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Quella volta che Roger Waters scrisse un album su un sogno erotico

Ci sono poche rockstar della vecchia guardia che ancora adesso, nonostante il viso ormai scavato dalle rughe, riescono a far parlare di sé e dare perfino scandalo: anzi, direi che forse ce n’è addirittura solo una. Stiamo parlando di Roger Waters, che incredibilmente dopo ben venticinque anni ritorna con un nuovo album, uscito proprio in questi giorni, dal titolo Is This The Life We Really Want?.

Allucinante, eh? Eppure quest’uomo, invece di calmarsi, con l’avanzare dell’età sembra incazzarsi ancora di più. Se la prende con il potere, come un ariete si lancia a testa bassa contro il petto del neonazista di turno, esplicitamente: che sia il governo israeliano o Trump o chicchessia, il nostro Roger sembra affrontarli come fosse rimasto lo stesso di The Wall, disco nel quale si tiravano fuori le budella marce di un occidente reso folle dalla società dei consumi. Di The Wall conosciamo tutti la storia, l’ho analizzata con una certa cura, ma volendo sintetizzare la faccenda per i neofiti, durante un briefing per quello che sarebbe dovuto essere il successore di Animals, da parte di Waters arrivarono sul tavolo dei Floyd non una ma ben due demo di album praticamente completi nel loro concept. Uno era appunto The Wall, l’altro The Pros and Cons of Hitch Hiking.

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Waters praticamente disse: “eccovi due album, scegliete quello che preferite: quello escluso potrebbe diventare il mio primo disco solista”. Casi della vita, destino, chiamatelo come volete, ma la band scelse The Wall. Non perché la musica fosse migliore, anzi: Gilmour preferiva The Pros a livello musicale, probabilmente per il suo andamento più hard blues, ma il concept di The Wall era più forte. In effetti, The Wall può essere visto come uno psicodramma che attinge all’inconscio collettivo, mentre The Pros? Be’, The Pros attinge all’inconscio di una sola persona.

È la storia di un uomo che sogna un adulterio con una e più autostoppiste, ritrovandosi in una serie di situazioni paradossali fino a svegliarsi nel letto muliebre. La narrazione si svolge dalle ore 4:30 di mattina alle 5:12, quarantadue minuti in cui il protagonista in piena fase REM si trova scaraventato con queste due tizie attraverso i confini dell’Europa continentale, in una macchina nella quale però è presente anche sua moglie—evidente scissione fra tentazioni e “santità”. Il tentativo di conquistare un’autostoppista sembra avere successo, ma questo evento si trasforma improvvisamente in una nera paranoia, tanto che si ritrova scaraventato senza soluzione di continuità in una periferia ostile della Germania Ovest e attaccato nella sua stessa casa da generici terroristi arabi (in questo incredibilmente attuale, se non altro, mettendo la politica da parte, per la questione erotismo inespresso = terrore e terrorismo).

Però ecco: improvvisamente si trova in hotel con la ragazza e pare che si riesca a consumare il tanto agognato adulterio, salvo poi risvegliarsi di nuovo nella realtà. Il nostro si arrapa, vuole fare sesso con la moglie ma lei lo rifiuta. A questo punto, mentre ripiomba nel sonno, cerca di trovare una soluzione al suo problema coniugale: forse torneranno nelle lande native di lei? Forse si rifaranno una nuova vita e saranno felici? Ma no, in sogno il tentativo fallisce: la coppia scoppia, lei addirittura s’innamora di un amico belloccio dell’Est.

A questo punto lui si ritrova solo, ed è lui a fare autostop: lo carica un camionista sul quale sfoga tutta la sua autocommiserazione ma, visto che sta per vomitargli nel cabinato, viene cacciato a calci nel culo. Da questo momento si va di male in peggio, la situazione precipita in un gorgo di prese a male, ma attenzione: una cameriera dal cuore d’oro gli fa riscoprire la fiducia nell’amore e nella vita. Il protagonista si sveglia e sembra che abbia la risposta definitiva sul mondo e sul da farsi. Sarà vero? L’ultima scena ci dice che forse la soluzione è inevitabilmente l’amore. L’uomo spaventato vede la moglie sveglia e capisce che l’ama: ma il finale rimane aperto a qualsiasi cosa, anche all’evenienza che il sogno sia un’amara previsione della realtà.

La questione peculiare di The Pros è che durante questo sogno vengono in pratica infranti tutta una serie di tabù sessuali e di costume, che culminano in un desiderio feroce di abbandono del tetto familiare, senza nessuna pietas né peli sulla lingua a livello testuale. In un certo senso è la versione “sexy” di The Wall, il cui delirio paranoico è sostituito con un sogno erotico perenne in cui il protagonista finalmente sfoga tutta una serie di pulsioni represse da secoli di sovrastrutture.

Insomma, è un disco monolitico, una specie di bignami di Eros e Civiltà formato LP, mentre “il muro”, con la sua crisi esistenziale, portava a toccare con mano tutto lo spettro di quelli che potremmo chiamare i cazzi della vita moderna. Nonostante questo, forse con The Pros and Cons of Hitch Hiking ci siamo persi l’ultimo vero disco dei Floyd. Waters lo farà uscire a suo nome nel 1984 con una copertina controversa firmata ancora una volta da Gerald Scarfe, che ritrae la pornoattrice e modella Linzi Drew a chiappe al vento, cosa che porterà alla censura immediata della cover e varie proteste di comitati femministi, scuole, associazioni dei genitori, ecc. Ma al subconscio non si comanda, lo sappiamo: e un subconscio ben allenato, già dalla grafica, riconosce che The Pros è un mancato parto Floydiano.

Questo perché The Final Cut, l’ultimo disco dei Pink Floyd con quasi tutta la formazione storica, è considerato il primo vero disco solista di Waters, dato che se ne caricò tutte le responsabilità. Ma la differenza con The Pros si sente subito. The Final Cut mantiene una tensione fra musica, concept e una frizione fra diversi modi di vedere le cose. Gilmour lentamente si tira fuori dalla produzione per non arrivare alle mani, ma mantiene il suo evidente disappunto sfogandolo nei solo dell’album—mai come in quel caso asfittici e depressi—e nella sua unica performance vocale in cui sbraita “Fuck all that, we’ve got to get on with these”—probabilmente pensando a Roger.

The Pros, invece, subisce il peso di questa mania di controllo finalmente totale, che sfugge definitivamente di mano. Il disco è infatti un caos inascoltabile, anche se mantiene legami con le strutture blues più sputtanate, in cui anche un Clapton qui arruolato al posto di Gilmour come guitar hero, non riesce a cavare un ragno dal buco, venendo criticato all’epoca per i suoi lick troppo pesanti e, appunto, non proprio in sintonia con le orecchie umane.

È vero comunque che nel disco non si raggiunge l’apoteosi cacofonica, anzi forse la spinta propulsiva si perde proprio per il tentativo (probabilmente impossibile) di renderlo gradevole. Gilmour parlava appunto di demo in cui non si capiva un cazzo, né di The Wall né di The Pros, ma mentre quelle di The Wall sono ricicciate fuori all’interno del box Immersion, con la loro patina squagliata e tanto meravigliosamente minimal wave che se ne risentono gli echi addirittura nell’ultimo di Waters, non abbiamo invece ancora accesso alle demo di The Pros. O forse si: qualcosa è rimasto, ed è la versione di “Sexual Revolution” dei Floyd, che per un soffio ha rischiato di entrare in The Wall.

Ora, chiaramente il suono anni Ottanta trasformò il riff di cemento dell’originale settantottino in qualcosa di laccato, ma la cosa che manca e salta più all’orecchio nella versione ufficiale sono gli envelope filter al basso assolutamente maligni anche nello scoccare quelle due note due che fanno la differenza, che sembrano quasi ruttare. La chitarra scivola all’interno di effettazzi sfasati per poi letteralmente scopare con il synth di Wright, che mette il turbo della “raja”. Per il resto, la cosa che fa funzionare tutto è il minimalismo spietato, che si è poi purtroppo perso per strada—forse anche lui a caccia di autostoppiste. Il testo ovviamente è una litania di un arrapato nella quale Eros e Thanatos vanno tranquillamente a braccetto con la paranoia (altrimenti che gusto c’è?).

The Pros sarà spacciato in tour come una specie di nuovo The Wall, chiaramente meno spettacolare (impossibile ripetere l’impresa anche e soprattutto per i contenuti dell’album), ma comunque con le animazioni e la grafica del già citato Gerald Scarfe. Quest’ultimo, autore per l’appunto dell’iconica copertina di The Wall, per l’occasione s’inventerà il personaggio di Reg, un cane allucinato nato da una caricatura di Roger Waters, che, a differenza dei pupazzi di The Wall, non lascerà alcun segno nell’immaginario collettivo. L’album, nelle ambizioni dell’autore, sarebbe dovuto diventare anche un film, ma l’unica pellicola poi realizzata fu quella di commento ai concerti, mischiando le animazioni di Scarfe ai filmati di Nicolas Roeg.

Insomma, in un certo senso il primo disco solista di Waters, per quanto pubblicato e strombazzato, rimane incompiuto, un progetto che sarebbe potuto sfociare in qualcosa di più sostanzioso ma che si è infranto sugli scogli dell’insuccesso (non arriverà oltre la trentunesima posizione negli Stati Uniti e oltre la tredicesima in Inghilterra, affacciandosi alle prime posizioni solo in Norvegia e in Svezia, paesi nei quali la “sexual revolution” aveva una portata ben diversa). Il The Pros and Cons of Hitch Hiking che conosciamo, quindi, è ancora una demo: patinata, levigata, di lusso, ma comunque una demo. E quel che è peggio è che si tratta a tutti gli effetti di una demo di un disco dei Floyd, la cui eredità creativa è ancora pesantissima. Forse per questo il nostro Roger l’anno seguente alla pubblicazione deciderà di andarsene ufficialmente dalla band: per capire veramente “which one’s Pink?”. Anche oggi, per gli affezionati, la risposta è “boh”.

Da un certo punto di vista, l’adulterio descritto in The Pros è il desiderio di divorziare dai Pink Floyd seppur, come da copione del disco, amandoli ancora. Se ricordate con che smorfie di piacere Roger suonò insieme a loro durante la reunion del Live 8, e come suona floydiano anche il suo nuovo album, capirete che questi sono, ahimè, i veri “pro e contro dell’autostoppismo”.

Demented è su Twitter: @DementedThement.

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