Nel 1991 ero un giovane fotogiornalista. Decisi di partire per la Jugoslavia spinto dalle voci sull’imminente implosione del Paese. Su un treno per la Slovenia incontrai una giovane donna in lacrime, e quando le chiesi se andava tutto bene questa fu la sua profetica risposta: “È iniziata. Prima la Slovenia, poi la Croazia, e poi la Bosnia e via così. La Jugoslavia non esiste più.” Ribattei ingenuamente: “Non preoccuparti, il mondo non lascerà che succeda una cosa del genere.” Ho passato gli anni successivi a fotografare quello che mi aveva predetto. Alla fine delle guerre, per permettere a tutti di ricordare cosa era successo ho messo tutto in un libro e un breve film, Blood and Honey: A Balkan War Journal.
-Ron Haviv
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VICE: A dicembre è caduto l’anniversario della fine ufficiale della guerra in Bosnia. Come hai deciso di seguire la guerra, e qual era il tuo obiettivo?
Ron Haviv: Fotografo con l’obiettivo di far conocere qualcosa al pubblico e a chi ha l’opportunità di fare qualcosa perché la situazione cambi. La dissoluzione della Jugoslavia è avvenuta in più fasi, molte delle quali erano state predette con anticipo.
Per esempio, quando si è posta la questione del futuro della Bosnia c’erano già state due guerre. Ho visto e documentato alcune delle prime esecuzioni di civili bosniaci, a pochi giorni dall’inizio vero e proprio della guerra. Le mie foto sono state pubblicate in tutto il mondo e pensavo che avrebbero prodotto un qualche cambiamento effettivo. Ma non è successo niente. La guerra è iniziata una settimana dopo, ha portato a migliaia di morti e milioni di profughi e ha preparato il terreno per altre guerre. Più andava avanti più il conflitto si faceva violento, ma nonostante gli sforzi della stampa non ci sono state reazioni.
A un certo punto è stata la gente che credevo di aiutare a dirmi di andare a casa. Volevano che me ne andassi, che li lasciassi da soli. Mentre riflettevo sulla cosa ho capito che se io e i miei colleghi ce ne fossimo andati non ci sarebbero state testimonianze delle atrocità commesse. Anche se avessimo fallito nel nostro lavoro, c’era bisogno che esistesse, così da poter diventare un giorno una prova di quello che era stato fatto e di quello che invece si sarebbe potuto fare e non era stato fatto. Ho capito che anche se al momento tutto il lavoro di documentazione fallisce, può acquistare nuova vita come testimonianza—ecco, quel pensiero mi ha spinto a restare e a continuare a fotografare.
E degli anni subito dopo la guerra, cosa mi dici?
La Bosnia è una nazione nata dalla guerra. Molte vite umane sono andate perse, e mi rattrista il fatto che comunque oggi la nazione non sia dove dovrebbe. È ancora un paese piagato dalle divisioni etniche, sociali, politiche—nonché infrastrutturali. Speravo che si evolvesse più velocemente. Trovo la situazione attuale un insulto per chi ha vissuto la guerra.
Quale pensi debba essere la priorità per un fotoreporter?
La comunicazione: io sono gli occhi della gente, e sono responsabile di mostrarle quello che altrimenti non vedrebbe, che sia nella sua città, nel suo paese o nel mondo.
Hai mai valicato il confine tra il tuo lavoro e i soggetti per aiutare qualcuno, mentre scattavi questa serie?
A volte con la mia semplice presenza, oppure facendo qualcosa fisicamente, sono riuscito ad aiutare qualcuno. Ho fasciato ferite, ho portato feriti all’ospedale e accompagnato al sicuro altre persone. Sfortunatamente ci sono state volte in cui non c’era niente che potessi fare, anche se le persone venivano uccise davanti ai miei occhi. Aiuto ogni volta che posso, finché non metto in pericolo la mia vita. Quando è chiaro che non posso intervenire faccio del mio meglio per documentare quello che succede e, spero, per aiutare ad assicurare i responsabili di azioni violente alla giustizia.
Cosa ti ha spinto a fondare la VII, agenzia fotografica di proprietà dei suoi fotografi membri?
Il mondo della fotografia e il lavoro del fotografo freelance hanno attraversato molti cambiamenti nel corso degli anni. Agenzie come la Magnum sono state create e sono di proprietà dei fotografi stessi, in modo da proteggere il proprio lavoro e aiutarsi gli uni con gli altri. Agenzie simili continuano a nascere.
All’alba del 2000 anche persone esterne alla fotografia hanno cominciato a interessarsi al business, Bill Gates ha fondato la Corbis e Mark Getty la Getty Images. Hanno cominciato a comprare le agenzie più piccole compresa una che rappresentava noi, quattro dei fotografi che poi hanno fondato la VII. Al momento della vendita ci siamo resi conto di non avere il controllo sulle nostre carriere, e che era il momento di tentare una nuova avventura. Abbiamo capito che dovevamo essere pienamente responsabili per tutti gli aspetti del nostro lavoro. Seguendo un po’ il modello della Magnum, abbiamo invitato altri tre amici a unirsi a noi, e il 9 settembre 2001 è nata VII. Due giorni dopo il mondo è cambiato per sempre, e da allora noi lo fotografiamo.
Che ne pensi della critica di David Shield nel suo nuovo libro War Is Beautiful: The New York Pictorial Guide to the Glamour of Armed Conflict, riguardo al modo in cui alle volte riportiamo i conflitti? Quali limiti daresti all’estetizzazione delle fotografie che descrivono un’atrocità?
Sono completamente conscio dell’estetica del mio lavoro. Mi sforzo di trascinare chi vede una foto dentro la foto attraverso l’uso del colore, la luce o la composizione. Una volta stabilita la dinamica, all’osservatore sarà molto più difficile ignorare il contenuto. I limiti che pongo sono piuttosto semplici: la cura dell’immagine non può prevalere sul contenuto. Devi capire quello che sta succedendo. È una linea sottile, ma importante.
Come cambia il fotogiornalismo nella nostra cultura? Ci sono qualità che ritieni debbano restare invariate nel fotoreporter, anche se oggi chiunque fotografa?
Anche se tutti hanno macchine fotografiche e creano immagini, il fotogiornalismo ha caratteristiche ben precise. Il giornalista lavora per contestualizzare e mettere insieme le informazioni, sempre rispettando principi tecnici ed etici che sono alla base dell’impegno giornalistico.
Un sopravvissuto a un massacro trova la sua casa in macerie dopo che l’esercito bosniaco ha strappato il suo villaggio alle forze serbe nell’autunno del 1995. Nella fossa comune lì accanto giacciono 69 persone, inclusa la sua famiglia. Ron Haviv / VII
Ron Haviv / VII
Soldati bosniaci fumano durante una pausa accanto alla scritta “Welcome to Sarajevo” a Sarajevo, in Bosnia, nell’autunno del 1994. Intorno alla città la guerra di trincea imperversava. Ron Haviv / VII
Una donna bosniaca visita la tomba di suo marito nel cimitero di Bihac, in cui sono sepolti molti caduti durante il conflitto bosniaco. Ron Haviv / VII
Le Tigri di Arkan uccidono dei civili bosniaci musulmani a Bijeljina, in Bosnia, il 31 marzo del 1992. Le Tigri di Arkan, unità paramilitare serba, sono state responsabili dell’uccisione di migliaia di persone durante la guerra, e successivamente accusate di crimini di guerra. Questa foto e altre della stessa serie sono state usate come prove dal Tribunale penale internazionale nel processo che ha portato alla condanna dei leader serbi. Ron Haviv / VII
Prigionieri di guerra bosniaci e croati nel campo di prigionia di Trnopolje, in Bosnia, nel 1992. Tutte le parti coinvolte nel conflitto bosniaco avevano creato campi di prigionia, in cui morirono in molti. Per questo, diversi ufficiali vennero accusati di crimini di guerra alla fine del conflitto. Ron Haviv / VII
Un uomo serbo cerca di spegnere un incendio appiccato da piromani serbi nel quartiere di Grbavica, a Sarajevo, nel 1996. I piromani cercavano di costringere l’uomo ad abbandonare la città piuttosto che restare e sottomettersi al governo bosniaco musulmano. Ron Haviv / VII
Una foto dai volti cancellati, ritrovata da una famiglia bosniaca al momento del ritorno alla propria casa nella periferia di Sarajevo nel 1996. I serbi che avevano occupato la casa se ne erano andati quando la città era stata riunificata sotto il governo bosniaco musulmano, portando con sé i mobili e lasciando solo questa fotografia. Ron Haviv / VII
I sopravvissuti al massacro di Srebrenica vengono a sapere della caduta di Tuzla, zona protetta delle Nazioni Unite, nel 1995. In quell’occasione più di 7.000 bosniaci sono stati uccisi e decine di migliaia costretti a fuggire. Ron Haviv / VII
Un musulmano di Bijelina, in Bosnia, prega di aver salva la vita dopo essere stato catturato dalle Tigri di Arkan nella primavera del 1992. Ron Haviv / VII
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