Lunedì fuori sul sito e su YouTube il nostro nuovo mini-documentario, Noisey Meets Rkomi: siamo andati a fare una partita a biliardo con Mirko e Ciccio e abbiamo parlato un po’ di Io in Terra. Seguici su Instagram per scoprire di più e vedere il trailer ufficiale.
Rkomi è stato per forza di cose inserito in quella che si può chiamare nuova scuola del rap italiano, insieme ai vari Ghali, Sfera, Tedua, Izi e compagnia. È naturale: sono venuti fuori insieme, sono amici, hanno collaborato. Però, tra questi, è anche quello che sembra più vicino a un’idea di rap più classico, quello che meno fa storcere il naso al purista. La sua carriera a oggi è stata velocissima: in un anno è passato dai primi video di successo, a un EP fortissimo—Dasein Sollen—che ha fatto gridare in molti al miracolo, alla firma con Roccia Music e l’uscita di un album d’esordio su Universal.
Il disco, Io in Terra, esce oggi. È molto solido e personale, va dritto al punto, non si perde in cazzate, ha produzioni varie e di alto livello, e Mirko sembra sempre crederci tantissimo. Lo incontro un pomeriggio negli uffici della sua nuova casa discografica per parlarne con lui e farmi raccontare un po’ più nel profondo quello che sta vivendo.
Noisey: Per prima cosa volevo chiederti della genesi di questo disco, che mi è sembrata abbastanza veloce.
Rkomi: Sì, abbastanza. Ho iniziato a lavorarci più o meno a gennaio, anche se con i tour di mezzo e un sacco di belle cose in ballo, quindi alla fine in studio non ci sono stato tantissimo, in tutto un mese circa. Veloce ma molto vero: poco statico, poco plasticoso. Abbiamo anche scartato poco.
Ci sono anche tanti produttori.
Ricevevo vari pacchetti di beat, e ho incominciato a averne alcuni preferiti. Ma a differenza di Dasein Sollen questo lavoro è nato davvero tutto in studio: selezionavo le basi un po’ a livello di mood, però l’ascolto vero e proprio lo facevo poi in studio, così che anche la scrittura fosse il più naturale possibile. Non mi gasava troppo l’idea di lavorare solo con una persona—a volte si finisce per ripetersi. Quindi avere tanti nomi, tanti mondi, perché ogni produttore è come se fosse un mondo diverso, ha fatto sì che fosse il più vario possibile. E ha aiutato anche me a aprirmi e a variare di più.
Tu come lo racconteresti? A me sembra un disco molto serio. Non c’è il pezzo zarro, il pezzo per la radio, il pezzo con il featuring del cantante, non ci sono cazzate, è molto dritto al punto.
Non ho voluto impormi nulla, i pezzi nascevano in studio e mi tenevo quello, selezionando le cose che mi gasavano di più. È il mio primo disco, ho sempre detto tanto nei pezzi, e ogni pezzo ha il suo perché, non ci sono riempitivi. Mi fa molto piacere se riesce a arrivare questa cosa.
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Tu che cosa ascolti? Che cosa ti ispira?
Tutto meno che il rap, quasi. Nel rap sto ascoltando tanto questo tedesco che si chiama Cro, che è rap ma molto aperto. Ovviamente è un genere con cui sono cresciuto e che c’è nelle mie playlist, però ultimamente ho voluto aprirmi agli altri generi, anche in modo un po’ ignorante, perché non ne so tanto e a volte non so neanche bene cosa sto apprezzando, però voglio aprire i miei orizzonti ascoltando un po’ di tutto. Mi intrippano molto gli xx. O per esempio i Saint PHNX che sono questi giovanissimi ragazzi inglesi con ancora poco seguito ma con la gente ai live che sa già tutte le canzoni. I Twenty One Pilots per me sono stati parecchio importanti, mi ci rivedo anche. E sono vicini al rap, anche se non è rap. L’ultimo disco dei Gorillaz mi sta piacendo parecchio.
In alcuni pezzi del tuo disco infatti, per esempio in “Mai più”, ci sono delle chitarre, degli assoli propriamente rock.
È come se inconsciamente le chitarre presenti nei beat mi tirassero fuori qualcosa, e poi ci scrivo sopra di conseguenza. Alcune chitarre, tipo quella di “Mai Più”, sono suonate: nel disco c’è Parix, che è molto forte, ci sono anche le batterie di Alberto Paone che è il batterista di Calcutta. Non le ho ricercate, per quanto sia fan delle chitarre, ma è come se mi avessero chiamato, beat per beat. E poi nascevano i pezzi.
Hai voglia di dirmi qualcosa su “Origami”, che mi sembra una delle cose più diverse rispetto a quello che hai fatto finora?
È un po’ più accessibile…
Però comunque, con le cose che dici e il tuo modo di rappare, c’è spessore.
È un episodio riuscito secondo me. L’ho scritta a Tenerife, quando siamo andati a girare un video, una settimana, e ho fatto anche una sessione di scrittura. È uno dei primi brani che ho scritto. Ci sono molto legato perché il testo è molto personale, mi apro tanto. E in questo caso, se si può dire, sono stato anche più poetico del solito. L’ho scritto di getto, è nato in un pomeriggio. Ci sono molto affezionato.
[Interviene Simone, il suo manager: “Mi ricordo che quel pomeriggio noi eravamo andati a provare i quad per il video e a cercare delle location, e lui era rimasto a casa dicendo “provo a scrivere un po’”. La sera siamo tornati e praticamente aveva tre quarti della canzone, è stato il primo pezzo”.]
Ho faticato un po’ con la seconda metà della seconda strofa, tutto il resto l’ho scritto in quella giornata. Ed è uno dei primi episodi, che poi mi hanno fatto aprire alla scrittura con la gente, col produttore davanti… Ci sono legato anche per questo.
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Com’è Mirko al di là di Rkomi? Sembri uno molto introspettivo, che ragiona molto su se stesso, con molte paranoie.
Analisi, ragionamenti, riflessioni. Ma non dalla mattina alla sera, per carità. Sono un tipo particolare: ho parecchie personalità che sto conoscendo tuttora. Però paranoie non direi, molta autoanalisi, però paranoie è troppo negativo. Sono parecchio sensibile un po’ a tutto e ragiono molto su me stesso.
E magari rispetto a altri rapper nei tuoi testi viene fuori molto meno il lato party.
Che c’è, nella mia persona c’è tantissimo. Però lo metto un po’ da parte. Da ragazzino era solo quello: se avessi iniziato a rappare a 14 anni fino ai 18 avrei fatto tutti dischi molto festaioli e ignoranti. Ma sono cresciuto, ho iniziato a rappare a 18 anni e mezzo, 19, e avevo già fatto quel passo umano in cui dici “Ok, va bene giocare, però troviamo anche un obiettivo”.
Come vanno i live? Una volta, soprattutto nel rock, si facevano mille concerti prima di diventare famosi, invece adesso si esce prima dal web e arrivi a fare i primi live quando già hai un bel seguito. Questo magari mette anche più pressione.
Sì, ho fatto il primo anno bello ansioso. Il primo live era con l’uscita di Dasein Sollen e il video, e c’era già un bel riscontro, io poi me la vivo in modo molto sentito, con una sorta di ipersensibilità. Ultimamente sto alternando dei live della madonna in cui veramente spacco tutto e mi chiedo se ero io davvero, e live dove proprio zero. Ultimamente per fortuna sono più i primi. Dipende molto dal mio stato d’animo, e da tante cose. Però ce l’ho il live: sono da live, e molti lo sanno. Ci sto lavorando e sono riuscito a capire che sono adatto, che posso essere un mostro sul palcoscenico. Poi è questione di esperienza e di allenamento. Siamo agli inizi, sono giovanissimo, purtroppo a volte capitano serate in cui funziona di meno. Per me non esiste quella cosa che prima si deve spaccare live e poi in studio. Io non voglio fare pezzi pacco solo per fare gavetta, io allo studio mi ci sono dedicato un sacco e sono felice della mia scelta. Le canzoni vanno fatte bene. Per me la scrittura e la musica sono la prima cosa, poi al massimo se andasse male il live sono affari miei, va contro di me, va contro il mio portafoglio—al massimo sarei uno da cuffiette e basta, e farei comunque la mia musica al meglio. Ma non è così, perché so di potere spaccare anche nel live, l’ho visto. Può sembrare arrogante, però spero si capisca cosa intendo.
Io in terra ovviamente richiama “Dio in terra”, però si parla anche dell’essere a terra, giusto?
Sono partito da Dasein Sollen con il concetto di ritrovarsi, e Io in terra è un po’ come dire che adesso ci sono. Nello scatto di copertina sono teso, è come se mi stessi per alzare, se nella testa avessi capito dove andare. C’è tantissimo di me in questo disco e volevo che fosse così. La copertina mi piace un sacco: guardo da una parte e uno si chiede dove posso andare, c’è una via più giusta? Una più sbagliata? Forse sì o forse no. Non sono io il centro dell’universo. Ma so dove devo andare, so che la vita mi ha dato questo dono, non giochiamocelo. Poi non è ancora detto come andrà, se andrà bene o male.
Sentivi molta pressione?
No. La gente gasata, curiosa, sì—però ho lavorato con serenità e tranquillità. Senza fiato sul collo.
A me sembra che di questa cosiddetta nuova scena tu sia tra i più classici, nonostante produzioni moderne. Sarà che non usi troppo autotune, che rappi veloce, che dici tante cose, sei uno dei pochi che riesce a essere apprezzato anche da chi è più legato al rap classico.
Il perché io non so dirtelo. Comunque è vero che sono cresciuto ascoltando anche rap italiano, avendolo come influenza, soprattutto a livello di testo.
Secondo me sono significativi anche i due featuring che ci sono nel disco, comunque sia Marra che Noyz sono due nomi…
Incredibili!
Che fanno cose più classiche, non sono nomi nuovi trap. E soprattutto a me ricordi molto Noyz, in un certo senso: è uno che non ha mai messo cazzate nei dischi, è sempre andato bello diretto, lavori molto solidi. Questo disco mi conferma un parallelismo che avevo visto.
Non è mai sceso a compromessi… Mi fa molto piacere. Ultimamente sto ascoltando tanto Verano Zombie e il primo di Marra, proprio i primi album, come se inconsciamente siccome io ho fatto il primo album volessi entrare ancora di più nei loro, e sono proprio fan di quei dischi. Forse il mio si avvicina più a quello di Marra che a Verano Zombie.
Beh, Verano Zombie è un disco anche mega grezzo.
C’è una componente di Noyz che mi porto dentro: c’è una parte hardcore, anche se magari non lo sono musicalmente, ma a livello di interpretazione, di cazzo duro… c’è. E penso che anche lui l’abbia vista, visto che abbiamo collaborato. Il pezzo è davvero una pietra. Sono molto curioso di vedere come verrà accolto. E, vero o non vero che sia, sono onorato di questo parallelismo.
Se il pubblico non dovesse capirti, se volesse qualcosa di più pop, di più radiofonico, con i ritornelli cantati, cosa faresti? Andresti avanti per la tua strada o penseresti di cambiare?
Non mi pongo tanto il problema. Sono sicuro che il disco arriverà a chi deve arrivare. Se accadrà ci penserò, ma io questa roba qua la faccio essenzialmente per me, quindi farò un disco pop se vorrò fare un disco pop, farò un disco hip hop se vorrò fare un disco hip hop… Dipenderà da me. Leggerò i commenti ma non gli darò troppa importanza. Se volessi io fare un disco pop lo farei. Farei un bello statone dove spiego le mie influenze, i miei perché e la mia decisione. Però al momento non sento questa necessità. E questa roba è per me.
Hai detto “farei uno statone”: ti piace avere un rapporto molto diretto con i fan, spiegare le cose…
Sì, io non mi so spiegare bene a livello di pensiero immediato, ho un mondo un po’ particolare in testa, ma so scrivere bene, quindi a volte mi obbligo a spiegarmi, perché voglio che la gente capisca certe cose. Perché altrimenti ho visto che non si capiscono. Poi c’è chi ci arriva e chi no, ma se io l’ho fatto almeno mi sento a posto.
Noisey ha fatto un articolo sulle fanfiction sui rapper italiani. Soprattutto ragazzine molto giovani, che scrivono storie d’amore lunghissime, decine di capitoli, con protagonisti i vari rapper. E Elia notava che tu eri il nome a cui erano dedicate il maggior numero di queste storie.
[Ride] Penso che sia perché sono un tenerone a livello sia visivo che un po’ anche musicale, forse è per quello, non lo so davvero.
Come ti vivi il rapporto con la fama?
Ultimamente da Dio. Sono molto meno paranoico, molto meno in sbatti, le foto le ho sempre fatte con tutti. Capita, una volta su mille, che ho proprio i cazzi miei: magari faccio la spesa, ho sette sacchetti, sono proprio affaticato, sto andando a casa, e vengono i genitori coi bambini…
Quindi succede anche al supermercato, al bar. Non è solo alle serate.
Ultimamente sempre di più, proprio per la strada. A volte fanno anche i gruppettini sotto casa.
Ah, minchia.
A volte avrei tutto il diritto di mandare tutti affanculo, però non lo faccio, perché mi rendo conto che fa parte del gioco e non mi posso lamentare. Ogni tanto faccio presente però quanto non sia il momento giusto, se non lo è. Poi mi vedi in faccia se sto bene o no, sono così, e non ci credo che una madre di cinquant’anni non si renda conto che sono sudato, tutto rosso, con sette buste della spesa… Però poi mi metto in discussione e mi viene il dubbio: “Ma non è che dovevo lasciare ‘ste buste e fare sta foto tutto sudato lo stesso?”. Comunque, a parte qualche episodio, ultimamente sono proprio contento: la gente ha capito chi sono, come sono, e c’è un cuore pazzesco, che vedo con pochi artisti da parte del fan. Sono molto molto contento.
Ultima domanda: come arriva il Milan quest’anno in campionato?
Non voglio portare sfiga! Non posso aprirmi. Poi mi scannano in famiglia.
Bravo.
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