Idealmente, la parte centrale della riviera adriatica è divisa piuttosto nettamente in due parti, un po’ come in tutti i giochi di Legend Of Zelda da A Link To The Past in poi. A dividerle sono, ovviamente, differenze di natura sociale e culturale, più di quante ce ne potrebbero mai essere di geografiche. Oggi si tratta di categorie dello spirito stantie, ma quando ancora questa separazione era supportata da una specie di base “di fatti”, esisteva una metà giusta verso cui puntare in direzione “divertimento”. Ce n’era poi una incredibilmente sbagliata, fatta di luoghi e situazioni del tutto simili ma che, per chi abbracciava questa idea della realtà, ne erano solo la versione sfigata, triste, grottesca.
Ovviamente io sono nato e cresciuto lì, nelle depresse e tossiche Marche, che sopravvivevano ciucciando il possibile all’ombra di una Romagna che ancora si credeva solare, muscolosa e con le tette grosse. Negli anni, l’impressione è che questo reame oscuro abbia finito per invadere le terre illuminate e farle sprofondare. Se un tempo infatti da nord potevano indicare chi stava immediatamente sotto e ridere di quella che sembrava una fotocopia venuta male, oggi quell’ottimismo autocentrato sembra quasi del tutto sparito, senza però portare gli ex-Hyliani (ok, è l’ultima citazione da Zelda) a chiedersi da quanto tempo sia così, e se per caso non abbiano campato di rendita molto più di quanto pensassero.
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Un’autoconsapevolezza di questo tipo, del resto, sarebbe davvero chiedere troppo. Nella mia testa si sta formando sempre più l’idea che le località turistiche siano luoghi in cui l’inerzia da crisi che ha reso l’immobilità un valore necessario (che se ti muovi troppo magari affondi) si mostra al massimo livello, in una botta di input visivi così trash che prima di accorgertene hai già superato la capacità di riderne. Non solo: hai superato anche la possibilità di rielaborarli in un’epica crudele alla Cafonal o una paraculata romantica tipo La Grande Bellezza.
Queste sensazioni hanno dei volti, anzi dei corpi veri e propri, e sono quelli dei turisti che ho incontrato quest’estate, facendo un po’ di puntate a Rimini e Riccione per vedere che aria tirava.
Tutte le palle mitologiche sulle età dell’oro, sugli anni Cinquanta e Sessanta del boom, i Settanta delle svedesi in vacanza, gli Ottanta dell’edonismo sfrenato, i Novanta del primissimo clubbing sono, in realtà, servite solo a preparare quello che ci troviamo davanti oggi: l’eterno ritorno di una serie di spettri. A pensarci bene, è un po’ l’apoteosi dell’idea di turismo, che paradossalmente si afferma solo quando il turismo stesso, o almeno la meta turistica scelta, entra in crisi. “Perché sei venuto qui in vacanza?” chiedo in giro. “Perché ci si DIVERTE,” mi rispondono, “perché Riccione è Riccione.”
Se il turismo è l’attività di andare a fare o vedere quello che è oramai diventato banale, il fatto che oggi in quei luoghi si riproduca la banalità sulle macerie di altra banalità è un successo clamoroso. Ho beccato gente con dei cazzi di gommapiuma in testa, cubisti glabri in perizoma, mocassini, turbanti, cappelli da sbirro, magliette col nome dell’amico che si sposa.
La prima tappa l’avevo fatta al Cocoricò, ma mi rendo conto che, tutto sommato, c’è una certa differenza tra quello che si trova lì e il contesto dei vari lungomare, o anche solo altre discoteche non troppo lontane. Per quanto brutta sia la musica che passa da quelle parti, quello che si fa al Cocco è ancora clubbing, zarro e caciarone quanto vi pare ma non del tutto dominato dalla dinamica turistica.
Dovessero chiudere tutti gli alberghi, è assai probabile che la piramide rimarrebbe in piedi (sempre che non decidano sul serio di mollare l’Italia), mentre il resto della riviera ad oggi sopravvive, e probabilmente morirà anche, come un organismo unico.
La notte che me ne sono andato giro per la città, invece, c’erano tutti i possibili cliché associabili alla terra della piada, delle discoteche e del silicone bitorzoluto. E a colpirmi davvero alla fine di ogni serata trascorsa lì era l’idea di avere trovato esattamente ciò che mi aspettavo di vedere—quello che ci si aspetta di vedere.
Non c’è molto da girare, nelle città della costa, e la movida si svolge quasi sempre tra il lungomare e una o due vie principali.
Rimini sfugge un po’ a questo standard per via dei pub e ristorantini che affollano il centro storico, mentre Riccione ci sta proprio dentro a pennello. La transumanza per famiglie occupa soprattutto Via Dante, mentre a smuovere il culo tra le tardone si va tra le passeggiate della parte nord del lungomare, o in mezzo alle colline per i club più grandi.
Certo è che, ovunque si vada, non si può fare a meno di notare la quantità abnorme di addii al celibato e nubilato. Sono tantissimi: praticamente chiunque si sposi in Italia lo fa tra settembre e ottobre e vengono tutti a fare il funerale alle loro vite da single proprio qui. Tra le donne va tantissimo la maglietta “keep calm”, tra gli uomini il classico en travesti.
Tra i tanti ho beccato un gruppo di folignati che se la stavano spassando davvero alla grande: li reincontrerò in almeno quattro locali diversi, alla ricerca di uno di loro che, a quanto ho capito, avevano perso di vista perché si era infrattato da un’altra comitiva di amiche della sposa. Uno ha un’ascella sinistra dai poteri e la esibisce il più possibile.
Insomma, non ho visto niente che mi abbia davvero fatto ridere ma, ovviamente, neanche nulla che mi abbia effettivamente infastidito. Forse sono vaccinato proprio in quanto cresciuto nel lato oscuro dell’Adriatico, che era già avanti di dieci anni in direzione baratro, ma mi pare una spiegazione fin troppo semplicistica.
A confondere ulteriormente le cose c’è anche il fatto che, per uno della mia età, il diffondersi dell’odierno approccio ironico/post-ironico iperconsapevole è andato di pari passo con il passaggio dall’infanzia all’età adulta, e forse è questo a viziare la mia idea che l’innocente e autenticissimo passato non abbia davvero ospitato qualcosa, non dico di interessante, ma nemmeno di vitale. Insomma non è tanto che a Rimini ai tempi di Tondelli c’era più roba, quanto che nel resto dei posti non c’era un cazzo di niente.
In questo senso, un fatto degno di nota è proprio che, nel momento in cui è iniziata la crisi, hanno iniziato ad arrivare in massa i russi: tra le tante spiagge preferiscono ovviamente quelle più lussuose di Milano Marittima e hanno colonizzato la Romagna esattamente come hanno fatto con la Versilia, al punto che ricordo una locandina da edicola di un paio di anni fa che gridava allo scandalo “Se non parli russo non trovi lavoro in spiaggia.” Non ci credo manco se lo vedo, ma tant’è…
Per quelli che, immagino, appartengono ai gradini medio-bassi del clan di qualche oligarca, questo è davvero il paradiso: non gliene frega nulla che in Salento o anche in Croazia il mare sia molto meglio, loro vogliono esattamente quello che c’è qua. Vogliono la copia della copia della copia di una vaga impressione di “trasgressione”, “eccesso” e “sballo”. Qua non trovano un mondo fermo a una decade passata ma un mondo stabile nel vivacchio del suo limbo. Sono almeno tre anni che secondo assessori regionali e operatori del settore la stagione la “salvano” loro. Chiaro che esista anche l’esigenza di dargli quello che si aspettano di ottenere.
Dall’altra parte, c’è invece chi da quelle parti ci vive tutto l’anno, che oscilla tra la capacità di soddisfarsi con poco e la paranoia del futuro. Di riformare la proposta, ovviamente, non se ne parla affatto, in barba alle più sbandierate promesse del capitalismo globalizzato sul coraggio e l’innovazione che pagano sempre. L’“Aprite pizzerie” di Briatore qua diventa “aprite piadinerie,” anzi “non ne aprite affatto, andate a lavorare in quella dei vostri genitori, che già ce ne sono troppe.”
Se volete vederci paralleli con la situazione politica italiana fate pure, ma sinceramente mi pare una banalità e fatico a trovare campi dell’esistenza contemporanea che non le facciano eco. Intanto via Dante, l’arteria principale della transumanza turistica di Riccione continua a essere affollata di cristiani per almeno un paio d’ore a sera, e quelle pare proprio che bastino a tutti.
Dal canto mio sono contento solo che questo stato non faccia altro che rendere evidente quanto è proprio il turismo stesso a non essere un’idea sostenibile senza trasformarsi, prima o poi, in ciò che ci si trova davanti da quelle parti. Perché il problema non è tanto che la riviera fa schifo, che i russi sono degli zarri (sempre meglio loro che gli inglesi intelligenti sulle spiagge del Dimensions in Croazia) né che il massimo della vita sul lungomare di Riccione sono dieci ingegneri sbronzi vestiti da hawaiane coi baffi. Il problema è che siamo costretti ad andare in vacanza perché siamo costretti ad avere un lavoro.
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