Salvatore Esposito fotografa la realtà più estrema di Napoli

Napoli, quartiere Scampia. Un tossicodipendente si inietta una dose. Tutte le foto di Salvatore Esposito/Contrasto.

Contrasto è il punto di riferimento per il fotogiornalismo in Italia. Da 30 anni rappresenta alcuni dei migliori fotografi e fotoreporter italiani ed esteri, oltre a diverse agenzie internazionali come la Magnum. Quella che state leggendo è la nuova rubrica in collaborazione tra Contrasto e VICE Italia, in cui intervisteremo alcuni dei nostri fotogiornalisti italiani preferiti per farci raccontare le storie e le scelte dietro il loro lavoro. In questa prima puntata parliamo con Salvatore Esposito, fotografo napoletano che da anni documenta quello che succede nella città partenopea e nelle sue periferie più disastrate.

Lo scorso settembre i comuni di Giugliano, Acerra e Afragola hanno negato l’autorizzazione alle riprese della seconda stagione di Gomorra. Dopo questa decisione, sulla serie si era espresso anche il questore di Napoli, Guido Marino, dichiarando che “certi programmi tv sono offensivi e per niente rappresentativi della realtà che vogliono rappresentare.” Come puntualmente avviene da qualche anno a questa parte, si è insomma tornati a dibattere su quale sia il modo “migliore” di rappresentare realtà estremamente complesse e sfaccettate come quelle di Napoli e dintorni.

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Salvatore Esposito ha iniziato a occuparsi di cronaca per un quotidiano locale, e col passare degli anni si è focalizzato sempre di più sulla criminalità organizzata. Oltre a questo, Esposito si è occupato anche di temi come l’immigrazione, la prostituzione e la criminalità giovanile all’estero, specialmente nelle banlieue francesi.

Uno dei suoi lavori più impegnativi—ad esempio—è stato L’inferno di Scampia, in cui per due anni e mezzo, stando a stretto contatto con gli spacciatori della camorra, è riuscito a raccontare la “periferia più pericolosa d’Europa.” Nel corso della sua carriera ha vinto numerosi premi in Italia e all’estero, e ha pubblicato il libro Quello che manca. Un viaggio intorno a Napoli. L’ho chiamato per fargli qualche domanda.

Napoli, quartiere Scampia. Un tossicodidendente dopo essersi iniettato una dose nelle case abbandonate nelle Vele, adibite dalla camorra a “stanze del buco” per evitare che i tossicodipendenti si buchino per strada.

VICE: Ciao Salvatore. Come hai iniziato ad avvicinarti al fotogiornalismo?
Salvatore Esposito
: Ho cominciato come assistente per servizi di moda, ma ho capito che non era proprio quello che volevo. La prima esperienza che ho avuto da professionista è stata con un giornale: sono stato scaraventato subito nella professione, non c’è stato un periodo di apprendistato o qualcosa del genere—mi hanno letteralmente “buttato” per strada.

Visto che il giornale si occupava di tutto a 360 gradi, dalla politica allo sport, mi è capitato di fotografare molte morti di camorra, insieme ai sequestri di armi e droga. Quando c’erano i blitz notturni a volte ci svegliavamo alle tre di notte per andare in caserma e seguire le operazioni. Questa è stata la mia scuola: qui ho imparato come ci si rapporta ai diversi tipi di notizia, a essere veloce nella trasmissione e a raccogliere tutto in una fotografia in modo da spiegare l’evento.

Il fatto che mi sia poi avvicinato a progetti sulla criminalità a lungo termine è innanzitutto un retaggio culturale, perché da ragazzino ho vissuto queste cose nella mia città e di conseguenza ho deciso di approfondire.

Marigliano, Napoli, nella Comunità Colmena dell’Associazione Jonathan ONLUS. Uno dei ragazzi ospiti della Comunità esibisce un suo tatuaggio. Il ragazzo era detenuto per rapina.

Perché hai deciso di focalizzarti sulla criminalità organizzata e su quello che le gravita attorno?
Lavorando spesso su notizie di questo genere, mi sembrava di non aggiungere nulla con le mie fotografie. Per me, dunque, questo argomento meritava un approfondimento più intimo. Non mi interessava tanto perché il fatto succedesse, quanto piuttosto lo scoprire—ad esempio—cosa può spingere una persona a spacciare o commettere reati.

Uno dei progetti in cui sei andato più in profondità è L’inferno di Scampia. Mi puoi spiegare come hai impostato il lavoro?
In alcune periferie di Napoli, come in altre in giro per il mondo, ci sono delle carenze strutturali. I bambini non vanno a scuola, non c’è lavoro… Queste periferie vengono costruite per metterci dentro tutta una serie di strati sociali più bisognosi, che poi si organizzano come possono.

Siccome mi sentivo fuori da quella che percepivo essere la “vera” storia, ho cercato di vedere la situazione di Scampia con occhi diversi e di stabilire un rapporto con gli spacciatori e con chi vive lì. Se tu non parli con queste persone, e non ci entri in confidenza, non riuscirai mai a comprendere le loro storie e le ragioni sociali che stanno dietro a certe azioni.

Napoli, quartiere Scampia. Una veduta della Vela Rossa attraverso un vetro rotto a colpi di pistola.

Per me è stato fondamentale raggiungere prima una certa “intimità.” Sono stato sei mesi senza macchina fotografica e registratori per confrontatarmi veramente con loro. Solo così ho potuto farmi un’idea delle loro mancanze, cosa significa crescere senza un padre perché è in galera, cosa significa crescere andando a scuola senza la merenda—che può sembrare una cavolata ma non lo è, visto che non ti senti come gli altri.

Alla fine, tutte queste sofferenze interne venivano fuori da quelli che definisco “uomini-bambini,” perché a me sembravano dei ragazzi che non hanno mai superato la fase infantile, o che comunque non hanno mai vissuto per bene l’infanzia.

Marigliano, Napoli. Due ragazzi della Comunità Colmena in misura cautelare restrittiva.

Recentemente è tornata d’attualità la questione delle nuove generazioni di camorristi. Tu hai dedicato a questo tema il progetto sulla comunità di recupero Colmena, dove sono ospitati minori che hanno commesso reati.
Colmena è un lavoro nato dopo L’inferno di Scampia . Trovavo interessante vedere come questi ragazzi reagissero di fronte a opportunità e impulsi positivi.

Per quanto riguarda più in generale gli “uomini-bambini” di cui si sta parlando molto adesso, dato che il potere delle vecchie famiglie è decaduto a casua della repressione dello stato, sono rimaste le nuove leve a cercare di prendere i territori. Ma un ragazzo così giovane non ha la maturità—ammesso che si possa parlare di maturità in questi termini—per decidere se sparare o no. I vecchi boss ci pensavano un po’ di più; loro invece hanno un’irruenza maggiore, e se devono sparare non ci pensano due volte. Hanno una determinazione nell’affermarsi che provoca una serie di accaduti sgradevoli, tra cui i morti innocenti.

Napoli, quartiere Scampia. Uno spacciatore in cima a una delle Vele con la sua pistola calibro 7,65.

A proposito di questo tema, ultimamente ci sono state delle polemiche intorno alla seconda stagione di Gomorra. Visto che lavori con le immagini, cosa ne pensi di come la tua città è stata raccontata—o non raccontata—in questi ultimi anni?
Il libro di Roberto Saviano è stato importante dal punto di vista documentaristico, perché dopo tremila saggi sulla camorra di cui nessuno se n’è mai fottuto niente è riuscito a portare la questione a livello mondiale. Detto ciò, il film l’ho trovato necessario; la serie, invece, poteva anche non esistere. È un’estetizzazione del fenomeno. Certo, sono liberi di farlo e non mi oppongo. Tuttavia, il pericolo di una fiction è quello di poter creare entusiasmo.

Per il resto, Napoli ha mille facce e può essere rappresentata in mille modi. È una città piena d’arte, ma se ti interessa parlare della camorra è chiaro che il fenomeno esiste. Io non mi sento “discriminato” da questo. Ci sono persone che dicono: “perché non parlate del buono che c’è?” Ecco, si deve parlare di tutte e due le cose. Io non mi sento discriminato da questo.

Castel Volturno, Caserta. Una macellazione clandestina: gli immigrati, per pochi euro, macellano le bufale per la camorra.

Tra i modi in cui hai lavorato sul territorio c’è anche il progetto su Castel Volturno, che volendo si può inserire nel filone delle periferie. Cosa ti ha spinto a farlo?
Se attraversi Castel Volturno ti accorgi di entrare in un altro mondo—formalmente è in Italia, ma potrebbe essere davvero ovunque. È una landa desolata di cui lo stato si è dimenticato. O meglio: visto che non sapevano come gestire questa massa di immigrati, hanno preferito dimenticarsene.

Tra l’altro, Castel Volturno doveva essere la “Miami del Sud,” c’era un grande progetto dietro. Ma dopo la speculazione edilizia, l’area è stata abbandonata a se stessa e le case sono state occupate. Ora ci sono tutte le attività criminali possibili immaginabili. Ad esempio, il caporalato è gestito dai casalesi; la prostituzione è organizzata dai nigeriani; il traffico di crack è stato appaltato ai nigeriani dalla camorra, e questo ha portato alla nascita delle crack house. Io ho trattato soprattutto quest’ultimo aspetto.

Bordeaux, Centro di recupero minorile Saint Françoise Xavier. Un ragazzo fuma nella sua stanza.

In Generazione Bordeaux invece ti sei occupato delle banlieue francesi. Che differenze hai notato con le periferie napoletane?
Avevo in programma di analizzare il fenomeno criminale giovanile anche in altre nazioni. Per ora sono riuscito a fare questo spaccato di Bordeaux. La Francia è diversa dall’Italia, dove i fenomeni criminali sono strutturati e hanno una certa gerarchia. Per certi versi, questo affascina la criminalità degli altri paesi—come in Francia, dove la mafia è vista come un’organizzazione dal potere immenso. Qui però il fenomeno ha più a che fare con le bande armate e la ghettizzazione legata sopratutto alle seconde e terze generazioni di francesi, che non hanno l’opportunità di godere davvero il proprio paese.

Marigliano, Napoli. Uno dei ragazzi ospiti della Comunità Colmena esibisce un suo tatuaggio.

I tuoi reportage sono tutti in bianco e nero. C’è una scelta dietro questo uso?
Sono cresciuto guardando i fotografi della Magnum Photos e sono rimasto molto influenzato dal loro uso del bianco e nero. In particolare, Brooklyn Gang di Bruce Davidson è il lavoro che mi ha più ispirato e continua a essere moderno nel suo stile, nonostante i suoi 50 e più anni.

A parte le mie influenze, considero il bianco e nero un linguaggio unico e sopratutto necessario nelle storie umane a cui mi avvicino, non potrei rappresentarle diversamente. È la mia lingua; di più, è il mio modo di pensare e di vedere quelle realtà. Mentre la scatto, la fotografia la vedo già in bianco e nero. La fotografia è come le lingue: c’è chi parla russo, chi cinese, chi arabo e c’è chi fotografa a colori, in formato quadrato, ecc. Per me il bianco e nero è uno “stato mentale.”

Ho spesso discusso con persone che ritengono il bianco e nero un modo “trendy” o “furbo” di rappresentare una storia, perché il bianco e nero “abbellisce” o “affascina” la situazione rappresentata. Niente di più falso: se non c’è contenuto si noterà sempre che è una foto vuota. Purtroppo il digitale ha incancrenito questa cosa, perché ora puoi convertire in un secondo momento e quindi non essere obbligato dalla fase di ripresa.

Recentemente, con il documentario La cella zero, hai deciso di usare il video per raccontare le violenze inflitte ai detenuti nel carcere di Poggioreale. Come mai questa scelta?
Premetto che sono un fotografo, e ho sempre voluto fare il fotografo—a differenza di molti colleghi che magari volevano lavorare con i video. Fotograficamente parlando però, in questo caso le storie di questi ex detenuti si sarebbero fermate a un ritratto con una lunga didascalia.

Secondo me, invece, la forza di questa storia stava proprio nel racconto di queste persone. Quindi ho optato per il video, che mi sembrava il linguaggio più appropriato per un progetto del genere. Intrecciando le sei storie presenti in La cella zero, dunque, sono riuscito a narrare un’unica, drammatica storia che è quella della Cella Zero—una grande violazione dei diritti umani negli anni Duemila. Il risultato, da esordiente, è stato sorprendente: il documentario è già al quarto premio e al quindicesimo festival.

Napoli, quartiere Scampia. Un bambino si tuffa in una piscina sul terrazzo nelle Vele.

A cosa stai lavorando al momento? Quali sono i tuoi progetti futuri?
Sicuramente seguirò ancora la criminalità. Poi sto facendo un lavoro un po’ “romantico,” cioè sulla storia di due gemelli autistici monozigoti. Avevo cominciato un lavoro sulla violenze sulle donne, ma procede lentamente. Ho anche altri progetti nel cassetto: le idee sono sempre di più e i soldi sempre di meno—è una bilancia che spesso non si riesce a equilibrare.

Per vedere altre foto di Salvatore, vai sul suo portfolio sul sito di Contrasto.

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