Naturalmente ho odiato anche io, come tutti, ogni singola edizione di Sanremo dai quattordici ai ventott’anni, salvo poi ritrovarmi lì una sera su due a sentire le canzoni per nutrire il mio odio e fare la classifica. Recentemente ho purgato il mio finto-odio nei confronti del festival e ho ricominciato a seguirlo ed amarlo come sotto sotto ho sempre fatto. Ora, vedete, non è che io non mi renda conto che il festival di Sanremo è una merda; è una merda, un evento televisivo del cazzo, e poi ci sono le polemiche sugli ospiti, i conduttori, no alla politica durante il festival, Beppe Grillo ospite fisso finito il periodo di purga, i caps lock, le pagelle di Castaldo, i voti all’abbigliamento di chiunque di lavoro faccia il critico d’abbigliamento; e gli invasori di palco, i matti che fanno roba non richiesta, quelli che urlano stronzate in platea, quelli che si sentono orgogliosi d’essere connazionali di Benigni, la retorica pippobaudiana, le strappone che non sanno parlare italiano a farsi sfottere mentre presentano gli artisti. E poi le cartoline promozionali e quelle cose che hanno a che fare con la parola kermesse, davvero, ne ho la piena e mi fanno vomitare.
Anche da un punto di vista strettamente musicale il festival di Sanremo non significa nulla. Aveva senso quando si tentava di dare una rispettabilità alla Canzone Italiana, così come modellata dai neomelodici e rivoluzionata in seguito da Domenico Modugno (non so perché l’abbia rivoluzionata, ma mio babbo dice che è lui il più grande innovatore della canzone italiana e io ci credo). Ma rimane il fatto che per chi ama la canzone italiana non c’è un evento alternativo da seguire con maggiore interesse. A me la canzone italiana piace, da sempre e per sempre. Un po’ è per via di un meccanismo di identificazione secondo il quale “Volare” mi racconta di me bambino che facevo il puzzle in camera con Davide e mia mamma arrivava con due tazze di karkadè fumante, una cosa probabilmente mai successa; un po’ è per una questione ideologica, nel senso che se è questa la musica per cui siamo conosciuti nel mondo non vedo a che titolo dovremmo provare a farci conoscere con musiche nate in Inghilterra e Stati Uniti e destinate a morire in tempi più brevi della canzone italiana. Nella sua forma più pura, il festival di Sanremo è come il Kumité in Senza Esclusione di Colpi: un luogo dove i maggiori rappresentanti di ogni stile si incontrano annualmente per confrontarsi, con un bello spargimento di sangue ed un solo vincitore alla fine del torneo: c’è quello del ju jitsu, quello del wrestling, il neomelodico, il karateka, il gruppo electro, il cantante intimista e tutti gli altri, ognuno con la divisa da combattimento e forse un mezzo sogno in tasca (Daniele Silvestri, Sanremo 2013).
A seguito dell’annuncio dei nomi in gara al prossimo Festival è uscito un pezzo sull’Huffington Post. Beatrice Dondi, l’autrice, lamenta questa sfrenata corsa alla QUALITÀ nell’ultimo festival. E soprattutto l’assenza di big impomatati alla Al Bano e delle badilate di trash che ci serve per, immagino, contestualizzare e/o proiettare dai nostri commenti su twitter un’immagine di intellettuali rocciosi che si concedono il loro giro annuale nei bassifondi, il Cristo s’è Fatto Uomo dell’indieblogging e del giornalismo musicale. Naturalmente il trash propriamente detto non è mai riuscito a entrare a Sanremo, se non nella forma di trash involontario o di trash scadente (non sono sinonimi); e dovrei buttarvi addosso sei o sette righe per definire la cosa dal punto di vista estetico, il tutto per dire addosso a una giornalista che non sa che trash non è la traduzione italiana di ridicolo. Il quale è invece una categoria dello spirito, spesso involontaria o comunque a cui non è bello aderire, che ha a che fare con l’incoscienza o con il troppo cuore o la mancanza di vergogna o tutte queste cose insieme, e questo sì che è entrato a Sanremo. Assieme ad altre cose: l’emozione, la perizia, l’ossessione per il controllo, la favola dell’underdog, il titanismo, il flame, il posticcio, la polemica costruita ad arte e tutto il resto. Quella che segue, pertanto, è una lista dei miei dieci momenti preferiti a Sanremo, per motivi che cercherò di spiegare.
CRITERI DI SELEZIONE
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Primo: La lista di cui sotto si limita all’ultimo trentennio circa. Il motivo è che sono nato nel ’77 e questa è una lista dei MIEI pezzi preferiti. Non troverete quindi Lucio Dalla o Tenco eliminati anzitempo e altri momenti leggendari del festival che non ho vissuto in diretta.
Secondo: la lista di cui sotto prende in considerazione canzoni presentate in concorso, nelle versioni da concorso (cioè senza considerare le versioni alternative cantate in coppia con un altro artista nella serata weird, usualmente il venerdì). Big e nuove proposte non fa una grandissima differenza, anche se la sezione big la fa da padrona.
Terzo: la lista segue criteri di mutua esclusione tra le singole voci presenti. Anche limitando la scelta agli ultimi trent’anni e alle canzoni in gara, stiamo parlando di una lista di dieci pezzi su un migliaio di canzoni presentate al festival. Non sono presenti, tanto per dire, due pezzi cantati lo stesso anno, né due pezzi cantati dalla stessa persona, né due pezzi che rappresentano per me lo stesso tipo di canzone/cantante (e ovviamente Gli amori di Toto Cutugno, non presente, mi ha emozionato molto di più di Tutti i miei sbagli). Anche così ho dovuto lasciare a terra alcuni fenomeni sanremesi significativi, tipo i carneadi (tra i quali probabilmente avrebbero vinto i Jalisse). Il fattore-gossip è rilevante ma non fondamentale. Il resto è affidato più o meno all’umore e al caso.
La selezione:
10. MATIA BAZAR – GRIDO D’AMORE (2005, finalista, fuori dal podio)
I Matia Bazar sono una specie di Iron Maiden della canzone sanremese e qualcuno non supererà mai la cotta adolescenziale per la formazione con Antonella Ruggiero, la Paul Di’Anno del gruppo, qualcuno li ha ben accettati nella fase successiva con la fase brucedickinsoniana di Laura Valente/Silvia Mezzanotte (quella noiosa ed arenatasi nelle arene, già sai—con Silvia Mezzanotte rubano pure una vittoria al Festival). E poi, in un lampo autodistruttivo, il gruppo si ritrova senza cantante e si presenta al Sanremo del 2005 sfoggiando al microfono tale Roberta Faccani, assunta (pare) con contratto a tempo determinato di cinque anni.
Roberta Faccani, il Blaze Bayley dei Matia Bazar, è una virtuosa del soul bianco di quelle che vedono gli spiriti, a metà tra Diamanda Galas e Sixteen Horsepower. Grido d’amore, nella sua patina da momento dimenticabile destinato al fondo delle classifiche, è una prova di forza: testo orribile, melodia non-memorabile e un generale sanremismo sbagliato che inchioda la bara al gruppo. L’interpretazione di Roberta Bayley Faccani invece vola altissima, fuori dai canoni, imprendibile e assolutamente memorabile. L’ho persa di vista dopo il festival, ma pare che ora faccia roba da solista—la devo recuperare ad ogni costo.
9. LORETTA GOGGI – MALEDETTA PRIMAVERA (1982, seconda)
Probabilmente è la prima canzone italiana che ricordo di aver cantato. Piaceva a mia mamma, la cantava sempre. La canzone preferita di mio padre è “Tu cosa fai stasera” del grande Dario Baldan Bembo, che arriva al terzo posto lo stesso anno.
8 SUBSONICA – TUTTI I MIEI SBAGLI (2000, undicesimi)
La più grossa collezione di sfighe e sbagli a Sanremo è quella che segna la cronologia degli alternativi sul palco dell’Ariston, di quelli chiamati ad esibirsi di fronte a un pubblico—tutto sommato—ostile per portare la voce delle cazzo di Nuove Generazioni in un contesto che può solo travisare, ingoiare, distruggere e rendere ridicolo un discorso che (spesso) lo è già in partenza. Al secondo posto nella collezione di sfighe e sbagli ci sono i patetici tentativi di modernizzare il suono mettendo in gara un pezzo con la cassa, roba che ha fatto finire al Festival Alexia o gli Eiffel 65, Sabrina Salerno e Jo Squillo o DJ Francesco.
Fanno eccezione i Subsonica: in parte perché ai tempi il gioco non era ancora trito e triste, in parte perché ci si sono presentati comunque col più bel pezzo della loro carriera, in parte perché “Tutti i miei sbagli”, assieme forse ad “Andamento lento”, è l’unica espressione di gruva a Sanremo che non sia sbagliata dalle fondamenta. Ma soprattutto per il coraggio di presentarcisi con la coscienza che da lì in poi sarebbe stata diversa, senza buttarla necessariamente in caciara e limitandosi a cantare una canzone senza menarla coi proclami. Ci sono motivi per tirarsela e fare gli snob, ovviamente, ma vi prego di considerare anche solo l’ignobile esibizione dei Bluvertigo l’anno successivo: un drammatico bagno di realtà che manda in culo ogni speranza di lasciare l’alternative al suo posto e impone all’immaginario popolare il più odioso artista/uomo di spettacolo dell’Italia anni duemila. Un discorso che comunque affronteremo in separata sede.
7. MASSIMO RANIERI – PERDERE L’AMORE (1988, vincitore)
Sanremo è anche e soprattutto l’unica passerella rimasta alla old skool per dare mostra di sé, a parte qualche ghetto nelle fasce orarie per casalinghe in cui immagino venga ancora data in pasto una bella dose di canzone napoletana (ho una teoria secondo cui la canzone napoletana mangia il cervello di chi la ascolta; secondo voi?). I neomelodici a Sanremo esistono in due forme: la prima è quella secondo cui la canzone napoletana è un genere musicale esistente e in salute e spurga almeno un concorrente l’anno, tipo Sal da Vinci o Maria Nazionale o Nino d’Angelo, roba della quale da romagnolo non riesco nemmeno ad apprezzare il lato ironico; la seconda è la canzone ipermelodica urlata a squarciagola, il sanremismo originale, quello roots.
Gli esempi più gloriosi da trent’anni a questa parte sono indiscutibilmente due. Uno è l’Al Bano di “È la mia vita” (favoritissimo nel pre-festival, settimo dopo la conta dei voti) che, lasciati Romina Power e relativo poppettino di merda anni ottanta da spot della Cocacola (con cui comunque a Sanremo è stato mattatore assoluto), caccia un grido d’amore alla vita al limite della sua quasi-infinita estensione vocale annichilendo ogni altro concorrente in gara. L’altro è “Perdere l’amore”, lanciata a bomba sul Festival del 1988 (un’annata meravigliosa, mi piace ricordare almeno la pre-forzista Italia di Mino Reitano e la denuncia antistupro di Barbarossa arrivato al terzo posto). “Perdere l’amore” è davvero un’opera monumentale, una cosa che pensarla a mente fredda sembra ridicola e s’ingigantisce solo addosso all’interpretazione carichissima di Massimo Ranieri.
6. MIA MARTINI – LA NEVICATA DEL ’56 (1990, fuori dal podio)
L’edizione del 1990 è vinta dai Pooh di “Uomini soli”, davanti al carichissimo Cutugno con “Gli amori” e al patetico duetto Minghi/Mietta di “Vattene amore”, quella di trottolino amoroso duddù daddaddà (fun facts: sei anni dopo Mietta citerà Bjork tra le sue massime influenze; nel 2013 Minghi verrà campionato da Justin Timberlake). Tutto sbagliato, tutto da rifare. Rimangono fuori dal podio la strepitosa Anna Oxa di “Donna con te” e uno dei massimi vertici del festival di ogni tempo: “La nevicata del ’56”, scritta tra gli altri dal grande Califano (che alla stessa interprete scrisse anche il testo di Minuetto, tra le migliori cose mai partorite dalla musica leggera italiana).
Pare che il pezzo fosse stato scritto per Gabriella Ferri, ma è difficile pensare a quel crescendo cantato da chiunque a parte la donna che l’ha cantata, nel Sanremo del 1990, incassando il premio della critica e restando inspiegabilmente fuori dal podio. Non sono del tutto convinto che l’arte imiti la vita, specie quando la tua arte prevede di cantare canzoni scritte da qualcun altro; è comunque difficile non cadere nelle trappole della retorica quando si ha a che fare con la storia artistica e umana di Mia Martini, una che ha incassato botte sgambetti vessazioni e boicottaggi per tutta la vita e che ha costruito la sua rivalsa con una tripletta sanremese leggendaria dall’89 al ’92 e ci ha guadagnato solo di rinominare post-mortem il premio della Critica.
5. LAURA PAUSINI – LA SOLITUDINE (1993, primo – nuove proposte)
Nel 1993 Sanremo è vinto di misura dalla sensazionale “Mistero” di Enrico Ruggeri, punk prima di noi, davanti alla nefasta “Dietro la porta” del temibilissimo CRIBER (il CRIBER è il figlio del FABER, Cristiano de Andrè insomma), deandreiano prima di noi; ma in gara ci sono anche Biagio Antonacci e “Dedicato a Te” dei Matia Bazar. Per qualche motivo, in ogni caso, la lotta più sanguinosa e appassionante è tra i giovani: al secondo posto la grandissima Gerardina Trovato di “Non ho più la mia città”, al terzo l’ancora più grande Nek con il pippone pro-life di “In Te”. Laura Pausini da Solarolo (RA) si presenta a Castrocaro e trionfa a Sanremo, sconosciuta e con una scopa da su per il culo. Tailleur orrendi, una canzone che parla di un amore adolescenziale, una voce cristallina da cantante di chiesa: se in Italia si potesse parlare di white trash, “La solitudine” ne sarebbe una delle espressioni più limpide. Questa canzone diventerà una specie di testa d’ariete della Romagna nel mondo, Laura si presenterà superfavorita tra i big del Festival successivo, la sua “Strani Amori” viene derubata della palma dall’agghiacciante Aleandro Baldi di “Passerà” e l’inno ai celerini di Giorgio Faletti (“Signor Tenente”). Fanculo, Laura P è già lanciatissima verso il paradiso dei grandi autori, quelli con il disco ricantato per il mercato sudamericano.
4. MARCO MASINI – L’UOMO VOLANTE (2004, vincitore)
Piatto, noioso, greve. Alla lunga persino insopportabile. Non sono parole mie, è la recensione di Breed the Killers degli Earth Crisis (ve li ricordate gli Earth Crisis? Che schifo cazzo) scritta da Claudio Sorge per un Rumore dell’epoca, e per certi versi descrive il di poco successivo ingresso di Masini, con passo malfermo, sul palco dell’Ariston. Misantropo è chi, in un eccesso di vita, è stato abbandonato: I tempi di “Disperato” e “Perché lo fai” sono lontanissimi. Nel 2004 Marco Masini a Sanremo è un underdog, sfoggia completo scuro con camicia aperta e scarpette, lo scazzo allucinato in viso, il sorriso beffardo di uno che non ha più niente da perdere e l’autoironia che basta a fare di un gesto civile un’impresa memorabile. Un gol a porta vuota. “L’uomo volante” è il suo pezzo migliore di sempre, il più leggero, quello che arriva da sotto senza far rumore, senza le parolacce, tutto nervo e niente nerbo. Nella fallimentare “rivoluzione” di Tony Renis per l’edizione del 2004 è uno squarcio di luce.
3. VASCO ROSSI – VITA SPERICOLATA (1983, penultimo)
Non conosco persone che hanno partecipato al Festival, ma me l’immagino come un’esperienza militare: cinque mesi a scrivere perfezionare e provare l’esecuzione di un solo pezzo di tre minuti, scegliere i vestiti, soppesare ogni gesto, pregare che l’emozione non ti chiuda la gola e tutta quella roba che giornalisticamente è buona sì e no per pulirsi il culo; il tutto massacrato dai tempi della diretta, dai rischi del formato televisivo, dalle improvvisate a orologeria e dal freakshow d’ordinanza per scatenare polemiche. Sanremo si svolge in un teatro e i concorrenti sono attori, puro e semplice: se non ti presti al gioco tanto vale non partecipare nemmeno, oppure vai a fare la macchietta e sei responsabile in tempo reale dell’inaridimento ideologico/culturale di questo paese (Elio, Jova, Pitura Freska, Arbore, il maestro Mazza.
Vasco Rossi non è niente di tutto questo. Tutto quello che ha fatto prima o dopo il Sanremo del 1983 per quanto mi riguarda potete gettarlo nel fuoco della geenna, ma nelle parole di mio padre è il diretto e unico responsabile della rovina di una generazione. Intende dire in sostanza che l’impennata del consumo di droghe pesanti a metà degli anni Ottanta è colpa sua. I suoi occhi mentre canta “Vita Spericolata” su un palco deserto con base preregistrata sono il momento più umano mai inquadrato da una telecamera a Sanremo: fissa il vuoto, i vestiti stazzonati, le mani in tasca, racconta un milione di storie.
2 GIORGIA – DI SOLE E D’AZZURRO (2001, seconda)
Quella del 2001 è un’edizione strana: nel pre-festival si fa un gran parlare dell’apparizione di Eminem, accusato (credo) di non essere un modello positivo per i giovani, Raffaella Carrà che ci parla prima dello show e dice “è un bravo ragazzo” e poi l’esibizione è una noia e ci si diverte molto di più coi Placebo epoca Black Market Music, che a polemiche finite spaccano le chitarre sul palco in mezzo a un pubblico fischiante. E poi la noia mortale di tutta la faccenda, Ceccherini agghiacciante che sbrocca nelle serate finali, diversi momenti di vuoto emotivo e cose così. Qualcuno dà Giorgia per favorita e io ricordo di aver pensato che noia, Giorgia fuckin’ Todrani e quel cazzo di soul bianco d’accatto tagliato su misura per impressionare le mamme e i bambini e trionfare a Sanremo, bah.
La prima volta che la sento eseguire Di sole e d’azzurro davanti alla TV ho un collasso emotivo. Nel corso del tempo l’ho anche elaborato, volendo, nel senso che “Di sole e d’azzurro” è un pezzo vuoto e palloso nelle mani di chiunque altro, e forse pure nella versione che sta su Senza Ali (è scritto da Zucchero, voglio dire). Per certi versi non ha nemmeno più senso riascoltarlo: rimane lì, incastrato in mezzo a un festival noioso, con Giorgia che scende accompagnata da un coro di una dozzina di persone e devasta tutto il devastabile in un crescendo vocale che la sera successiva sembra ancora più spericolato e irraggiungibile. TERRA BRUCIATA. Senza alcun motivo apparente il festival verrà vinto da Elisa, anche lei scritta da Zucchero. Magari ha pure senso. Fosse arrivata terzultima sarebbe stata comunque l’interpretazione più annichilente del Festival dal 1980 ad oggi.
1 TOTO CUTUGNO – AEROPLANI (2010, eliminato la prima sera)
Toto Cutugno, come cantante, ha vinto Sanremo con “Solo Noi” ed è arrivato sei volte secondo; come autore per altri ha il curriculum più impressionante della storia della canzone italiana. Dal 1990 ad oggi ha attraversato una fase di crisi, nella quale spicca solo la vittoria a un Eurofestival e un altro secondo posto a Sanremo con quella babbiona di Annalisa Minetti. Piegato nel fisico e nello spirito, ripescato da Baudo per l’edizione del 2008, si piazza subito sotto il podio con la commovente “Un falco chiuso in gabbia”. A quest’epoca è già persona non grata, reliquia del passato e protagonista di un’inspiegabile rimozione collettiva: si rifugia in periodici tour in ex-Unione Sovietica, nella quale pare venga adorato come un dio.
Due anni dopo si ripresenta a Sanremo in evidente stato confusionale, con gli occhi sbarrati e il viso scavato alla Bela Lugosi: la canzone si chiama “Aeroplani”, lui non ci arriva più con la voce, sembra affogare, arriva alla fine buttandoci urla roche alla Phil Anselmo periodo tossico e buio. Un momento di cuore assoluto, forse il più fragile e intenso e bruciante e vero mai messo in scena a Sanremo. Finisce subito, naturalmente, con Toto Cutugno eliminato al primo turno e sbeffeggiato dal branco di mezzeseghe che affollano la sala stampa del Festival e i social network a tema, tutta gente che la musica non la sente dentro neanche se gliela spari su per il culo con una pistola ad aria compressa. Tre anni dopo si ripresenta al Festival di Fazio da ospite, ancora sconvolto e in evidente stato confusionale, pagando di tasca sua il coro dell’Armata Rossa che canta con lui “L’italiano”.
Francesco Farabegoli è una persona sensata nonostante la passione per Sanremo, seguilo su Twitter: @disappunto