Música

Musica sfasata: intervista a Riccardo Sinigaglia

Riccardo Sinigaglia è uno degli sperimentatori elettronici più importanti del nostro Paese, attivo dapprima nell’ensemble di Roberto Cacciapaglia, e poi con mille altri progetti (sono molti di più i dischi in cui ha collaborato con qualcuno che non quelli che ha realizzato da solo).

Se anche i suoi dischi solisti, come Watertube Ringspiel o il bellissimo Riflessi (appena ristampato da quella Soave che in poco tempo sta mettendo insieme un catalogo di tutto rispetto) meritano moltissima attenzione, c’è un progetto che più di altri farà ricordare per sempre questo musicista agli appassionati di certe musiche in tutto il mondo, e si tratta sicuramente di Futuro Antico.

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Dapprima con il solo Walter Maioli (reduce dall’esperienza degli Aktuala), e in seguito anche con il musicista del Burkina Faso Gabin Dabiré, il gruppo è stato fra i primi a mescolare le influenze della cosiddetta world music e la musica primitiva di strumenti non convenzionali con l’elettronica, che era il campo in cui appunto si muoveva Sinigaglia – realizzando lavori estremamente importanti, oltre che molto belli, che hanno acceso l’interesse dei cultori di tutto il mondo quando sono stati ristampati nel 2014 dalla sempre meritevole etichetta milanese Black Sweat.

Questa intervista è stata fatta nell’estate del 2016 ad Ameno, il paese immerso nella natura sopra al lago d’Orta dove Sinigaglia si è ritirato da molti anni con la moglie, il cane e tantissimi strumenti musicali, in una casa con studio di registrazione annesso.

Cogliamo l’occasione della reunion dei Futuro Antico, che si svolgerà questo weekend a quello splendido festival che promette di essere Zuma, per presentarvela.

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Noisey: Di abitudine per questo tipo di interviste partiamo dall’inizio, dalla nascita e la formazione, l’interesse per la musica. Tu sei nato ad Arona?
Sì, fino ai cinque anni abitavo a Oleggio Castello, poi ci siamo trasferiti a Milano e ho sempre vissuto lì. Però avevo i nonni ad Arona e sono sempre rimasto legato a questa zona. Poi amando la tranquillità e la pace appena mi è stato possibile ho preferito ritornare. Inizialmente facevo un paio di giorni qui e il resto a Milano, poi il tempo qui è andato sempre più aumentando, e insegnando in Conservatorio solo due giorni alla settimana ho preferito trasferirmi del tutto e venire a Milano solo per il lavoro.

C’erano musicisti in famiglia?
No, però mia zia suonava un po’ il pianoforte e le piaceva la musica classica. Un giorno intorno ai dodici anni mi è capitato tra le mani un disco di Franz Liszt, l’ho sentito e mi ha lasciato sconvolto. Da allora è nata la passione e mi sono messo a prendere lezioni di pianoforte. Fino ai sedici anni ho ascoltato esclusivamente musica classica. Essendo molto curioso ho portato la classica sempre più in là, verso musicisti intermedi tra classica e jazz come Gershwin, da cui il passo è stato breve ad arrivare al jazz di Ray Charles. E da lì ho scoperto anche il rock progressive come Jimi Hendrix e Canned Heat, anche quelli mi hanno influenzato molto.

Parallelamente, andando più verso la musica contemporanea, ascolti Stravinski, Bartok, poi Berio, la musica elettronica… E un altro sconvolgimento, un mondo di altre possibilità espressive! A quel punto mi sono iscritto al Conservatorio al corso di musica elettronica, dove ho trovato un maestro come Angelo Paccagnini, che all’epoca era anche il direttore dello studio di Fonologia della Rai. Siccome in conservatorio non c’erano attrezzature facevamo lezione lì, con le attrezzature storiche che adesso sono impacchettate nel museo del Castello Sforzesco!
Vedere gli strumenti che usavamo come il massimo della tecnlogia accanto a clavicembali e spinette mi ha fatto sentire un po’ antico!

Hai fatto il liceo a Milano?
Sì, il liceo artistico. Dove ho conosciuto per esempio Matteo Guarnaccia con cui collaboro ancora oggi. Poi ho fatto architettura però alla fine ero sempre in Conservatorio, perché mi sembrava di imparare davvero qualcosa. All’epoca il Conservatorio non era proprio un’università, quindi intanto si studiava altro, soprattutto i compositori. Magari gli strumentisti puri meno, loro si dedicavano solo a quello. Tra noi invece tanti facevano architettura, anche il mio amico Piero Milesi.

Ti sei laureato in architettura?
Sì, però non ho mai praticato. Ho lavorato un po’ in uno studio, mi sono accorto che l’80% del lavoro era burocratico e ho capito che non faceva per me. Poi se fai l’architetto è un mondo durissimo, se il tuo lavoro non piace o ci sono casini politici rischi pure di finire dentro, mentre se fai il musicista e la tua musica non piace quantomeno nessuno ti può fare cause o farti arrestare [ride].

E già nel frattempo suonavi.
Sì, e mi interessava molto di più.

Il liceo l’hai fatto negli anni ’70 quindi in un periodo caratterizzato da un certo fermento.
Sì, molto diverso da adesso. Ho partecipato a tutti i festival del Parco Lambro. Sia suonando da solo, che con l’ensemble di Cacciapaglia. Collaboravo anche con il gruppo dei Jumbo di Alvaro Fella. E Demetrio Stratos, Battiato, li ho conosciuti tutti. Battiato era in trio con Cacciapaglia alle tastiere e Gianfranco D’Adda alla batteria, e io facevo parte di un ensemble con loro, in cui c’erano anche Piero Milesi, Mario Arcari, e tanti con cui ho collaborato anche in seguito. Con quell’ensemble non abbiamo mai registrato, eravamo in dodici quindi suonavamo poco, solo in grandi festival, ed era sempre un caos trovarsi, oltre che essere costoso. Avevamo fatto anche delle trasmissioni televisive. Con Roberto ho collaborato a lungo anche in altri progetti. Non ci sentiamo più tanto ma siamo amici.

Questo è anche il periodo in cui hai conosciuto Walter Maioli e frequentavi la sua casa adibita a comune in via Ripamonti.
Sì, vivevano tutti assieme. Si suonava, si improvvisava. A quel tempo io avevo varie attività: suonavo con Cacciapaglia, poi avevo un gruppo di improvvisazione elettronica del Conservatorio, e poi facevo i concerti anche da solo con i Moog… E facevo parte della Cooperativa L’Orchestra.

Quella di cui faceva parte anche Moni Ovadia?
Sì, lui era il vice presidente e Franco Fabbri degli Stormy Six il presidente. Infatti, per esempio, Tommaso Leddi degli Stormy Six faceva parte anche di Correnti Magnetiche: lavoravamo spesso insieme, facevamo le musiche anche per documentari, tante cose. C’era molta vivacità e rapporti proficui, un movimento diffuso, progetti che si incrociavano. Poi con il tempo… Io ho preferito venire qua, Tommaso si era sposato e era andato a vivere a Viareggio. Ci si perde a volte. Si è ancora amici ma non ci si vede più tanto. Mentre quando avevo casa a Milano per esempio lui aveva le chiavi, veniva quando voleva, Gabin Dabiré (che era in Futuro Antico) pure, Walter [Maioli] in casa mia ci ha vissuto con la sua compagna per parecchi mesi… C’era un interscambio continuo.

Allora c’era il concetto che suonare insieme era anche vivere insieme, al di là di un rapporto solo professionale. Passare tanto tempo insieme, non solo le prove. Oggigiorno spesso è difficile, ovviamente anche per l’età. Intanto le persone con cui suono abitano tutti nelle città più diverse e lontane, fare una prova è un delirio, anche solo per riuscire a trovarsi.

Anche il trio d’archi di fratelli con cui suono, il Trio Cavalazzi, ragazzi giovanissimi, hanno un sacco di impegni: il violinista, il fratello maggiore, suona anche con gli Einstürzende Neubauten, quest’estate suonava coi Blonde Redhead. Loro sono impegnatissimi, del resto sono veramente bravi: suonano dalla musica classica a queste cose qui, o le improvvisazioni con me. Anche se mi metto a vagare per le tonalità più strane loro mi seguono sempre. Il 90% di quelli che fanno musica classica di solito invece non si muove da lì e se gli togli la partitura da sotto il naso non sanno più cosa fare.

Una cosa che trovo molto interessante di te e di altri musicisti dell’epoca come Lino Capra Vaccina è che pur avendo fatto certi studi, insegnando, essendo perfettamente inseriti anche in un discorso accademico, siete comunque in grado di essere molto liberi, spaziare, avere fantasia.
Diciamo che io ho potuto avere una formazione classica perché ho trovato un insegnante come Angelo Paccagnini che a sua volta amava la libertà, ci dava tanti input, ci lasciava fare. Anche rispetto a cose non di suo gusto.

Anche io nei confronti dei miei allievi cerco di fare lo stesso, ho degli allievi che fanno una sorta di techno alla Aphex Twin, con ritmi molto scombinati e un suono molto duro, anche lontano dai miei gusti. Però mi trovo bene lo stesso, li apprezzo e sento il loro entusiasmo e la loro capacità. Con due di loro, che hanno un progetto che si chiama T.E.S.O., abbiamo fatto anche una serata in una discoteca, all’Osservatorio Astronomico del Dude, in cui loro facevano le loro cose e io mi inserivo con il Moog e cose di questo tipo, ed è stato molto bello.

Non bisogna stare chiusi, fermi in un ambito ristretto, è molto più bello spaziare. Se no uno rischia di fare sempre la stessa cosa in mille varianti, ed è più interessante esplorare mondi diversi.

Del resto anche Futuro Antico aveva questo significato, i suoni dai primitivi all’elettronica: mixare insieme mondi che sembrano lontani – e che poi non lo sono davvero. Per esempio con il Moog puoi lavorare molto sulle frequenze e andare al di là della scala temperata. Quello che per me è l’orrore della musica commerciale tipica è che il tempo è un quattro quarti liscio, le melodie sono semplici, l’armonia è sempre lo stesso giro che puoi cambiare in mille canzoni… È un mondo ristretto. Come l’industria e la sua catena di montaggio: sono simmetrici, è la trasposizione musicale della vita in quel modo lì.

Mentre tu preferisci un altro tipo di mondo.
A me i ritmi perfetti per esempio danno molto fastidio, cerco sempre di fare sfasamenti, ritmi un po’ ballerini, che rallentano e accelerano. In certi casi faccio anche della musica con sovraincisioni, però non uso mai il metronomo, al limite mi adeguo sulle piste successive a quello che ho fatto prima.

Con Sergio Armaroli, percussionista classico che suona benissimo anche Nono o Solbiati, abbiamo fatto un lavoro (Danza Meditativa) con Italo Bertolaso che ci ha dato delle basi registrate su cassetta negli anni ’80 in Belucistan in delle feste sufi, il suono non era perfetto e Sergio ci ha risuonato sopra le percussioni, perché ha quell’elasticità mentale.

Cosa insegni al Conservatorio?
Insegno musica elettronica, ho iniziato nell’84 e per almeno vent’anni sono stato l’unico insegnante. Con delle regole diverse da adesso: allora per iscriverti dovevi avere già un diploma di conservatorio. Questo significava che i miei allievi andavano dai 25 fino anche ai 35 anni ed erano già formati, era una specializzazione. Venivano una volta a settimana, lezioni individuali finalizzate a quello che voleva l’allievo e che gli interessava di più. Era quasi una consulenza, un aiuto.

Mentre adesso essendo diventata un’università vera e propria per iscriversi basta avere la maturità, quindi a volte ti capita anche quello che non ha mai studiato musica. C’è un esame di ammissione, noi cerchiamo di prendere sempre con una certa larghezza perché da quello non è che si capisca molto, poi invece nel primo anno si vede, e molti rinunciano spontaneamente.
Ci sono piccoli corsi di teoria, un po’ di pianoforte…

Adesso l’allievo è mediamente molto più giovane e deve venire tutti i giorni a lezione tutto il giorno, ci sono tante materie e man mano da unico insegnante che ero ormai siamo cinque. Ci siamo divisi a seconda delle competenze le varie materie, che invece una volta erano praticamente tutte insieme in un corso unico. Naturalmente le materie più pesanti le abbiamo messe tutte al primo anno! Io li prendo dal secondo invece, così sono già un po’ di meno, perché lavoro molto sulla pratica.

Che materie segui adesso?
Composizione audiovisiva, tecniche di registrazione, tecniche di postproduzione audio e audiovideo (con gli studenti divisi in team, un lavoro complesso e molto bello).

Tu sei diplomato in pianoforte?
No, in musica elettronica. Il pianoforte l’ho sempre suonato ma più da amatore.

Il corso iniziò nel ’69. Era molto bello, il nostro maestro, Paccagnini, spaziava in tutti i mondi, sempre interessante. Anche se lui purtroppo è stato un po’ ostracizzato, anche quando si parla di Fonologia si tende a non nominarlo. All’epoca andava molto il serialismo più spinto, e chi lavorava in modo più libero come lui rimaneva un po’ emarginato.

Le prime uscite discografiche che ti hanno visto coinvolto possiamo dire che sono state quelle di Futuro Antico?
Sì. Con Cacciapaglia suonavo dal vivo, facevamo più o meno quei brani ma quando ho cominciato a suonare con lui Sei note in logica era già uscito. Il primo LP di Futuro Antico l’abbiamo fatto io e Walter da soli, lui appena tornato dall’Oriente. Dopo lo scioglimento degli Aktuala aveva vissuto per quattro anni tra India, Nepal… Poi ci siamo ritrovati e ci siamo messi a suonare insieme. L’idea era di mettere insieme i suoni della musica orientale, della musica primitiva, insieme all’elettronica. Dove io mettevo l’elettronica e Walter suonava il flauto ney, suonava i semi, gli ossi d’acquila, i rombi volanti… Un po’ di tutto.

Strumentazione che lui aveva scoperto nei suoi viaggi e nei suoi studi.
Sì. Ci siamo trovati molto bene, lui a un certo punto è venuto anche a stare a casa mia, si stava sempre insieme e si suonava giorno e notte. Poi è arrivato anche Gabin Dabiré, Walter l’aveva conosciuto a Katmandu e poi si è inserito anche lui, e in trio abbiamo trovato un’ottima unione.

Prima dei dischi avete fatto innanzitutto molti concerti.
Sì, abbiamo registrato da me, ma intanto suonavamo molto in giro.

Avevi uno studio di registrazione casalingo?
Sì, avevo lo studio a Milano vicino a via Paolo Sarpi, che aveva un grande locale di tipo ottanta metri quadri a pian terreno che andava molto bene per lavorare, e si prestava molto all’improvvisazione collettiva.

Con Gabin Dabiré registraste poi Dai Primitivi all’Elettronica .
Sì. Noi producevamo anche in proprio le cassette, che vendevamo agli spettacoli. Ne facevamo tanti e avevamo sempre il banchetto con le cassette, si faceva autoproduzione. Il materiale è quello che poi si trovava nei dischi. Adesso ho recuperato questo concerto che avevamo fatto a Bologna, registrato molto bene, e così esce per Black Sweat.

I dischi di Futuro Antico escono nei primissimi anni Ottanta, ma il materiale che è uscito di recente con il titolo Scorrevole è precedente, giusto?
Sì, risale a quando ancora studiavo in Conservatorio. È stata una coproduzione italiana e giapponese, stampato in Giappone.

Invece Watertube Ringspiel fu una cassetta uscita su ADN, che adesso lo ha ristampato.
È più un’ambient music, faccio tutto con dei loop di nastro che però al tempo facevo prendendo il nastro, facendo il loop a seconda dei secondi che doveva durare, tot centrimetri ogni secondo, usando poi un’asta microfonica per tenderlo, e da lì registrandolo sul quattro tracce, intanto magari muovendo l’equalizzazione, facendo dei cambiamenti… E un altro loop su un’altra pista e così via. Intanto che il loop girava io facevo questi cambiamenti, enfatizzavo armonici eccetera. Allora, senza il computer, un loop era una cosa delicata, che tagliavi con le forbici e dovevi gestire a mano.

Da dove traevi ispirazione per queste cose? Ascoltavi Brian Eno per esempio?
Sì, e poi erano le tipiche tecniche che avevo imparato allo studio di Fonologia. Uno dei primi esercizi che il maestro mi aveva fatto fare era di realizzare un pezzo prendendo tutte le frequenze. C’erano gli oscillatori fissi a Fonologia, quindi tu facevi una miscelazione di suono, la incidevi sul nastro, poi prendevi il tuo pezzo di nastro da, non so, dieci metri, lo appendevi a un muro e quello era il suono uno. Ne prendevi un altro, un’altra combinazione di suoni, e quello era il suono due, e così via. Dopodiché li attaccavi tutti insieme tagliandoli con le forbici e facevi il tuo pezzo.

Lì in fonologia c’erano due registratori stereo, due registratori mono, e due registratori a quattro piste. Il missaggio si faceva con questi, se c’erano dei materiali che dovevano essere ritmici li mettevi sul quattro tracce, quelli che invece erano tipo fasce sonore li potevi tenere sui registratori mono o stereo, poi li mandavi tutti assieme e li miscelavi. Era una tecnica veramente complessa, adesso è molto facile: fai un loop, poi se non ti piace lo cambi.

Io da un lato ascoltavo Berio, Stockhausen… dall’altro la musica etnica, indiana, araba… da un altro anche il rock progressive, il jazz, una multi influenza. Io non mi sono mai sentito un compositore di musica contemporanea, ma nemmeno un jazzista. Sono un po’ a metà tra tutto.

Questo ti dà una maggiore libertà a livello creativo però forse è più difficile vendersi in questo modo.
Certo, perché non sanno dove inquadrarti, e non fai parte di un giro preciso, circuiti precisi. Però io voglio fare quello che sento e in cui credo.

Un periodo abbiamo messo su un’associazione che si occupava proprio di musica contemporanea, abbiamo fatto anche collaborazioni con enti vari come il comune di Milano, però lo trovavo molto angusto. È un mondo di cui poi alla fine l’unico compositore che mi piace davvero tanto e che riesco ad ascoltare davvero spesso e volentieri è Stockhausen, che nonostante la sua stranezza ha sempre qualcosa di interessante. Ed era un personaggio speciale, con un magnetismo particolare.

Sono forse di più i lavori che hai fatto in collaborazione che le cose che hai fatto da solo.
Sì, perché mi piace suonare da solo, però mi piace di più suonare con altri, per lo scambio di energie molto importante che si genera. Puoi scoprire cose a cui da solo non potresti arrivare.

Le uniche esperienze non troppo positive che ho avuto sono state alcune volte che degli strumentisti hanno interpretato miei pezzi in maniera troppo schematica: io li invitavo a maggiore libertà ma alla fine un certo imprinting accademico ti lega molto.

Il problema di cui già parlavamo. Che poi quello dell’accademia è un mondo di cui fai parte.
Certo. Così do la possibilità ad altri con una mente simile di potere andare avanti. Se no magari sarebbero subito eliminati. Se io non avessi trovato un maestro come Paccagnini ma qualcun altro sicuramente mi avrebbero mandato via. Insegnare significa cercare di aiutare altri più giovani a trovare una loro via, dare loro degli stimoli.

E anche negli studenti trovi degli stimoli.
Certo, è sempre un interscambio.

Dopo Watertube Ringspiel viene il tuo altro importante lavoro solista che è Riflessi , che esce sempre per ADN.
Sì, un LP fatto sempre con quel metodo del montaggio coi nastri, con un otto piste e strumentazione varia, forse avevo già anche il primo computer, e poi molte registrazioni fatte in giro di suoni della natura, molte qua sul lago, anche in canoa.

Intonazioni Archetipe di Futuro Antico che cos’è?
Nel 2005 dopo tanto tempo ci siamo ritrovati, siamo stati una settimana insieme vicino a Roma dove in quel periodo stava Walter, e lo abbiamo inciso. Ogni tanto ci sentiamo, il problema è che Gabin sta in Toscana, Walter sta a Castellammare di Stabia e io sto qui, quindi è sempre difficile vedersi.

Un altro progetto importante è Correnti Magnetiche, un progetto audiovideo.
Sì, infatti è nato dall’incontro con Mario Canali che in origine era un pittore e poi si è messo a lavorare con il computer. Abbiamo fatto una prima mostra in cui anch’io avevo fatto un video in Basic, allora non c’erano i programmi di grafica, quindi i video si facevano scrivendo proprio il codice. Mesi di lavoro per cose che se le vedi adesso fanno ridere.

Sul video di Mario io avevo fatto le musiche, e abbiamo continuato con l’idea di questo gruppo. All’inizio io e lui, uno audio e uno video, poi siccome ho sempre avuto quest’idea dell’arte collettiva, senza un unico vero autore, ci siamo un po’ allargati: per le musiche ho cominciato a tirare dentro anche Tommaso Leddi, lo stesso Gabin Dabiré, il violinista Maurizio Dehò…

Nei festival queste cose collettive a nome Correnti Magnetiche erano sempre poco accettate, perché preferivano avere i nomi singoli. Un esempio di questo tipo di improvvisazione che avvenivano è quel Correnti Magnetiche Live che è uscito per ADN, mentre poi c’è l’album di musiche fatte in studio, alcune anche che utilizzavamo per i video.

Questi video dove li presentavate?
Festival in Italia, Germania, Stati Uniti, abbiamo fatto anche la Biennale a Fukuya in Giappone. Anche nel nuovo disco Dimensions molti nomi ritornano: Mario Arcari, Maurizio Dehò, Rossana Maggia. Ma anche nei dischi Dublin Rider ci son sempre anche loro.

Francesco Palladino iniziò questo progetto di mail art, coinvolgendo Luigi Andreoni che era più musicista, e poi mi ero associato io. All’inizio eravamo un trio, e poi man mano collaborazioni con altri. Registravamo una base da noi, poi si spediva il nastro a un musicista americano, lui registrava sopra e ce lo rispediva. Una collaborazione pre-internet, soltanto che allora ci volevano mesi.

Esisteva, se vogliamo, una specie di ensemble allargato che poi ha preso vari nomi, varie incarnazioni.
Sì, alla fine per dire Mario Arcari era con noi anche nell’ensemble Cacciapaglia, in un disco dei Dublin Riders c’è anche un pezzo con Piero Milesi, nel suo disco The Nuclear Observatory of Mr. Nanof partecipo anch’io, e anche Mario. Ci sono state tante connessioni. Alla fine il giro milanese era quello.

Un altro progetto musicale che non abbiamo citato fino a qui è The Swimmers Quintet.
Abbiamo fatto diversi concerti, anche un progetto alla Biennale di Venezia. Alzek Misheff era un personaggio veramente pazzesco, si era fatto costruire questo cilindro che riempiva d’acqua e poi lui suonava dentro al cilindro con il Lightning, che era un sintetizzatore fatto da Don Buchla che lui poteva usare anche sott’acqua: mandava fuori degli infrarossi che comandavano un sistema midi. Lui è prima di tutto un artista visivo. Eravamo un quintetto di cui quattro suonavano sul palco strumenti acustici – io il pianoforte – e lui faceva questa cosa. Musica improvvisata, strana. Abbiamo fatto anche un concerto con Don Buchla stesso. Non avevo mai sentito altri suonare il Lightning come lui, che del resto lo aveva costruito, lo guidava in maniera davvero impressionante. Questo Lightning controllava poi un Buchla. Dopo Alzek si è comprato un disklavier, uno Yamaha Coda midizzato, e lo suonava con questo, quindi vedevi i tasti che si abbassavano da soli. La precisione era quello che era, suonando su una tastiera immaginaria nell’aria, però per un certo tipo di suoni andava bene. E i musicisti di questo progetto erano tutti molto bravi.

Dimensions è una nuova uscita. Però le registrazioni risalgono a quando?
’89-’91. La particolarità è che sono pezzi scritti, con la loro partitura: è il mio unico lavoro fatto così, senza tagli e nastri e cose di quel tipo. Anche se poi i musicisti avevano la libertà di improvvisare e di metterci del loro.

Quali sono stati i tuoi musicisti di riferimento?
Ho amato molto la musica classica, le grandi orchestrazioni, autori come Mahler, Prokojeff, Stravinski, Bartok eccetera ma anche Liszt e anche quelli precedenti.

Invece in altri ambiti ho ascoltato molto la musica indiana, ovviamente a partire da Ravi Shankar che era il più famoso; nel campo del jazz sono rimasto molto impressionato dal Miles Davis elettrico dell’epoca di Bitches Brew, Live Evil… Ho anche avuto la fortuna di ascoltarlo in Conservatorio quando ha fatto un concerto, proprio con quel tipo di formazione. Suonava un jazz però senza interruzioni, magari con un riff dall’inizio alla fine: praticamente musica modale, molto libera, in cui poi ogni strumentista faceva i suoi assoli liberamente. C’era anche Wayne Shorter. Anche i primi Weather Report mi piacevano molto, solo i primi però.

Mi ha influenzato molto Terry Riley, che tra i minimalisti è quello che preferisco perché è il più libero. Non è schematico. The Harp of New Albion è uno dei miei preferiti: un doppio di solo pianoforte accordato secondo un’accordatura particolare, bellissimo, segue proprio i flussi, le onde sonore.

Ascoltavo molto anche Don Cherry, che ha suonato prima di noi Ensemble Cacciapaglia al Parco Lambro una volta. Una situazione terribile, il caos più totale, io ero dell’idea di andarmene, avevamo discusso, Battiato se n’era andato, io non potevo perché avevo gli strumenti di tutti in macchina. C’erano 500 persone di servizio d’ordine ma era successo di tutto. C’era molta agitazione, per fortuna Don Cherry aveva calmato un po’ gli animi prima di noi. Erano già almeno le due di notte, per tutto il giorno c’era stata gente che saltava sul palco, gente che la buttava giù, gente che diceva che dovevano poter suonare tutti e non solo i musicisti… Un delirio proprio. Mentre nei precedenti festival io avevo suonato da solo col Moog e lì era una situazione tranquilla, c’erano 20 mila persone. Invece in quest’ultimo ce n’erano 80 mila ed era diventato incontrollabile. Basti dire che 500 persone di servizio d’ordine erano state travolte.

Un altro musicista che mi piaceva molto era Jon Hassell, con quel suono di tromba. Infatti io spesso suono il flauto con quel tipo di sonorità lì.

Mi piacevano molto più questi che non altri minimalisti come Steve Reich o Philip Glass, che ascoltavo anche volentieri, però questi erano quelli più vicini al tipo di sensibilità che ho io.

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E forse sono anche quelli che guardavano più a Oriente.
Vero. Anche La Monte Young. Però lui a volte lo trovo un po’ troppo statico.

Una volta in un festival che abbiamo organizzato a Milano è stato fatto un pezzo di Morton Feldman di quattro ore… veramente lento. A un certo punto avevo fame: dall’Ansaldo sono uscito e sono andato a mangiarmi un panino al bar Magenta, e quando sono tornato sembravano ancora allo stesso punto. Un minimalismo proprio estremo! Io sono per un minimalismo più vario, e comunque metto sempre delle rotture. Ci deve essere questa fase ipnotica ma poi per me ci dev’essere anche un’energia potente che esce, come per risvegliarti, che fa ancora più effetto.

Sono stato anche con dei monaci tibetani, ho registrato i loro rituali, e anche quelli in effetti sono concepiti così: vanno avanti magari venti minuti con una cosa che ti ipnotizza e poi partono con suoni iperstridenti, cimbali, tamburi giganti picchiati a tutta forza… che ti danno un colpo notevole.

Un’altra parte importante della tua vita sono stati i viaggi.
Sì, per me è molto importante viaggiare. Adesso non viaggio più da tanto tempo, però quando avevo 25-30 anni viaggiavo molto: Nord Africa, Oriente… Avevo un Ford Transit con cui viaggiavo bene. Anche in moto, però i viaggi così lunghi li facevo col furgone. Con amici, oppure una volta sono partito anche da solo e ho fatto il giro di mezzo Mediterraneo: Francia, Spagna, Marocco, Algeria, Tunisia e poi son tornato su da Trapani. Però a quel tempo partivi da solo e dopo prendevi su qualcuno in autostop, e si usava che ti pagavano il passaggio quindi non spendevi niente di benzina, magari tiravi su anche sette, otto persone. Si dormiva in parte in furgone, o in parte fuori, anche sul tetto. Non ci si faceva troppi problemi. Con quel metodo lì ho fatto un po’ tutta Europa. Poi in aereo India, Iran, Hong Kong, Tailandia, Senegal, Gambia, Kenya…

Il deserto è molto affascinante, viaggi per ore senza incontrare nessuno. Anche se mi è capitato di trovarci la pioggia torrenziale, e il deserto diventa come un lago, ci siamo insabbiati: tutti a spingere, con le pale…

La cosa interessante era andare non proprio da turista ma conoscere la gente, starci insieme. Era molto bello viaggiare così, con americani, francesi, marocchini.

A un certo punto hai deciso di trasferirti qui, lasciando Milano.
Sì. Per me è importante per esempio uscire e farmi una mezz’ora di passeggiata, per poi magari tornare e lavorare. A Milano c’è troppo caos per i miei gusti. Qui c’è molto silenzio. Questa casa l’ho ristrutturata, messa un po’ a posto, ma il riscaldamento e la manutenzione della casa mi tengono comunque abbastanza occupato, soprattutto in inverno.

Mi raccontavi di quel periodo molto fertile dal punto di vista creativo, fatto di improvvisazioni, vita in comune, e mi chiedevo se in questo contesto c’era un tipo di creatività anche stimolata da agenti esterni come sostanze varie o era una sperimentazione sobria?
Dipende: io quando suono solitamente preferisco essere ben sobrio per avere modo di andare in una trance naturale e essere più cosciente di quello che fai. Sentire un flusso di energia e seguirlo, quello sì. Altri invece ovviamente avevano un approccio molto diverso.

Quando pensi a quegli anni li rimpiangi?
Un po’, ma non troppo. Va bene così, le cose cambiano. Certo negli anni Settanta pensavamo che il mondo sarebbe cambiato in meglio e avremmo creato una nuova società, purtroppo invece non è successo niente di tutto ciò.

Magari siete riusciti a crearvi delle piccole isole di autonomia.
Sì, io ho preferito anche stare dentro a un’istituzione per dare magari una voce diversa al suo interno, che mi sembrava una cosa importante. Altri hanno fatto scelte diverse, molti si sono anche persi del tutto. Però vedo che c’è tutto un nucleo di amici che comunque in qualche modo resta su una stessa linea, e andiamo avanti.

Anche politicamente forse la scelta di molti di voi era più indirizzata non verso un messaggio esplicito, con dei testi che esprimessero delle istanze precise, era più…
Una visione alternativa globale, quella di vivere in un modo diverso. Per creare una società diversa in un certo senso devi cominciare a diventare diverso tu e non cercare la fama, i soldi eccetera. In questo credo sempre molto. Certo se uno dice così ma poi sotto sotto cerca sempre il potere o i soldi non è bello—tanti che in quell’epoca erano leader di movimenti extraparlamentari poi sono diventati dei leader politici di tutt’altra natura, perché alla fine gli interessava prima di tutto il potere.

Secondo me la musica deve parlare da sé, e la rivoluzione deve essere fatta innanzitutto dall’interno, e poi se c’è tanta gente che vive in un modo diverso magari anche la società adagio adagio può cambiare. Però tutti quelli che hanno fatto le rivoluzioni alla fine hanno semplicemente sostituito un gruppo dirigente con un altro che è diventato nel tempo uguale.

La rivoluzione che cambia le cose senza prima cambiare le persone funziona poco.

Poi la realtà è molto complessa, ed è molto difficile capire cosa bisognerebbe fare o anche solo interpretarla, forse si può cominciare a capirla solo dopo cent’anni, e non nel momento stesso in cui la si vive.

Tu comunque sei soddisfatto delle tue scelte?
Sì, del resto le hai fatte in base a quello che sapevi al momento, quindi comunque sia fatalmente le rifaresti. Tutte le musiche che ho fatto comunque per me sono parte di una linea sulla quale tuttora vado avanti. È anche bello comunque che uno possa cambiare idea, o fare cose diverse nel corso di una vita. L’importante è fare sempre quello in cui si crede, cambiare perché si crede in quello che si fa.

La storica reunion di Futuro Antico avverrà sabato 3 giugno a Zuma, Milano. Ulteriori informazioni sul sito del festival.

Federico scrive di musica 24 ore su 24 per tutte le pubblicazioni dell’universo conosciuto. Seguilo su Twitter: @justthatsome.

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