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Musica

Abbiamo intervistato lo spacciatore della scena grunge di Seattle

Si chiama Tom Hansen e oggi fa lo scrittore, ma ha un sacco di storie da raccontare su Guns 'n' Roses, Velvet Revolver, Kurt Cobain e altre centinaia di clienti.

Seattle, anni Ottanta. Siamo nella culla in cui stanno per esplodere, letteralmente, una scena musicale e una vera e propria moda: il grunge. Qui, fra concerti e giornate piovose, si muove il giovane Tom Hansen, che suona in alcune punk band che non avranno fortuna (Fartz, Refuzors…) e si diverte un mondo. Tom è un ragazzo turbolento, è stato adottato da piccolo (è figlio naturale di una leggenda minore dell’arte statunitense, il pittore Jack Stangle, e di una delle sue tante compagne – si dice fosse una prostituta) e ha un passato da skater semi-professionista. La sua famiglia acquisita, per quanto amorevole e square, non è sufficiente a metterlo in riga – e la morte del padre adottivo in un incidente sul lavoro non giova. L’ingresso nel fantastico mondo dell’eroina e della tossicodipendenza è quasi automatico e, per mantenere il fabbisogno giornaliero della dipendenza, in poco tempo si trasforma in un business.

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È così che Tom, alla vigilia della grande sbornia del grunge, è già una specie di rockstar degli spacciatori a Seattle. Nel giro di poco, diventa il pusher delle star o delle future star. Lui conosce tutti o quasi quelli del giro musicale, avendo diviso con loro i palchi in anni meno glamour. E tutti conoscono lui, la sua affidabilità e professionalità come spacciatore. Insomma, è il migliore. Nel suo parco clienti ci sono nomi del calibro di Mark Lanegan, Kurt Cobain, Layne Staley… il gotha del grunge e del rock che verrà. Una “carriera” che Hansen riassume così nel suo libro: “Se consideri dodici anni a quindici vendite di buste di eroina al giorno, arrivi più o meno a 65.700 reati di droga. Ed è una stima al ribasso. Ho fatto qualche migliaio di dollari lavorando normalmente, un centinaio di dollari come skater e 85 dollari in tutto in 12 anni da musicista. Milioni di dollari sono passati dalle mie tasche vendendo eroina”. Poi tutto precipita nel proverbiale cesso: la salute inizia ad andare a puttane seriamente, la polizia si accorge di lui, il fisico non risponde più. Tutto finisce con un ricovero e un lungo periodo di riabilitazione, in cui Tom è in bilico fra vita e morte: inoltre la prospettiva più tangibile è quella dell’amputazione di un arto inferiore, massacrato da anni di iniezioni di roba fatte a casaccio, fuori vena e in condizioni igieniche assurde.

Eppure lui ce la fa. Senza amputazioni. Inizia a scrivere, frequenta un college e diventa… uno scrittore. Il suo romanzo di debutto è American Junkie, una delle storie autobiografiche più lucide e feroci mai scritte sul mondo dell’eroina – e con il fascino supplementare della musica come contorno. Redenzione avvenuta? Insomma, Tom non è certo Stephen King, vive da solo con un gatto in un seminterrato di Seattle senza riscaldamento, ma ce l’ha fatta – a modo suo. E ha tante storie da raccontare. Signori e signore, ecco a voi Tom Hansen. Un eroe del nostro non-tempo.

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Noisey: American Junkie è al momento irreperibile sul mercato (su Amazon lo si vede a 1.000 dollari o più!). Una cosa bizzarra, visto che si tratta di un libro recente e per di più molto buono: potenzialmente può interessare a differenti target di lettori (fan della musica, chi ama la letteratura che parla di droga, appassionati di biografie…). Perché è finito fuori stampa?
Tom Hansen: È una storia piuttosto lunga, ci vorrebbero pagine e pagine per raccontarla, perché ci sono molti motivi che si intrecciano, ma quello principale è che il mio ex editore ha portato la sua azienda sull’orlo del fallimento. Ha terminato tutte le copie, ma a causa di una gestione pessima del business non aveva più i fondi per stamparne altre, nonostante ci fosse ancora richiesta. Sono d’accordo con te: il libro ha un raggio di azione ampio ed è una scelta precisa. Volevo che parlasse a diversi tipi di lettori, specialmente le persone che non hanno mai avuto esperienza con le droghe o con la vita nell’abisso dell’eroina e dello spaccio. Che senso avrebbe fare un libro su un tossico che possa essere capito solo da altri tossici? Mi pare limitativo e volevo avere un pubblico più ampio.

I diritti del libro sono ancora di proprietà dell’editore?
No, ora sono tornati a me. Dopo che quel tipo ha esaurito la tiratura, più o meno un anno fa, il mio manager ed io abbiamo iniziato l’iter per riavere i diritti, in modo da poter fare arrivare nuovamente il libro sul mercato. Dato che quello mi doveva migliaia di dollari in royalties non pagate e aveva quindi violato il contratto che ci legava, è stato piuttosto facile risolvere la faccenda. È circa sei mesi che siamo in trattative con un altro editore per una nuova stampa di American Junkie e speriamo di poter dare buone notizie molto presto.

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Quanto hai impiegato a scriverlo?
Mi ci sono voluti più o meno sei anni, in tutto. L'ho scritto mentre frequentavo il college: dato che era il mio primo libro, il percorso è stato pieno di tentativi ed errori, ho buttato via tutto più volte. Le singole scene e i capitoli sono stati scritti nel corso di un po’ di anni, ma il libro vero e proprio è nato piuttosto velocemente, una volta che ho avute chiare le linee della trama parallela, la struttura dei flashback, l’inizio e la fine.

Sono convinto che questo libro potrebbe diventare un ottimo film stile The Basketball Diaries, Go, Requiem For A Dream e Drugstore Cowboy: hai mai avuto contatti in questo senso?
Sì, ho venduto i diritti cinematografici per lo sfruttamento del libro nel 2012 a Inception Films. Michael Carney e Alex Foard hanno scritto una sceneggiatura incredibile. Loro hanno appena diretto, prodotto (e anche scritto il copione) dell’adattamento del libro di Ron Hall e Denver Moore Same Kind Of Different As Me per la Paramount. Al momento stanno cercando un attore importante da coinvolgere nel progetto del mio film. Siamo fiduciosi che qualcosa accadrà presto. Ma nell’industria cinematografica ho imparato che non si può mai dire – e dopo lunghe pause a volte le cose accadono a ritmo frenetico. I film sono composti da migliaia di incastri, situazioni da coordinare, persone da mettere d’accordo e tutto deve allinearsi perfettamente perché il film venga fatto. Ma sono ottimista: Michael e Alex sono due grandi, hanno una sceneggiatura di ferro e una bella idea per adattare il libro allo schermo.

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Rileggendo American Junkie dopo un paio d’anni mi è venuto un dubbio: è possibile che il legame forte con la scena musicale di Seattle abbia in qualche modo penalizzato il libro? Voglio dire, non credi che molti avrebbero voluto leggere più pettegolezzi sui loro musicisti grunge preferiti, invece di trovarsi in mano un durissimo e cattivissimo ritratto di vita?
Può essere che sia andata così, in una certa misura. Ma ho anche parlato con lettori che hanno preso il libro a scatola chiusa, credendo fosse una cosa più sullo scandalistico, ma hanno comunque apprezzato. Alla fine è il discorso che facevamo prima, dello spettro ampio a cui si rivolge il libro. Ho ricevuto messaggi di apprezzamento da gente che faceva parte della scena musicale, da persone che non hanno mai toccato droga in vita loro, molti dei messaggi più belli li ho ricevuti da gente che lavora nella sanità, dottori e infermieri, che mi hanno ringraziato per averli aiutati a comprendere meglio chi è dipendente dall’eroina.

Sono curioso: nel libro parli dei tuoi anni da adolescente come skater semiprofessionista, poi piuttosto bruscamente passi a raccontare dei tuoi concerti e delle performance sul palco, come chitarrista punk. Non dici praticamente nulla di come tu ti sia appassionato alla musica e abbia preso a suonare… come è iniziato tutto?
Credo sia successo tutto come alla maggior parte dei musicisti. Avevo più o meno 16 anni, vivevo coi miei, ero annoiato e solo, pensavo che entrare in una band mi avrebbe reso popolare e mi avrebbe fatto beccare un po’ di ragazze (e in effetti funziona!). Mi sono comprato una chitarra da due lire e ho iniziato a strimpellare in cameretta, seguendo i dischi di Alice Cooper e dei Blue Öyster Cult. Quando mio padre morì ci trasferimmo dalla periferia al centro di Seattle, dove andavo ai concerti punk e mi sono fatto un po’ di amicizie. E così abbiamo messo su la prima band.

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Passiamo al gossip musicale – sapevi che ci saremmo arrivati. In American Junkie fai alcuni nomi di colleghi musicisti della scena che sono divenuti piuttosto noti o rockstar di fama mondiale, tutta gente che comprava eroina o cocaina da te. Sei ancora in contatto con qualcuno di loro? Hai avuto qualche commento al libro da queste persone?
Sì. Mark Lanegan è un buon amico. Il libro gli è piaciuto ed è anche stato così gentile da scrivermi un blurb per la quarta di copertina. Ho cercato di essere molto cauto, scrivendo di queste persone. Ho fatto leggere a Mark la parte del libro che parla direttamente di lui: mi ha dato la sua approvazione e ha concordato con me che era molto precisa e accurata. Per quanto concerne quelli che non sono più fra noi, Layne Staley e Kurt Cobain, ho voluto essere molto attento e rispettoso nei loro confronti. Non è mai stata mia intenzione fare un libro scandalistico e infangare nessuno. Avrei potuto scrivere molto di più di persone famose che conoscevo all’epoca, ma non sarebbe stato coerente con lo scopo del libro. Questo è il motivo per cui quelle parti sono piuttosto corte: in fondo la storia parla di me, di ciò che ero all’epoca, un tossico e uno spacciatore. L’unico motivo per cui mi sono persuaso a includere un capitolo su Kurt [Cobain, ovviamente – nda] è che volevo mostrare quanto radicalmente eravamo diversi: lui era qualcuno che il mondo intero seguiva e credeva di conoscere, io ero la persona più invisibile della Terra.

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Quindi hai ancora amici di quel giro, ex clienti o musicisti?
Sicuro. Fra i miei amici, come dicevo, ci sono Lanegan, Mark Arm dei Mudhoney e Duff McKagan [ex Guns n’Roses, Velvet Revolver, Fartz, Fastbacks…]. Sono tutti delle gran persone che fanno cose ottime. Sono amico con tanti che hanno suonato con me nei miei vecchi gruppi punk. La maggior parte di loro sono persone che sono sopravvissute ai propri demoni e ora stanno facendo cose interessanti. In effetti ho poco in comune con le persone normali, che non hanno mai fatto nulla di male o di autodistruttivo.

This Is What We Do, il tuo secondo libro, è un romanzo noir/pulp: un genere del tutto diverso dal tuo debutto. A che maestri del genere ti sei ispirato – se hai avuto qualche musa?
Jim Thompson è il più grande. A Hell of a Woman e The Killer Inside Me sono capolavori, non solo di letteratura crime, ma in generale. Non leggo tantissimo di quel genere però. Potremmo azzardare che This Is What We Do è una specie di incrocio fra Thompson e altri due dei miei preferiti, ossia Graham Greene e Paul Bowles. Bowles in particolare mi ha influenzato. I suoi due romanzi maggiori, The Sheltering Sky e Let It Come Down sono entrambi incentrati su due americani in terra straniera, che non riescono a comprendere l’ambiente in cui si trovano e si ficcano in grossi guai per questo.

In effetti per questo romanzo hai scelto la Francia come sfondo. Ci sei mai stato? E come mai proprio la Francia?
Sì, ho passato un po’ di tempo a Parigi nel 2005. Mi è piaciuta molto. C’è comunque un elemento che nessuno nota mai a proposito di This Is What We Do: il protagonista, Nethery praticamente segue le tracce di Henry Miller all’inizio della storia. Quei caffé, i quartieri intorno a Place Clichy, sono i luoghi di Miller all’epoca di Tropico del cancro. Ma principalmente ho scelto di ambientare tutto in Francia perché era un luogo davvero estraneo per il mio protagonista – e poi perché ci ero stato e un pochino la conoscevo.

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Cosa pensi del libro a più di due anni dall’uscita? Sei soddisfatto di come venuto? Cambieresti qualcosa?
Sono quasi del tutto soddisfatto, sì. L’editore mi faceva pressione per farlo uscire in fretta. Mi sarebbe piaciuto lasciarlo decantare per un annetto o due prima di pubblicarlo. È un metodo che sembra funzionare bene con le mie cose, finire un libro e poi metterlo da parte per un po’, infine riprenderlo in mano e rifinirlo per bene.

So che stai lavorando a un nuovo volume. Ci puoi anticipare qualcosa?
Ho una strana pulsione a fare qualcosa di diverso ogni volta. Mi piace quando i libri mi sorprendono, per cui mi piace provare a fare la stessa cosa – e magari sorprendere i lettori che si aspetterebbero cose più in linea con quanto ho già fatto. Non posso ancora svelare il titolo, ma sarà selvaggio e, se esistesse qualcosa di simile in letteratura, sarebbe un romanzo del filone del realismo magico punk rock. Questa volta sto cercando di fare una cosa divertente. La storia è ambientata a Seattle, nel 1991, e contiene molte delle mie esperienze personali con l’eroina e lo spaccio, ma è anche influenzata dal film Repo Man e da alcuni dei miei western preferiti come C’era una volta il West, Il mucchio selvaggio e Butch Cassidy.

Hai un editore per questo libro? E a che punto sei con la stesura?
No, ancora nessun editore. Al momento le cose vanno a rilento e ci vorrà un po’ prima che sia pronto. Io credo fermamente nel fatto che al mondo non servano semplicemente nuovi libri, ma piuttosto più libri belli. Quindi mi prenderò tutto il tempo necessario per fare questo proprio come vorrei io.

Hai una routine quando lavori, oppure scrivi semplicemente se e quando sei ispirato?
No, non credo in quelle storie che raccontano la maggior parte degli autori, che devi scrivere ogni giorno, oppure che hanno un bisogno incontenibile di scrivere, come se mancasse loro l’aria. Cazzate. Ogni volta che mi sono costretto a scrivere ho poi buttato via tutto. Scrivo quando me la sento. Magari anche solo cinque minuti verso mezzanotte, oppure dalle 10 di sera alle sei del mattino. E comunque, anche se un determinato giorno non scrivo una sola parola, l’idea del libro a cui sto lavorando è sempre viva nella mia mente. Una volta che ho trovato lo spunto per un libro, oppure una commistione di generi che mi piace, o un personaggio in una situazione interessante, divento come posseduto. E non smetto finché il libro non è finito. Però non ho un procedimento standard per scrivere i libri. American Junkie era un assemblaggio di pezzi che ho messo insieme dopo aver deciso un inizio e una fine. This Is What We Do è stato diverso, quando ho iniziato a scrivere avevo solo l’idea di piazzare il protagonista in un’ambientazione per lui inusuale, poi volevo che il suo passato venisse cancellato e da lì avrei visto dove si andava a parare. Nella narrativa contemporanea regna questa idea per cui tutto deve avere un senso, il passato di un personaggio plasma i suoi comportamenti futuri. Con Nethery ho voluto liberarlo da tutta quella roba, la storia, il vissuto, le esperienze della crescita, e renderlo come un guscio vuoto – e tutto il libro consiste nello scoprire cosa ha riempito quel vuoto interiore che aveva.

Ascolti ancora musica? Cosa ti piace?
Mi piacciono gli anni Settanta perché è il periodo in cui sono cresciuto. Mi piace quasi tutto di quell’epoca, Zeppelin, Alice Cooper, KC and The Sunshine Band, tutto! La musica, allora, era molto spontanea, era viva, piena di un’energia incredibile. Oggigiorno la musica è troppo patinata e tutta la vitalità, il cuore e l’anima sono scivolati via.

Possiedi ancora una chitarra? La suoni? In alcune foto ti ho visto con una bellissima Les Paul Jr…
No, non suono più: prendendo droghe per anni ho danneggiato irreparabilmente le mie mani, non potrei più farlo. Le mie dita non funzionano bene, mi sono distrutto i tendini iniettandomi roba, per via delle infezioni e cose simili. Quella Les Paul Jr. non è più con me da molto tempo. Ci andavo giù pesante con le chitarre. Non ne possiedo più una, ma le mie preferite erano una Les Paul Jr. sunburst del 1957 e una Les Paul Goldtop 30th Anniversary. Le ho avute per molto tempo, probabilmente perché non sono mai riuscito a spaccarle.

Eri un chitarrista autodidatta o hai studiato?
Autodidatta. Ho imparato suonando mentre ascoltavo cassette e dischi, cercando di andare dietro alla musica.

Andrea Valentini ha scritto di tutto (film, fiction, libri, pubblicità), ma principalmente di musica. Voleva fare il rocker: è andata diversamente. È fondatore di Six Pack Society, agenzia di comunicazione per artisti indipendenti.

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