Música

Rhys Chatham fa musica per il 2020

Rhys Chatham è uno dei musicisti più importanti del Novecento, tanto per aprire con una frase poco eclatante. Il fatto, però, è che è vero. Anche se non è famosissimo tra gli ascoltatori più prettamente rock, tracce delle sue intuizioni si trovano nel suono di moltissime tra le sperimentazioni più entusiasmanti che siano mai state fatte con la chitarra elettrica.

Lavori come il fondamentale Guitar Trio (1977), lo splendido An Angel Moves Too Fast To See o l’impressionante A Crimson Grail (per 400 chitarre elettriche), senza dimenticare Die Donnergötter, sono alla base dell’incontro tra rock e avanguardie, tra la no-wave e i compositori della downtown New York, che ha generato gruppi come i Sonic Youth, interi generi musicali come il drone e il doom metal, e che ha influenzato anche Swans, Melvins e altri mille nomi di quello che chiamiamo rock alternativo americano.

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Se questo non bastasse, Rhys Chatham ha – prima di perfezionare questo matrimonio in paradiso – lavorato a strettissimo contatto con tutti i nomi più importanti delle avanguardie americane, attraversando il minimalismo al fianco dei vari La Monte Young e Terry Riley e lavorando sull’improvvisazione con il Frederic Rzewski fondatore di Musica Elettronica Viva, ha avuto a che fare con chiunque da Arthur Russell a Brian Eno, e ha pure visto esplodere il punk davanti ai suoi occhi. In seguito ha ideato concerti per orchestre di centinaia di chitarre.

Gli abbiamo rivolto qualche domanda via mail, in previsione del concerto solista di domenica 1 ottobre a Santeria Social Club (Milano) del quale Noisey è fiero di essere partner. Il risultato è una vera e propria lezione di storia della musica (quella bella), condita di passione e entusiasmo.

Noisey: Vieni da un background assolutamente classico e accademico, come si passa da quelle radici al diventare una figura chiave e un’ispirazione per la no wave e il noise newyorkese?
Rhys Chatham: Ho cominciato come studente di composizione facendo musica post-seriale sulla scia di Luciano Berio e Karlheinz Stockhausen. Poi verso la fine degli anni Sessanta ho conosciuto Morton Subotnick, con cui studiavo alla New York University. Allora ho cominciato a lavorare con il Buchla e a fare musica elettronica. Mentre ero alla NYU, ho incontrato Charlemagne Palestine, che mi ha fatto scoprire la musica di lunga durata. Da lì sono entrato a far parte del gruppo di La Monte Young: The Theater of Eternal Music. John Cale e Tony Conrad avevano lasciato la band, ero nella versione dei primi anni Settanta, formata da Jon Hassell alla tromba, La Monte, Marian Zazeela e io alla voce, e qualche volta Terry Riley a collaborare con noi.

Alla fine dei Sessanta facevo musica generata elettronicamente il cui vocabolario era fatto interamente di ipertoni e tonalità accordate secondo l’intonazione naturale. Avevo una formazione da accordatore di clavicembalo e avevo accordato anche il Well-Tuned Piano di La Monte Young nei miei anni da studente, quindi per me accordare a orecchio le tonalità nei miei pezzi era una cosa relativamente semplice. La mia musica poi si è evoluta da questo punto di partenza. Allora ero un minimalista intransigente e sperimentavo con vari tipi di musica non scritta.

Andando a vedere un po’ tutte le nuove spinte della scena della art music della New York del tempo, compositori come La Monte Young e Charlemagne Palestine stavano lavorando con musica che seguisse l’intonazione naturale, Philip Glass stava dando inizio alla cosiddetta process music, Steve Reich stava esplorando le implicazioni della phase music, e Frederic Rzewski stava lavorando sulle differenze tra la musica scritta e quella non scritta. È stato intorno a quel periodo che sono stato al CBGB’s a vedere il mio primo concerto rock, i Ramones. Ascoltandoli mi sono reso conto che, da minimalista, avevo in comune con quella musica più di quanto pensassi. Ero affascinato dall’energia totalizzante e dalla pura potenza del suono, ma anche dalle progressioni degli accordi, che non erano troppo diverse da quelle di certa process music che ascoltavo al tempo.

Con il mio background da minimalista, la mia esperienza come accordatore di clavicembalo, e l’amore per il rock, ho composto nel 1977 un pezzo che mettesse insieme tutto quello che ero come compositore e come musicista.

Il pezzo si chiamava Guitar Trio, per tre chitarre elettriche, basso elettrico e batteria. Due chitarre erano accordate in modo più o meno standard, e una era accordata interamente in Mi minore.

Il contenuto melodico attingeva dal vocabolario musicale con cui avevo lavorato nella scena dell’avanguardia newyorkese e consisteva interamente di serie di ipertoni generati dalla corda del Mi della chitarra elettrica. La spinta ritmica e il modo in cui i musicisti suonavano insieme veniva direttamente dalla tradizione del rock. Per quanto ne sappia, è stata la prima composizione a fare uso di multiple chitarre elettriche e che facesse incontrare la lunga durata, la musica basata sugli ipertoni e del serio hard rock.

La tua popolarità è cominciata intorno al minimalismo, che ricordi hai di quel movimento così prolifico e brillante? Hai lavorato fianco a fianco con tutti i suoi grandi nomi, e anche con gente come Arthur Russell, nel periodo pionieristico del The Kitchen.
Ho una serie di ricordi talmente smisurata che sto scrivendo un libro su questo tema! Dovrei davvero impiegare qualche giornata intera per risponderti, oppure possiamo parlarne un po’ la sera del concerto!

Un’altra grande influenza è stata l’improvvisazione. Che ha anche radici italiane, visto che al fianco degli AMM c’era anche Musica Elettronica Viva. E in quegli anni hai lavorato con Frederic Rzewski.
Insieme a questi nuovi trend nella art music americana, verso la fine dei Sessanta c’erano entusiasmanti sviluppi anche in Europa, con il lavoro appunto di MEV e dell’AMM di Cornelius Cardew. MEV era composta praticamente da una serie di espatriati americani, come Alvin Curran, Steve Lacy, Frederic, Richard Teitelbaum e altri. Entrambi i gruppi erano costituiti almeno in parte da compositori che venivano dalla tradizione classica e che volevano liberare la loro musica dalle costrizioni delle partiture. Dopo l’uso dell’indeterminatezza da parte di John Cage e i primi tentativi di Stockhausen di introdurre elementi casuali nelle sue partiture, sembrava effettivamente quello il passo successivo da fare. Questo si traduceva in una struttura molto blanda, o nell’assenza totale di una struttura, per produrre musica libera, una musica immediata, fatta sul momento e come lo spirito del musicista in quell’istante la voleva. Rzewski in seguito è ritornato in America, dove ha dato inizio a una versione newyorkese di MEV, della quale ho avuto l’onore di fare parte. Frederic invitava tutti i suoi amici compositori a partecipare a delle jam session, cosa che la maggior parte di noi non aveva mai fatto. È stato lavorando con lui e con Karl Berger che ho imparato all’inizio come improvvisare.

Dopo aver lavorato per un po’ sulle tecniche di improvvisazione, Rzewski e gli altri hanno realizzato che c’era già una grande tradizione di improvvisazione cui attingere in America, cioè la cosiddetta art music afro-americana. Musicisti come Rzewski, Anthony Braxton, Garrett List, Muhal Richard Abram e Karl Berger hanno lavorato sodo all’epoca per rompere le tradizionali barriere gerarchiche tra la musica che veniva dalla classica tradizione dell’Europa Occidentale e la art music afro-americana. Era bellissimo vedere compositori da entrambe le tradizioni trovarsi finalmente a condividere idee e lavorare insieme.

Per definire il tuo stile, dopo il minimalismo, la musica classica e l’improvvisazione (e anche l’elettronica) manca ancora un elemento: il punk. Eri a New York in quegli anni, e lo hai visto sbocciare da vicino: che impatto ha avuto su musicisti “di più alto lignaggio”, come tu potevi essere considerato a quell’epoca?
Durante gli anni Settanta ero nel bel mezzo del presentare il mio lavoro sulla scena dell’avanguardia musicale della lower Manhattan: nel 1971 avevo fondato il programma musicale al The Kitchen, che all’epoca era un grosso loft su Mercer Street a Soho, che proponeva video, musica, visual art e danza. Dopo avere osservato quello che stava succedendo sulla scena della art music intorno al ’75 e al ’76, alcuni compositori hanno deciso che era possibile abbracciare il rock e farlo proprio. Invece di basare il proprio lavoro sulla musica e i ritmi dell’India o del Ghana, come avevano fatto Young, Riley, Glass o Reich, e invece di lavorare in un contesto di improvvisazione come Cardew o Rzewski, questo nuovo gruppo ha deciso di fare qualcosa di più o meno equivalente nell’area del rock. A New York durante la metà degli anni Settanta lavoravamo in questo ambito per esempio io, Laurie Anderson e Peter Gordon, mentre “Blue” Gene Tyranny e Paul Dresher lo facevano a San Francisco, e presto ci furono anche molti altri.

Era possibile farlo soltanto per via della distruzione delle gerarchie iniziata dall’avanguardia precedente, e in un certo senso si può dire che stavamo proseguendo nello spirito dell’investigazione modernista di quello che rende tale un’opera musicale. Continuavamo a chiederci “Anche questo può essere considerato art music?”. Questo ovviamente non voleva dire che il rock non sia arte. La domanda che ci facevamo era quanto in là potessimo spingerci nell’incorporare i ritmi, i suoni e le metodologie di lavoro del rock nell’art music prima che questa si trasformasse completamente in rock.

Anche il rock stava spingendo i suoi confini oltre i limiti. Nel 1980 era ormai diventata una pratica comune per le band quella di incorporare il rumore nella propria scala di suoni, non solo come un semplice effetto, ma anche come elemento vero, fondante, dei pezzi! Parliamo di gruppi come i Teenage Jesus and The Jerks di Lydia Lunch, James Chance, i Contortions, i DNA di Arto Lindsay e i primi Swans. A New York il mondo dell’arte stava abbracciando il nuovo rock, fino al punto che sembrava che metà del mondo delle arti visive frequentasse i club, mentre l’altra metà facesse direttamente parte delle band!

La rottura delle barriere che separavano i generi della art music, della musica improvvisata e del rock era completa. Artisti come Oliver Lake suonavano in spazi dove solitamente si faceva art music; compositori come me suonavano al CBGB’s o al Mudd Club; e musicisti rock come Brian Eno facevano installazioni sonore per le gallerie d’arte.

Che cosa pensi dei tuoi molti figli artistici, della tua eredità? Per esempio credo che i Sonic Youth possano essere visti come una declinazione più pop e orientata alla forma canzone di certe tue intuizioni e sonorità. So anche che sei un fan del drone e del doom metal, generi che mescolano il minimalismo e la chitarra elettrica un po’ come hai fatto tu.
A metà degli anni Settanta andavamo tutti ai concerti degli altri, o suonavamo nelle band degli altri. Le idee si incrociavano e si muovevano in continuazione. Qualcuno faceva un concerto, un altro lo ascoltava, prendeva la stessa idea e la sviluppava facendone qualcosa di diverso. Era un periodo estremamente creativo, entusiasmante.

Ho incontrato un chitarrista di nome Glenn Branca che stava in una band che si chiamava Theoretical Girls, e l’ho invitato a suonare in una delle prime versioni del Guitar Trio. Eravamo io, lui e Nina Canal degli Ut alle chitarre, e Wharton Tiers dei Theoretical Girls alla batteria.
Gli ho spiegato che l’intero vocabolario del pezzo era quello delle armoniche generate dagli accordi di Mi delle nostre chitarre. Gli ho spiegato cos’erano gli ipertoni. Che essenzialmente noi suonavamo una nota, e quindi la melodia stava nelle armoniche. L’idea gli è piaciuta da impazzire!

Glenn ha suonato con noi qualche volta, e poi ha preso quell’idea e ha dato vita al suo gruppo di chitarre elettriche. All’inizio non ero molto contento del fatto che usasse la stessa strumentazione e le stesse accordature che usavo io, ma poi ho ascoltato la musica e ho capito che aveva la sua voce personale. E dopo tutto nessuno ha il copyright su una strumentazione o su un’accordatura. Da allora, per rispondere alla tua domanda, sono molto contento e onorato quando sento della musica o band che hanno idee che possono arrivare in qualche modo da quello che ho fatto io. In particolare sono sempre stato molto fiero del successo dei Sonic Youth, che erano tutti miei amici. Penso che il modo in cui hanno mescolato le idee che venivano dal mondo dell’arte di downtown New York e le idee del minimalismo della musica contemporanea con la musica pop sia qualcosa che nessuno aveva mai fatto prima. Il loro suono era davvero unico.

Tu sei famoso per l’improvvisazione. Come funziona quel passaggio per qualcuno che, per formazione, è un compositore? L’improvvisazione è una forma di composizione?
La musica scritta e quella non scritta sono entrambe forme del fare musica. A mio modo di vedere l’improvvisazione è un sottoinsieme della composizione musicale. È uno dei modi che abbiamo per comporre un brano musicale.

La differenza tra la musica scritta e quella non scritta si incentra su un approccio diverso al lavoro sul contenuto musicale. Per esempio, il mio pezzo Guitar Trio poteva essere interamente scritto, ma si sarebbe perso qualcosa nel processo. Il pezzo è stato fatto in modo che potesse essere suonato soltanto da musicisti con una grande esperienza nel rock. Guitar Trio ha una struttura formale, ma il modo in cui i musicisti lavorano insieme somiglia molto a quello del rock. Io ho suonato la mia linea melodica sulla chitarra ogni volta allo stesso modo, invitando gli altri chitarristi a inventare le loro melodie che si sposassero con quello che stavo suonando, all’interno della struttura del pezzo – che era l’uso degli ipertoni come linea melodica. Una volta che arrivavamo a un punto che soddisfacesse tutti, il pezzo era pronto. Certo, le parti avrebbero potuto allora essere interamente scritte, ma il pezzo sarebbe risultato rigido.

D’altro canto, c’è musica che ha assolutamente bisogno di essere scritta. Per esempio, ho chiesto a Anton Fier (Feelies, Lounge Lizards) e a un altro amico batterista, James Lo dei Live Skull, di unirsi a me in studio per fare delle prove. Abbiamo provato a “improvvisare” musica marziale. Il risultato è stato un flop totale. La precisione che serve per suonare le intricate parti all’unisono della musica marziale ha bisogno di partiture. Quello che ho imparato da questa esperienza è stato che mentre la maggior parte della musica improvvisata suonerebbe ridicolmente rigida se venisse letta da una partitura, è vero anche il contrario: ci sono molte idee musicali la cui venuta al mondo può accadere solo attraverso rigidi procedimenti di scrittura. E come ha detto una volta il cornista francese Pascal Pongy a Gavin Bryars: “Nel momento in cui la musica si può scrivere allora si può anche suonare”.

Che cosa ascolta oggi Rhys Chatham? Che cosa trovi interessante? Riesci ancora a entusiasmarti per musiche nuove? So che negli anni Novanta ti eri innamorato della musica elettronica europea, la Warp, l’IDM, eccetera.
Negli ultimi tempi mi sono accorto di avere un rinnovato interesse per la musica elettronica. Sono stato all’Atonal a Berlino poco tempo fa e sono rimasto impressionato da molte cose che ho sentito, era davvero come una specie di tempio del suono, e molte delle performance erano piuttosto sperimentali. Mi ha fatto pensare di ritornare alla musica elettronica della mia giovinezza, al mio lavoro con il Buchla tra gli anni Sessanta e Settanta, all’elettronica che ho fatto tra gli Ottanta e i Novanta, e all’idea di ritornarci in un qualche modo che possa trasformarsi in musica per il 2020!

Pensi ancora che sia importante muoversi tra generi diversi, musiche diverse, avere una mentalità aperta, non rinchiudersi in una gabbia specifica? Credo che questa sia forse la caratteristica principale della tua carriera.
Ho cominciato come musicista classico con il flauto e il clavicembalo, poi nei miei vent’anni ho suonato il rock, a trenta ho passato dieci anni a imparare come suonare il jazz con la tromba, buttandomi poi nei Novanta sulla tromba estremamente distorta e accompagnata da beat elettronici. Simultaneamente lavoravo con la mia orchestra di cento chitarre elettriche, dal 1989 a tutt’oggi.

Dopo avere composto A Crimson Grail – il mio lavoro per una grossa orchestra di chitarre elettriche che ha debuttato al Sacré-Coeur di Parigi nel 2005 (con 400 chitarre) ed è stato rielaborato per lo spazio all’aperto del Lincoln Center di New York nel 2009 (200 chitarre elettriche e 16 bassi elettrici) – mentre stavo continuando a scrivere per eserciti di chitarre, ho sentito il bisogno di tornare alle basi, di ritornare al modo più intimo e diretto di vivere la musica: da solista.

Ritornando al modello di compositore come performer che era stato introdotto negli anni Sessanta da artisti come Tony Conrad e Terry Riley, ho cominciato a sviluppare pezzi solisti che avrei suonato per conto mio usando l’effetto di multi-second delay che aveva sviluppato Terry Riley con due registratori a nastro Revox.

Sentivo che c’era un legame con la mia generale estetica minimalista e che l’effetto (che dà l’impressione di strati e strati di strumenti che suonano uno sopra l’altro) avesse senso come proseguimento della mia idea delle cento chitarre. Ho creato e sovrapposto loop di feedback di varie durate usando il metodo di Riley, per generare ricchi stati che si sovrapponessero trascendendo le limitazioni dei loro punti di partenza e di fine, sviluppandosi in melodie che scorressero libere per conto proprio.

Com’è vivere con lo status di leggenda cucito addosso? Rende più difficile fare cose nuove?
È una domanda interessante. Il primo dovere dell’artista è quello di liberarsi dai propri maestri. Ogni compositore deve trovare la propria voce. Una volta che una voce è stata definita, il compito successivo è quello di liberarsi anche di quella e di fare qualcosa di nuovo. E questa è di gran lunga la parte più difficile. Una volta che un compositore o un musicista trova la sua voce o il suo stile, nella maggior parte dei casi incontra una difficoltà enorme ad andare oltre. In questo senso penso per esempio a Miles Davis che dopo essere diventato una divinità del cool jazz è passato all’elettrico con Bitches’ Brew. TANTA gente ha avuto da ridire. Io sono d’accordo con te, non è sempre facile per un compositore passare a qualcosa di nuovo. È più comodo e più facile continuare a fare la stessa cosa cui tutti sono abituati e per la quale uno è conosciuto. Almeno questo è quello che ho visto nella mia esperienza.

Come va con l’acufene?
Ho cominciato a avere questo problema negli anni Ottanta perché ho suonato troppo forte per molti anni. Il problema dell’acufene è che non migliora mai, ma c’è di buono che non peggiora nemmeno, a meno che uno non continui a suonare a volumi irragionevoli. È il motivo per cui i miei concerti non sono più super rumorosi, non hanno più volumi estremi. Ora suono sempre a volumi ragionevoli, quindi sono contento di poter dire che il mio udito è ok!

Cosa ci dobbiamo aspettare da un concerto solista, senza le centinaia di chitarre per le quali i tuoi spettacoli sono noti in tutto il mondo? Una situazione più intima? Un set up più minimale?
La prima parte del concerto solista che farò nei concerti di Bologna e Milano, Pythagorean Dreams, è composta di un’introduzione alla tromba, seguita da un pezzo per chitarra che implementa la tecnica del finger picking (sono un fan di lunga data di questo stile; John Fahey è stato uno degli eroi musicali della mia adolescenza), prima di passare a una parte per eBow, per poi concludere con la tecnica del flat-picking con tremolo veloce che uso anche per i pezzi con le cento chitarre.

La seconda parte invece è principalmente dedicata al mio ritorno al flauto, lo strumento che ha dato il via al mio amore per la musica contemporanea, e che ho studiato a fondo durante l’adolescenza prima di concentrarmi sulla chitarra elettrica dopo aver visto i Ramones. Componendo questo lavoro solista, ho pensato che il timbro del flauto avrebbe garantito un contrasto interessante rispetto alla chitarra e alla tromba, ed è per questo che ho deciso di rispolverare quello strumento. C’è poi un finale dedicato ancora una volta alla chitarra.

Quello che mi sono chiesto è stato: “come posso far sì che un solo strumento suoni come centinaia di strumenti?”. L’ho fatto attraverso l’uso di multipli loop di feedback e delay. Li imposto con durate differenti e poi suono lo stesso riff su ciascuno di essi, il che crea un effetto di phasing. Il risultato è che il suono finale non suona per niente come un loop, ma come una melodia infinita e che non si ripete mai, il cui suono è eterno come un tramonto all’orizzonte tra le montagne.

Rhys Chatham suonerà a Santeria Social Club, a Milano, domenica 1 ottobre. Acquista i biglietti in prevendita e segui l’evento su Facebook.

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