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Musica

Sviaggi Organizzati — Dieci dischi post-jazz per un'estate di fuoco

Un viaggio infuocato attraverso uscite post-jazz: un jazz ibridato, destrutturato e liberato, che parte da una tradizione e la supera.

"Fight fire with fire", si diceva. E allora cosa c'è di meglio per contrastare la calura estiva che un po' di musica di fuoco? Fire Music è il titolo di un disco di Archie Shepp del 1965. Da allora, la locuzione è stata spesso usata come sinonimo di free jazz: musica che nasce con l'idea di rompere gli schemi rimasti nel bebop per abbracciare una forma più libera—al cui interno, più che le note, contano la tonalità e l'irruenza. Un suono estatico e orgiastico che prende molto anche dalla musica della madre Africa: fortissimo è il legame politico del free con i movimenti di affermazione nera dell'epoca.

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(A chiunque fosse interessato ad approfondire molto bene il tema consigliamo il testo sacro del 1971 Free Jazz. Black Power, di Philippe Carles e Jean-Louis Comolli).

Se il jazz è, per sua natura, una delle musiche più creative che esistano, è naturale che abbia poi preso diramazioni impreviste. Il free jazz stesso infatti si è ibridato in vari modi, spesso inglobando suoni da diverse parti del mondo, di tradizioni lontane da quella occidentale. Allo stesso modo, in un altro filone, il jazz si è ibridato con il rock, dando vita al genere noto come fusion—che ha finito per diventare un suono un po' di maniera, ma non dimentichiamo che tra i suoi primi vagiti ha visto cose tipo i capolavori del Miles Davis '69 - '75, tra i dischi più belli di sempre.

Per chi, come me, è un po' un profano del jazz, non troppo amante del suo versante più classico, entusiasta invece delle sue derivazioni più folli, contaminate e bastarde, le chicche si trovano oltre all'ombra dei capolavori dei Grossi Nomi, nelle terre di confine che si estendono verso il fuoco, tra bizzarie che non troverete sulla (fondamentale) Penguin Guide To Jazz Recordings, verso questo… Post-jazz? Il mio azzardo, e ammetto che si tratti di azzardo, è che questo jazz ibridato, destrutturato e liberato, che parte da una tradizione e la supera—usandone gli strumenti (fino a un certo punto), ma stravolgendone le strutture e fregandosene delle convenzioni—possa ricordare un po' quella prima definizione reynoldsiana di post-rock (prima insomma che diventasse sinonimo di "suonare in maniera lentissima cose più o meno epiche per arrivare tramite un crescendo all'esplosione catartica").

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A prescindere dalle classificazioni possiamo comunque dire che si tratta di una delle musiche più entusiasmanti che sia dato sentire. E quindi sotto con questi nomi un po' minori e un po' laterali, rispetto ai mostri sacri e alle pietre miliari.

Non tratteremo dunque dei classici di Shepp, Coltrane, Pharoah, Ornette, Ayler, Cecil Taylor, Don Cherry (che pure per tutti gli anni Settanta ha realizzato pressoché solo capolavori, che stilisticamente potrebbero essere l'epitome della nostra trattazione, e che è uno dei miei musicisti preferiti)… Resta fuori anche, ma se vogliamo potremmo considerarlo una specie di nume tutelare, un precursore, quel Sun Ra che ha portato l'afrofuturismo e ogni sorta di sperimentazione (dagli strumenti scambiati tra i musicisti al suonare una porta) nel jazz tramite centinaia di uscite, spesso autoprodotte. E neanche parleremo dei grandissimi Art Ensemble of Chicago, non perché meraviglie come People In Sorrow, Les Stances A Sophie, Certain Blacks o Fanfare For The Warriors non sarebbero assolutamente perfette per questa lista, ma soltanto perché già sufficientemente "riscoperte". Ci occuperemo invece di artisti un po' tangenziali, posteriori, o fuoriusciti da altre tradizioni. Di supergruppi, di cose più contaminate, assurde, estreme… Insomma, di fuoco.

Ovviamente una lista di questo tipo non può avere nessuna pretesa di oggettività (quale?) né di esaustività: altri mille potrebbero essere i titoli segnalati, e per ciascuno si può percepire o meno una sfumatura che li possa ascrivere alla categoria.
Si tratta tutto sommato di un gioco, di suggestioni, e—se anche non ci vorrete seguire nella definizione—di dieci dischi consigliatissimi.

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The Jazz Composer's Orchestra – s/t (JCOA, 1968)

Se una delle poche e confuse regole che illustravo qui sopra era quella di evitare i nomi troppo noti, ecco che la infrangiamo subito partendo con un lavoro che vede in formazione nomi come Cecil Taylor (la cui parte qui è tra le migliori della sua intera carriera), Don Cherry, Pharaoh Sanders e Gato Barbieri (ma pure Charlie Haden e nomi che vedremo più avanti come Alan Silva e Jimmy Lyons). Possiamo dire quantomeno che non si tratta di certo di uno dei loro dischi più famosi, ci sembra però perfetto per cominciare la nostra lista, soprattutto perché si tratta di un disco… Be', incredibile. Intanto va detto che la testa dietro al tutto è quella di Michael Mantler, austriaco trapiantato in America che ha composto, diretto e organizzato questo mastodonte che si potrebbe paragonare, se non per portata rivoluzionaria quantomeno per l'approccio, ad Ascension o al famoso Free Jazz di Coleman. Perché questo disco non sia più famoso è un mistero, anche perché i nomi sono quelli che stanno scritti in copertina, e la critica è in realtà abbastanza unanime nel magnificarlo. Io stesso ne ero all'oscuro finché non me lo sono trovato davanti nella sezione degli usati di un bel negozio torinese; attirato dal box lussuoso e dai nomi mi sono fiondato a reperire più informazioni e trovando commenti che lo definivano "forse un po' troppo avanguardistico" ho capito che non potevo proprio farmelo sfuggire. Non esistono ristampe vere e proprie, ma è relativamente facile da reperire nel mercato dell'usato (troppi acquirenti spaventati?).

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Sonny Sharrock – Black Woman (Vortex Records, 1969)

Qui ci discostiamo non poco dal classico jazz, per un disco che ha quasi del blues, del soul—anche grazie al fatto che Sharrock è un chitarrista, e che chitarrista. Ma quello che sicuramente rende questo disco il culto che è, e lo fa spiccare in mezzo a molti altri, è il contributo vocale di Linda Sharrock, la moglie di Sonny. Le sue grida sono il fuoco applicato alla voce tanto quanto le esplosioni di Coltrane lo erano applicato al sassofono: un potentissimo sabba che se ne frega di ogni convenzione musicale. In piena faccia.
Ristampa piuttosto recente su 4 Men With Beards.

Jimmy Lyons – Other Afternoons (BYG, 1970)

Disco tra i meno estremi di questa lista, che può servire come introduzione: sopportabile, facile da seguire, perde la bussola e parte per la tangente solo raramente.
Descritto così sembrerebbe però un disco di poco conto, ma si tratta invece di un album di enorme classe e di grande perizia tecnica (Lyons sarà un pilastro del trio di Cecil Taylor), ma soprattutto capace di dimostrare una creatività incredibile anche senza spingere troppo sul versante dell'estremo. Da riscoprire.
Ristampa di facile reperibilità come per tutto il mitologico catalogo Actuel (la collana della BYG dedicata alle musiche di avanguardia).

Alan Silva and The Celestial Communication Orchestra – Seasons (BYG, 1970)

Ok, con Alan Silva si fa davvero sul serio. Questo è un disco che può mettere a dura prova chiunque, anche chi è abituato alle peggiori asprezze noise.
Se già il suo precedente Luna Surface era una rappresentazione in musica dell'inferno, con un nutrito gruppo di musicisti intenti a fare il maggior casino possibile, qui la formula si inasprisce ulteriormente in quanto si tratta di un triplo live. Se là ci si limitava a una mezz'ora scarsa, qui siamo di fronte a un mastodonte di quasi due ore e mezza: una specie di prova di forza per le vostre orecchie e per la vostra salute mentale, ma anche una pietra miliare per chiunque nella musica cerchi l'estremo, il disturbo, e il caos.
Per la ristampa, come sopra. Anche se per questioni di praticità e di qualità del suono è probabilmente preferibile la versione in doppio CD.

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Joe McPhee – Nation Time (CjRecord Production, 1971)

Tutti in piedi per questa gemma, fra i dischi più esplicitamente politici della nostra lista, nonchè mio personale Sacro Graal visto che è introvabile pure la recente ristampa sull'inglese Bo'Weavil (l'unica edizione di facile reperibilità è quella in cd sulla benemerita Unheard Music Series della Atavistic). A parte nell'ultimo brano, che vira decisamente verso il free, la particolarità di questo disco è che è stato uno dei primi in cui non si sa bene dove cominci il jazz e dove finisca il funk: ci si ritrova su un tappeto funkettone—il piano elettrico parla chiaro—con momenti free, per poi turbinare in un'alternanza tra i due stili (a volte con l'accento sulle dissonanze e altre sul ritmo) che davvero non può lasciare indifferenti.
Un capolavoro che se fosse uscito per esempio su Columbia Records trovereste in tutti i manuali jazz, mentre così resta appannaggio di pochi fortunati.
What time is it? Nation time!

Black Unity Trio – Al Fatihah (Salaam Records, 1971)

Tra i più infuocati e misconosciuti dischi free di sempre, questo trio dell'Ohio vede un percussionista completamente sconosciuto e un sassofonista poco più noto affiancati a quello che diventerà probabilmente il principale violoncellista del genere (Abdul Wadud), già mostruoso. È nell'interazione tra questi ultimi due che sta la forza di questo impressionante spiritual jazz, caratterizzato da quella certa malagrazia (anche per via della registrazione non propriamente impeccabile?) e irruenza giovanile che ce lo fanno amare ancora di più.
Meriterebbe una ristampa al più presto (esiste solo la prima, assolutamente introvabile, stampa in LP).

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Noah Howard – The Black Ark (Freedom, 1972)

Altro culto assoluto, introvabile per decenni ma ristampato propriamente (con un'elegante copertina in pelle) [speriamo finta, nota della redazione] da Bo'Weavil, e per ora facilmente reperibile. Disco magico, la cui formula consiste nel partire da melodie latine o orientaleggianti per condurle poi verso la follia e il suono "liberato". Non un concetto estremamente nuovo, ma che importa: quello che lo rende particolarmente notevole è la bravura mostruosa di tutte le parti in causa, non ultimo il sassofonista di New Orleans che tiene a battesimo il disco, ma soprattutto la sezione ritmica, con le sue percussioni originali ed effettate (un phaser che punta verso Saturno) che donano al disco quel particolare respiro che lo rende memorabile.

Hüseyin Ertunç Trio – Mûsikî (Intex Sound, 1974)

Qualche tempo fa mi trovavo nel magazzino di Holidays Records quando Stefano mi dice che sta per ristampare "il disco più bello di tutti i tempi".
Mi dà solo qualche indizio: anni Settanta, un turco e due fratelli americani.
Dopo qualche giorno ci arrivo. Ero incappato in questo album qualche tempo prima (anche se sinceramente non ricordavo chi fossero i vari elementi), alla ricerca di jazz lontano dai soliti percorsi, vicino a quella Organic Music del mio amato Don Cherry.
E qui avevo trovato un batterista e due polistrumentisti (zurna, clarinetto, flauto, sassofono, basso…) per quella che più che jazz si potrebbe definire musica totale: approccio primitivo, improvvisazione cosmica, e momenti che si fondono l'uno nell'altro senza apparente logica ma con assoluta maestria, regalando infinita meraviglia e un profondo senso di trance. L'album è solo un tassello di una serie realizzata dal gruppo nel '74, ciascuno intitolato a uno dei tre—gli altri due sono Michael Cosmic, Peace In the World e The Phil Musra GroupCreator Spaces. Inutile dire che ne attendiamo le ristampe come l'acqua nel deserto.

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The Pyramids – King Of Kings (Pyramid Record, 1974)

Band dell'Ohio, mai così vicino all'Africa, che sembra venire da un altro mondo (quello degli spiriti che si dice fossero presenti durante le registrazioni?).

Percussioni ipnotiche di rara potenza, condite con dissonanze free e ripetitività, ma con più melodia che asprezze, per un approccio meditativo e uno spirito indubbiamente cosmico: un disco davvero di un altro mondo.

Di facile reperibilità la ristampa sulla tedesca Disko B.

Bengt Berger – Bitter Funeral Beer (ECM, 1981)

Chiudiamo con un'uscita ben più tarda, un disco poco famoso della ECM. Si tratta di jazzisti avant svedesi (ma tra loro c'è pure Don Cherry) che suonano la funeral music della popolazione Ewe del Ghana. Questa la descrizione tecnica, ma è qualcosa di davvero difficile da descrivere a parole. Conviene forse ascoltare i 20 minuti del lato B ("Darafo"), per capire cosa può significare una musica che parte dall'Africa, acquisisce sfumature arabeggianti e si dipana in mille direzioni fino a non poterla proprio più classificare se non come una specie di esperienza estatica. E tutto questo suonato da degli svedesi! (E ok, anche da un fuoriclasse assoluto americano). Purtroppo è difficile da trovare a prezzi ragionevoli, e una bella ristampa sarebbe davvero necessaria.

Bonus: AA.VV. - Wildflowers: Loft Jazz New York 1976 (Douglas, 2005)

Aggiungiamo in extremis anche questa compilation, particolarmente adatta a spiegare di cosa stiamo parlando. Loft Jazz può sembrare un nome fighetto, ma in realtà era tutto il contrario, non musica per cocktail quanto musica che veniva suonata live in gallerie d'arte indipendenti, da sempre fucina di musiche pazze e libere (qualcuno ha detto Trastevere?). I loft in questione erano infatti gestiti cooperativamente dai musicisti stessi, lontano dagli ambienti dei club più commerciali o delle grosse sale da concerto, per potersi dedicare alla creatività più pura e libera. Il Loft Jazz è da intendersi un po' come una diramazione del free jazz, che persa (per esaurimento?) la sua carica più dissonante ha guardato maggiormente verso l'utilizzo di strumentazioni strane, soprattutto percussioni non convenzionali, risultando libero più che nelle strutture (paradossalmente un mezzo "passo indietro" verso quelle classiche, con più scrittura e pianificazione), proprio nella forma in cui veniva presentato. Se in molti pensano che nei tardi anni Settanta il jazz abbia visto un periodo di crisi dopo le glorie degli anni Cinquanta e Sessanta, in realtà il punto è che le forze più creative si erano soltanto spostate un po' nell'ombra, ma non per questo erano meno vitali o meno potenti.
Un buon compendio di questa scena si può trovare nel triplo CD che raccoglie al completo una collana di cinque LP pubblicati nel '77, registrati allo Studio Rivbea di Sam Rivers durante la settimana dello Spring 76 Music Festival: ventidue esibizioni che coinvolgono più di sessanta musicisti (compresi molti grandissimi nomi come Anthony Braxton, Jimmy Lyons, Sunny Murray, Roscoe Mitchell, Randy Weston, Dave Burrell, tra gli altri). Gli spazi erano piccoli, fumosi e caldissimi, il pubblico era poco, ma la grandezza stava tutta nell'ambizione artistica. È stato chiesto ad Alan Douglas, che la collana di LP l'aveva originariamente pubblicata, se ci avesse guadagnato qualcosa: "Certo che no", si è messo a ridere. "Ma ho avuto la fortuna di produrre qualcosa di grande, di importante. È quello il guadagno che conta davvero".
Libertà, maestria strumentistica, melodia, groove funk e improvvise esplosioni: che cosa volete di più?

Ecco tutto. Buon divertimento e buona estate, e state attenti a dove buttate le sigarette.

Federico ci tiene all'ambiente. Seguilo su Twitter: @justthatsome