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La storia dell’astronauta siriano diventato profugo

Venticinque anni prima di fuggire verso Kocamustafapasa, in Turchia, Mohammed Ahmed Faris era stato il primo siriano a viaggiare nello spazio.

Ex pilota dell’esercito siriano, Faris era stato scelto per partecipare a un programma spaziale russo-siriano: aveva quindi dovuto trascorrere due anni a Mosca per sostenere un’esercitazione che, alla fine, avrebbero fatto di lui un astronauta—il primo astronauta siriano.

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Terminata la fase di allenamento, il 22 luglio del 1987 partì alla volta della stazione spaziale russa Mir. “Voleremo proprio sopra la nostra adorata Siria.” Sulla Terra le immagini venivano trasmesse in diffusione nazionale, gli stessi schermi dai quali l’uomo ebbe modo di esprimere tutto il suo “profondo rispetto e amore” per il presidente Hafiz Al-Assad, in diretta dallo spazio.

“Da qui posso vedere le bellissime coste, le montagne verdi e le campagne incantevoli del nostro paese.” Era sostanzialmente diventato un ingranaggio—inconsapevole o meno—della propaganda nazionalista del governo.

Oggi quella rappresentazione così ‘serena’ del suo paese non potrebbe essere più lontana dalla realtà: lo stesso Faris è scappato dalla Siria cinque anni fa, e adesso vive in un appartamento insieme ad altri cinque membri della sua famiglia alle porte di Istanbul.

In Turchia, Halil Altindere—uno dei più grandi artisti contemporanei del posto—ha trasformato la storia di Faris in una video-installazione, che ripropone la storia del siriano con un linguaggio che sta a metà fra nostalgia, politica e satira.

Nel video, intitolato “Il rifugiato dello spazio” e diffuso a gennaio dalla galleria “Andrew Kreps” di New York, Altindere affronta i temi della guerra civile siriana, degli effetti della crisi migratoria sul pianeta e sul futuro della specie umana.

Faris, che ha passato otto giorni nello spazio, è praticamente lo “Yoda” del progetto. Il suo ruolo è quello di mutuare figure mitologiche come quelle degli antichi eroi siriani—”Il mio obiettivo era proteggere i cieli del mio paese, non uccidere la mia gente,” gli aveva spiegato l’ex astronauta, durante il loro primo incontro.

Nel 2011, a rivoluzione scoppiata, Faris ricopriva la carica di general maggiore dell’aeronautica dell’esercito siriano—ruolo al quale ha poi rinunciato per manifestare il proprio dissenso nei confronti del governo Assad e dell’uso della violenza contro i manifestanti.

“Sono partito per la Turchia per esprimere il mio punto di vista e battermi contro l’ingiustizia e la tirannia del mio paese.”

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Il viaggio dell’astronauta verso la Turchia, però, non è stato semplice. Avendo rinunciato a cariche militari di rilievo, è stato immediatamente messo sotto sorveglianza, venendo ‘costretto’ a mettere moglie e figli su un’auto e raggiungere la frontiera turca, dove degli agenti turchi lo hanno poi interrogato.

Un viaggio che per Altindere è più l’inizio della storia di Faris, piuttosto che la fine: a New York, infatti, l’artista ha voluto raccontare prima il rifugiato, poi l’astronauta.

Il paradosso dell’opera di Altindere—messa insieme grazie alla collaborazione di alcuni dipendenti NASA, di un avvocato specialista in aeronautica e di un architetto turco—pone i rifugiati siriani al centro di un potenziale esodo di massa verso Marte, pianeta sul quale avrebbero finalmente trovato accoglienza e tanta terra libera da colonizzare.

A dispetto dello stereotipo del rifugiato siriano triste, però, Altindere ci presenta dei rifugiati sorridenti, coscienti di salvare l’umanità con la loro missione e le loro colonie.

“Noi siriani siamo i figli della civilizzazione, i figli della Storia,” spiega Faris in un video. “Abbiamo già contribuito alla civilizzazione dell’umanità circa 10mila anni fa. Abbiamo visto nascere il primo alfabeto, il primo sistema agricolo, le prime tecniche d’estrazione mineraria: come abbiamo costruito la Siria, ricostruiremo la civiltà in un altro pianeta del sistema solare.”

Siamo stati i primi a modellare il ferro, continua Faris. “Ed è scientificamente provato che Marte è ricca di ferro. Andiamo lì, e saremo finalmente sicuri e liberi”—con l’aiuto, è l’idea di Altindere, di una stampante 3D che permetta loro di costruire tutti gli strumenti necessari alla colonizzazione.

Attraverso la simulazione 3D dell’artista, la colonia su Marte rassomiglia a un delle grotte della Cappadocia in Turchia.

Il progetto artistico di Altinder ha sì intenti satirici, ma è profondamente serio. “Volevo che si creasse empatia tra chi guarda l’opera e i rifugiati,” spiega. “Se nessuno li vuole ospitare, perché non fare di Marte un pianeta di soli rifugiati? Questa è la quotidianità con la quale si scontrano queste persone.”


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