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Rick & Morty è ancora una figata

Attenzione: il post contiene spoiler sulla terza stagione di Rick & Morty.

Probabilmente non è un caso che Netflix abbia programmato la messa in onda a pochissimi giorni di distanza della seconda stagione di Stranger Things e della terza di Rick & Morty: d’altronde parliamo di due facce della stessa medaglia, quella della nostalgia e del recupero di una sempre più vagheggiata e idealizzata mitologia Eighties. Senza rompere ulteriormente le palle con la solita sfilza di riferimenti della serie dei fratelli Duffer, anche per Rick & Morty può valere grossomodo lo stesso discorso: esaltante bastardo figlio di Ritorno al Futuro, Doctor Who, Futurama e i Griffin, tra capisaldi del nerdismo anni Ottanta e alt-cartoon il solco in cui si inserisce il prodotto di Roiland e Harmon è ben chiaro.

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Rispetto ad una serie che difficilmente si smuove dal solito racconto di formazione nella provincia americana, tra x-files e qualche alieno del cazzo portato a spasso nel cestello della bici da una manica di ragazzini petulanti, quello che ha reso Rick & Morty un esperimento molto più interessante e divertente è la sua complessa bulimia strutturale: l’archetipo pop del buddy movie è piegato a un ritmo anfetaminico e abbraccia un citazionismo compulsivo, una psichedelia immaginifica e un universo espanso letteralmente infinito. Il mondo (anzi, i mondi) in cui è ambientata è ibrido quanto la serie stessa: umano, animale, alieno, vegetale, meccanico, genitale, tutte le categorie si compenetrano arrivando spesso a coincidere, in un’orgia spastica e videodromica che guarda a Cronenberg e lo omaggia pure direttamente, dedicando una puntata alla creazione di una sidestory alternativa in cui il mondo è popolato da Cose.

Vengono continuamente messe in dubbio la realtà (quale delle tante?) e l’unicità di ogni individuo tra cloni, doppelganger e versioni alternative di sé, in un gioco a matrioska di infiniti multiversi. Abbiamo poi drammi familiari, raffinate metafore razziali e politiche, viaggi temporali ed interdimensionali (con relativi paradossi), palate di cinismo e sana cattiveria gratuita, per la serie (animata e non solo) più nichilista e surreale attualmente in circolazione. “Nessuno esiste deliberatamente. Nessuno appartiene a qualche luogo. Tutti finiamo per morire. Vieni a guardare la TV” è la frase di Morty che meglio racchiude il senso ultimo dell’impianto filosofico della serie: assodato il non-senso della vita (qualunque delle infinite esistenti), tanto vale godersi il trip.

Tutta questa sbrodolata introduttiva era giusto per segnalare a chi non avesse ancora visto la serie che probabilmente non ha niente di più urgente da fare. Arrivando finalmente a parlare di questa terza stagione, restava da capire quanto sarebbe stata diversa dalle precedenti dopo un cliffhanger nel finale della seconda che risultava abbastanza estraneo alle logiche seguite fin lì. La struttura narrativa di Rick & Morty è essenzialmente ibrida: a differenza di altre serie animate dalla natura strettamente episodica (es. i Simpson, in cui diverse puntate comprendono la morte di un personaggio che riappare in seguito senza alcuna menzione delle storie precedenti), vi è qui la presenza di una trama orizzontale trasversale; la cosa si declina concretamente in due filoni principali: le vicende familiari della famiglia Smith e il coerente raccordo tra le varie realtà alternative della serie (con rimandi interni tra le diverse puntate e frequenti rotture metanarrative della quarta parete). Con il secondo punto ben più ponderante del primo, il cliffhanger che abbiamo detto era arrivato un po’ inaspettato perché l’esistenza di un filo orizzontale lungo le varie stagioni era rimasta piuttosto debole, e comunque ogni episodio poteva ritenersi autosufficiente e conclusivo.

Tra l’ultima puntata della seconda stagione e la prima della terza, la situazione sembra invece essere arrivata ad un punto di svolta: il sacrificio di Rick per la sua famiglia, immediatamente ricollocato in un piano machiavellico per soggiogare nuovamente Morty e diventare l’unica figura patriarcale della famiglia Smith grazie al divorzio tra Jerry e Beth. Se – come hanno scritto praticamente tutti – si tratta di una stagione di transizione, non si capisce bene verso cosa dato che al suo termine lo scioglimento di tutti i nodi narrativi riporta ad un’immutata situazione iniziale: la riappacificazione di Jerry e Beth – prevedibile e pedissequamente ricalcata dal romantico determinismo della prima puntata sulla TV delle realtà alternative – e un Rick riposizionato nella sua consueta dimensione di deviato e deviante deus ex machina disturbatore della serenità familiare. Più che transizione, potremmo parlare di un loop narrativo autoconclusivo una volta esaurite le possibilità offerte dal divorzio degli Smith. E alla fine va anche bene così, perché, al netto di una narrazione non troppo audace, Rick & Morty resta una gran figata.

Sì, perché, dopo esserci fatti le seghe sulle tecniche narrative utilizzate, resta il fatto che la sua complessità tematica e immaginifica non ha pari; e in questa stagione di episodi memorabili (diciamo da assoluta top 10 della serie) ce ne sono stati eccome, uno su tutti Pickle Rick, che partendo da un’idea non troppo probabile (tipo cosa succederebbe se Rick si trasformasse in un cetriolo? Magari per evitare una seduta di terapia familiare?) degenera rapidamente in uno squallido e psicotropo action-movie anni Novanta a la Steven Seagal con guest star Danny Trejo, in cui il protagonista diventa una specie di invincibile cyborg ratto/cetriolo sublimando la puntata in uno splatter violentissimo. E comunque il tutto semplicemente per parlare con grande profondità dell’alienazione filiale in seguito a un divorzio, e del rattrappimento affettivo di Rick. Oppure Rickatlantis, dove con un espediente che sembra preso da Le Iene – parlare di un’avventura di cui non si vede assolutamente nulla – abbiamo la più approfondita e devastante analisi socio-politica di tutta la serie, tra corruzione, meccanismi del potere e metafore razziali sugli scontri con la polizia. E poi c’è il ritorno di Evil Morty, che sarebbe un po’ tipo il Bad Cooper di Twin Peaks però con la benda sull’occhio. Sempre in ambito di ampliamento tematico, a questo giro abbiamo anche una riflessione di stampo bladerunneriano sulla clonazione e le sue possibilità (The ABC’s of Beth) che apre diversi dubbi etici – e anche di trama – irrisolvibili (non sapremo mai se Beth è un clone, e la sua vera matrice è a spasso a godersela per il multiverso).

Di contro abbiamo anche due dei punti più bassi della serie: l’episodio che parodizza gli Avengers è proprio tristino e probabilmente addirittura il peggiore di sempre, anche se le premesse non erano malaccio (che cosa potrebbe succedere quando Rick si sbronza davvero fino al punto di non ritorno); anche l’occhiolino a Mad Max: Fury Road non è troppo esaltante, e pure la puntata finale è fatto sollevare più di un sopracciglio. È assente giustificato il consueto episodio sulla TV multi-realtà, sostituito dai comunque spassosi – almeno per la maggior parte – Spappamente, quasi a voler evitare di sedimentarsi in un appuntamento fisso (come potrebbe essere la puntata di Halloween dei Simpson). Si tratta comunque di cadute perdonabili, quando i contraltari sono così esaltanti. E poi comunque nell’end credits scene del finale di stagione ritorna finalmente Buchetto per Popò, che è tipo il personaggio più figo di tutta la serie. E, almeno per lui, la storia è andata avanti.

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