Soundcloud e mi ha chiesto di fare un album. È stato tutto molto semplice. Penso che comunque stesse sentendo le mie robe da un po’. Un’altra cosa che trovo fantastica è che entrambi facciamo musica, e in parallelo abbiamo progetti più legati all’arte visiva e video. I lavori di Invernomuto, ad esempio, sono incredibili, e hanno anche loro a che fare con la storia coloniale italiana.

Anche io li trovo preziosi, soprattutto ora che in Italia, e in generale in Europa, il clima è tutt’altro che pacifico, e in parte riconducibile allo schema di violenza e respingimento statunitense. Negli ultimi anni, oggetto del razzismo più plateale e violento sono i rifugiati dei paesi subsahariani, che quando non vengono venduti come schiavi in Libia, riescono a sbarcare sul territorio italiano. Senza entrare nel merito della strage che si sta consumando tra Libia e Mediterraneo, sicuramente l’argomento “rifugiati” rimane calamita di xenofobia e ignoranza della peggior specie, ed è verso quello che l’opinione pubblica si scaglia, giustamente.
Non ricordo chi ma sono sicuro che a Venezia qualcuno ha realizzato una serie di installazioni d’arte a tema, una più tremenda dell’altra. E l’intento era serissimo, cioè “sensibilizzare” l’opinione pubblica. Non ho davvero mai parole per questo tipo di iniziative.

Iñárritu ha un’installazione di realtà virtuale alla Fondazione Prada di Milano, Carne y Arena , che segue questo filone. Vuole far rivivere ai visitatori l’esperenza dei migranti messicani che attraversano il confine con gli Stati Uniti.
Oddio, sì, è davvero tipico. Fa proprio parte della cultura occidentale: credere che in nome della trasparenza e autenticità si possa narrare e tradurre qualsiasi cosa, comprese le esperienze. Per questi artisti funziona esattamente così, e non ne sono sorpreso. Iñárritu è la classica figura che avrebbe potuto e dovuto fare una cosa del genere, si capisce così bene anche dai temi dei suoi film—che detesto. C’è sempre questo contrasto tra il mondo globalizzato e quello incontaminato, con tutte le interconnessioni tra i due, spettacolarizzate.

Mi batto contro questa roba ogni giorno. Ho studiato arte, e come dicevo prima, ho iniziato facendo video alla mia famiglia. Poi c’è stato il progetto in South Dakota, alle riserve dei Lakota, e non c’è stato un singolo istante in cui non abbia riflettuto e rimuginato su cosa o chi riprendere, in che posti o come. Se riprendere o meno, a volte. Spesso faccio vedere i film alle persone e loro mi chiedono cosa ci sia di così importante in questi posti. Immagino che quando pensano alle riserve dei nativi americani nella loro testa si figurino questi indiani che saltano e ballano, oppure che ci sia un vero e proprio reportage dei problemi “seri” che affliggono le comunità. Dico sempre che se vuoi davvero vedere com’è la vita là, ci devi andare. Non mi sento a mio agio a sfruttare quel tipo di immagini per sensazionalizzare, o per spettacolo. Ero solito andare ogni tre mesi, e rimanere due o tre settimane. L’ultima volta che sono andato è stata lo scorso inverno. È incredibile là l’inverno…

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Fotografia di Carlo Cruz.

Mi ha colpito nell’intervista per Remezcla la parte in cui, parlando proprio dell’esperienza in South Dakota, hai puntualizzato di essere pienamente consapevole del privilegio di cui godevi, a differenza dei locali. Privilegio che ti permetteva di entrare e uscire dalla comunità a tua discrezione. Non è mai così scontato, e si può estendere a un sacco di contesti.
Esatto. Mi succede anche quando vado in Repubblica Dominicana. Una volta là non sono mai al 100% dominicano, sono un dominicano di New York. È tutt’altra cosa. Essere dominicano può avere così tanti significati e interpretazioni… ad esempio mio nonno è biondo e ha occhi azzurri, mentre mia nonna si chiamava Negra. Era ovviamente nera. Non è mai andata a scuola, aveva dieci figli maschi e dieci figlie femmine. È molto difficile per un dominicano definire realmente la propria identità. Quello che è certo è che l’80% dei dominicani è nero. E dirlo apertamente là è quasi vista come un’eresia. Non so se è dovuto al fatto che è sempre stato così, o alla dittatura fascista che è tornata a governare il paese… non so dare una risposta, perché non vivo là. Credo che il mio rapporto con le mie origini sia inevitabilmente legato all’immagine che ho del paese dove sono nato, ovvero un paese razzista e fascista. Anche la mia famiglia, ad esempio, è piena di razzisti.

Quella che ho qua no, ma gran parte della famiglia che ho in Perù, inevitabilmente, lo è. Là il razzismo non è solo verso i neri, ma anche verso i cholos, cioè chi viene dalle regioni più rurali delle Ande. È paradossale perché letteralmente tutta la mia famiglia ha origini andine.
Immagino. Da me prevale il problema dell’accettazione della discendenza africana. C’è un rifiuto quasi assoluto. Ho zii e zie che usano la n-word abitualmente, o che hanno votato per Bush e non per Obama. Questo tipo di cose. E rimane una famiglia non bianca. La loro antitesi è la diaspora africana. Non sanno chi sono, ma sanno chi non vogliono essere. Non voglio insistere troppo su queste cose, ma diventa pesante avere a che fare con mentalità del genere dopo un po’. I miei sono più progressisti, diciamo. È comprensibile che lo siano anche i tuoi perché hanno te; parlo a lungo di queste cose con mia mamma ad esempio. Oltretutto è nera.

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Screengrab di To The North. Foto via

Un sacco di recensioni del tuo disco tirano in ballo terminologie come “reggaeton decostruito” per contestualizzarlo al circuito sperimentale/underground, cui di fatto appartiene. Un po’ mi spiazza quando ne sento parlare, specie se a farlo sono persone—qua ce ne sono davvero tante—fissate col mito dell’underground visto come antitesi del mainstream. È buffo perché i tuoi sono edit di hit reggaeton che più commerciali non si può…
Ad essere sincero mi fa piacere che la gente apprezzi e ne parli, anche se so che tutto quello che dici è vero. Quei termini sono un modo di giustificare concettualmente un certo tipo di musica, e quindi di validarlo. So che suona cinico, ma sono certo sia così. A volte mi chiedo se la gente avrebbe apprezzato lo stesso la mia musica se non avessi fatto una scuola d’arte, e se non avessi scelto questo tipo di linguaggio, unendo la componente sperimentale a quella commerciale. Il reggaeton per anni è stato tutt’altro che popolare. Anni fa la gente lo definiva naco, basso, in definitiva di poca classe. Poi da un momento all’altro ha iniziato a diventare mainstream, accettato, normalizzato e infine celebrato. Spesso la gente preferisce definire la propria musica in questi termini perché non ha il coraggio di dire che fa reggaeton puro, o dembow. Se lo facessero sarebbero associati a qualcosa di meno elaborato, non so.

Ho iniziato a fare musica tenendo conto esclusivamente della dimensione emotiva. Venendo da una scuola di arte, sono molto condizionato dai precetti della sperimentazione e dell’arte contemporanea. Sono interessato a interagire con la popolazione, senza aggiungere finzioni. Non pretendo di conoscere un posto se non lo conosco, e preferisco collaborare con chi è di lì. La mia musica è qualcosa che serve a ricordarmi sempre chi sono e da dove vengo, i momenti della mia infanzia, la nostalgia del crescere, i ricordi di vecchie feste…

Quando ho mandato l’album a Simone si chiamava solo Edits. Non ha apprezzato il titolo perché sosteneva dovesse significare e rappresentare qualcosa di importante per me. Non sono il tipo di persona che ama concettualizzare i propri lavori con etichette o definizioni pretenziose, se non riflettono il modo in cui li ho fatti. Mi sono chiesto semmai perché facessi quel tipo di musica, perché stavo cercando di ricreare uno spazio per la comunità afro-caraibica a LA. La risposta è nella frattura storica di cui parlavamo all’inizio. Da dominicano so che la storia del mio paese è strettamente legata a quella di Haiti. So bene che non è la narrativa mainstream, e che perlopiù non è neanche argomento di conversazione, ma rimane una sola isola. Tutto ciò che produco in musica si riconduce a questo bisogno di riconnessione. Forse all’inizio tra gli intenti principali c’era la voglia di far ballare la gente, sicuramente. Ora verto più su una dimensione spirituale. È una novità per me, perché sono sempre stato una persona pragmatica, interessata alla realtà fisica delle cose.

Tornando alla questione che ponevi, continuo a non capire perché la musica debba essere giustificata. Immagino sia importante magari specificare le parti che vi agiscono, non so. Il fatto è che per me è impossibile separare la politica, o le situazioni reali che viviamo tutti i giorni, da ogni aspetto della mia vita. È un’unica esperienza. Sono un po’ contro l’arte fine a se stessa. Ci sono tante persone che invece hanno problemi a vederla così. Lo dico sempre anche ai miei studenti: è bello che tu dipinga, ma meglio se c’è un significato legato a un’esperienza sociale, se non politica dietro.

Il punto è che tante persone non hanno mai avuto neanche bisogno di esprimersi in termini politici.
Già. E a quel punto diventa una sfida. Quanta voglia hai di lottare per fare sì che più persone possibili si avvicinino al tuo modo di vivere l’arte e la politica, anche in termini di esperienza? È lì che tocca accettare e convivere con i nostri stessi privilegi, arrivando anche a fare un passo indietro. Non cercare a tutti i costi di tradurre ogni esperienza in forme “artistiche” comprensibili solo a pochi.

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