Música

Le canzoni più nazional-popolari della storia di Sanremo

stato-sociale

Diciamolo, oramai Sanremo lo guardano tutti, soprattutto chi lo odia. È un paradosso, ma funziona. Mi domando perché questa gente non si guardi, chessò, il circo in diretta o Holiday On Ice. Sarebbe stato bello farlo condurre a Celentano, questo festivalaccio, così magari ci avrebbe risparmiato il suo cartone animato e ci avrebbe invece regalato il mitico numero di far spegnere la TV in contemporanea a milioni di spettatori: così, sì, avremmo raggiunto l’apoteosi, il riscatto, la rivoluzione, altro che il “festival politico“ di Baglioni.

A proposito: ma politico de che? Quando mai a Sanremo c’è stata la volontà di parlare di cose serie? Suvvia, è il festival della canzonetta. A parte rare eccezioni, il livello è quello delle chiacchiere da bar, degli svagheggiamenti da ubriaconi, delle riflessioni durante una partita a carte. Anche uno teoricamente politicizzato come Finardi si è presentato a Sanremo con una canzone su Lara Croft di Tomb Rider.

Videos by VICE

A Sanremo, più che la politica, a farla da padrone è il pressappochismo nazionalpopolare, l’arma più efficace per raggiungere l’unico scopo: vincere. Quale miglior modo per ottenere i favori della maggioranza più ampia possibile che essere superficiali, ambigui e subdoli? Ultimamente gli Of New Trolls (cioè i tre dei New Trolls che non sono in una delle altre cinquantasette band tributo/derivate dai New Trolls) hanno fatto polemica per essere stati esclusi dalla competizione sostenendo che la loro canzone fosse scomoda perché toccava discorsi politici e di attualità controversi, ma se ascolti la canzone ti rendi conto non si pone proprio il problema né a livello lirico né musicale, perché è terrificante. E pensare che i New Trolls, quelli veri, si presentarono al Festival con “Faccia di cane”, con il testo scritto da nientepopodimeno che Fabrizio De André. Lì l’argomento emarginazione era trattato in modo serio anche se, ovviamente, non esplicito. Ma almeno in quel pezzo non c’era la parolina magica: Italia.

È questo infatti l’”Apriti Sesamo” per il cuore degli italiani. Parliamone bene o parliamone male, di st’Italia, purché se ne parli. E allora adesso vi beccate una sfilza di capolavori del nazionalpopolarismo sanremese, visto che a quanto pare non passa mai di moda.

Elio E Le Storie Tese – “La terra dei cachi” (1996)

Non ve l’aspettavate eh? Invece partiamo proprio dai paladini dello sberleffo intelligente, che in qualche modo hanno sempre cercato di smuovere le acque dei benpensanti musicali e non. Elio e le Storie Tese si presentarono a Sanremo con un brano che prendeva per il culo l’Italia e arrivarono al secondo posto (qualcuno dice anche che ci furono dei brogli per non farli vincere), trasformandosi nell’eccezione che conferma la regola. Il pezzo è uno dei più amati del loro repertorio, e del resto come potrebbe essere altrimenti? L’arrangiamento ineccepibile e le esibizioni bizzare sul palco dell’Ariston (come quando velocizzarono il brano fino a farlo durare 55 secondi per aggirare l’obbligo di farne ascoltare solo un minuto) sono rimaste nella storia. Ma leggiamo il testo: non è come leggere un gazzettino locale? Non ci sono neanche tante parolacce, nulla che sfidi il buongusto; aleggia semmai una sorta di “sdegnata educazione”, ironica ma anche seriosa. I nostri poi ci presero la mano nella tecnica nazionalpopolarismo al contrario, rientrando dalla porta sul retro con “La canzone mononota”, che ottenne il secondo posto e il plauso generalizzato. Il fatto però è che l’armonia invece era molto complessa. Se l’avessero fatta davvero tutta di una nota sola li avrebbero cacciati a calci, garantito.

Pupo, Emanuele Filiberto, Luca Canonici – “Italia amore mio” (2010)

Altro eroe di questa categoria fu Pupo, il quale si presentò a Sanremo insieme a Emanuele Filiberto, erede di casa Savoia, e lo sconosciuto tenore Luca Canonici, con quella che dovrebbe essere una lettera d’amore all’Italia da parte dell’ex-esiliato di famiglia reale. La cosa assurda è che Filiberto in Italia ci era tornato ormai da un pezzo, poiché gli effetti del provvedimento ai suoi danni erano cessati nel 2002 (con il terribile effetto collaterale della sua trasformazione in “personaggio televisivo”). Con “Italia amore mio”, i nostri inanellano una serie di luoghi comuni strepitosi che rendono questo brano un capolavoro del genere. Studiato a tavolino per dare scandalo, in effetti riuscì ad essere più dirompente di qualunque provocazione degli Elii. Il picco fu raggiunto con l’incredibile operazione di duettare con l’allora allenatore della nazionale Marcello Lippi, tanto per non influenzare nessuno a casa. Si incazzarono tutti: quelli che vedevano nel rampollo dei Savoia sul palco un evidente vilipendio alla bandiera e anche gli orchestrali che lanciarono letteralmente in aria gli spartiti quando seppero che il brano era in corsa per il podio. “Italia amore mio” si classificò seconda, scatenando ulteriori polemiche sul sistema del televoto (e non ci stupisce: d’altronde Pupo aveva già confessato di aver interferito con le votazioni nel 1984). A livello commerciale, il brano non andò da nessuna parte, ma come performance e allegoria della vacuità nazionalpopolare è il massimo. Tanto di cappello.

Pierangelo Bertoli – “Italia d’oro” (1992)

La buonanima di Bertoli, nonostante la fama di cantante impegnato, comunista e incazzato, aveva senso dell’umorismo: nel brano dei soliti Elio e le Storie Tese “Giocatore mondiale” prendeva in giro i luoghi comuni sui disabili e quindi su lui stesso. Nel caso, invece, della canzone di cui stiamo parlando gli rodeva parecchio il culo e non c’è traccia di ironia. Ma ahimè, nonostante dica cose giustissime sulla situazione italiana del periodo le dice in un modo ”militantemente banale”, con una base a mo’ di ballata folk inadatta a una canzone di protesta. E nel testo, immancabile, la parola magica “Italia”, che ovviamente fa drizzare le antenne al pubblico medio, che infatti premiò la canzone facendola schizzare al quarto posto. Sfido, è una canzone che mette con una certa enfasi alla gogna il potere, che al popolo è inviso finché non si sfoga tirandogli monetine e sostituendolo subito dopo con un potere ancora peggiore, magari da venerare, visto che non conosce vie di mezzo. “Italia d’oro” è proprio questo, suo malgrado: un inno dell’italiano medio, forcaiolo e voltagabbana. Ma la genialata di questo pezzo, che dovrebbe essere “contro”, è l’inno nazionale che entra alla fine del pezzo. Sotto col patriottismo! Stringiamoci sotto la bandiera! Insospettisce poi il fatto che tanti abbiano letto in questa canzone una profezia dello scandalo di Tangentopoli, visto che nel 1992 anche i sassi sapevano che la corruzione dilagava (il Pierino di Alvaro Vitali la denunciava già nei primi anni Ottanta). Si diceva, quindi, l’ovvio travestendolo da provocazione.

E pensare che Bertoli qualche anno prima, nel 1984, aveva previsto con agghiacciante lucidità, amara e pungente ironia, senza facili scappatoie retoriche quello che sta succedendo oggi nel brano elettronico “Nel 2000“. Quella sì che meritava il podio.

Lo Stato Sociale – “Una vita in vacanza” (2018)

E sul podio ci arriverà più avanti Lo Stato Sociale con una canzone in cui la parola Italia non si legge, è vero, ma il cui testo è evidentemente modellato sui malcostumi del Bel Paese, senza ombra di metafora. Al suo posto fa capolino l’eroe nazionale e una sfilata di macchiette del nostro paese, dal baby pensionato al disoccupato. E poi ecco il ritornello liberatorio in cui “nessuno ti dice sei dentro sei fuori”. La protesta è alla fin fine solo una sfilza di lamentele. Ne avevamo già parlato su Noisey:

Lodo e compagni si sono limitati a fare quello che hanno sempre fatto: scrivere un ritornello ammiccante, dire cose che avrebbero fatto dire al pubblico informe “hey, conosco questa parola!” e fare una baraccata sul palco per sottolineare la pretesa assenza di serietà del loro gesto musicale.

Ecco, la baraccata. Se il freddo elenco di luoghi comuni sulla nostra bella e tormentata Italia non fosse bastato, ecco lo stratagemma della (meravigliosa, quella sì) “coppia di anziani che ballano” di battiatiana memoria, che ha strappato abbastanza voti al pubblico per un glorioso e inaspettato secondo posto.

Tricarico – “Tre colori” (2011)

Personaggio assurdo Tricarico, famoso per il suo verso “puttana la maestra“. Con il suo modo strambo e malato di porsi, nessuno si sarebbe aspettato che potesse cimentarsi in una canzone sulla patria. E invece i tre colori del titolo sono proprio quelli della bandiera! Il testo ribadisce l’amore per il suol patrio e ricorda chi è morto combattendo per difenderne la libertà, e vabbè.

Il pezzo in pratica è una specie di omaggio ai brani di Roger Waters di The Final Cut dei Pink Floyd, una marcetta tutta fiati, solennità e malinconia. Ma la differenza è che Waters narra di disertori, di antimilitarismo. Qua, anche se apparentemente si parla di unità del paese al di là delle ideologie, si canta un’ode a farsi macellare per un’idea. L’occhiolino definitivo al pubblico? “Tre colori” ha partecipato all’edizione del 2011, nel 150ennale dell’unità d’Italia. Capito Tricarico?

Emma – “Non è l’inferno” (2012)

E l’occasione di grufolare nel trogolo della nostra bella Italia non poteva sfuggire a uno che il concetto di paraculaggine nella musica nazionalpopolare l’ha innovato e portato a nuove vette: Francesco Silvestre dei Modà, una band che parla direttamente al minimo comune denominatore del Paese. Nel 2012 scrisse un brano per Emma Marrone, uno dei tanti prodotti di Amici, con un andazzo armonico melodico e un arrangiamento che pare la pubblicità di Intima di Carinzia. È “Non è l’inferno”, ma invece lo è: su un tema di base che si può riassumere in “l’italiano non arriva a fine mese”, sfila una vera e propria parata di luoghi comuni all’italiana: gli italiani che fanno i sacrifici, gli italiani che hanno fatto la guerra, gli italiani che è sempre colpa degli altri, gli italiani che governo ladro, gli italiani che danno il sangue per il loro paese. Immancabile la svolta finale positiva, perché l’italiano a modo suo ce la fa sempre. Mai formula fu più perfetta per la vittoria.

È lontano lo stile di un grande come Toto Cutugno, che con “L’italiano” metteva in luce le varie contraddizioni di un paese con piccoli spaccati di vita quotidiana (e soprattutto “un partigiano come presidente” che metteva i puntini sulle i). Qua semplicemente si scrive la resa di un paese al suo destino piagnucoloso in attesa del prossimo collasso: lo stesso collasso che rischio io ascoltando questa canzone.

Quindi, come diceva Bennato, sono solo canzonette: ma che politica, che cultura. A Sanremo non vi aspettate colpi di reni, semmai preparatevi alle fitte per l’imbarazzo. E se questo articolo si potesse prendere come guida per individuare in anticipo il vincitore di questa edizione? Chissà che in questa prima edizione dell’era “sovranista” non si sconvolgano le carte e il podio non spetti alle canzoni che non parlano dell’Italia. Che forse, negli ultimi mesi, si è già detto abbastanza.

Anarchia per l’Italia!

Demented tiene per Noisey la rubrica più bella del mondo: Italian Folgorati.

Segui Noisey su Instagram, Twitter e Facebook.