“God save the sanctions”
A parlare non è un putiniano sfegatato o un nazionalista russo con un brillio fanatico negli occhi. A parlare è uno chef dall’aria placida, opinioni socio-politiche di tendenza democratica e nessuna (apparente) simpatia estremista. E come lui saranno in tanti, nei miei giorni passati a Mosca, a ribadire come le sanzioni abbiano segnato una vera e propria svolta per la ristorazione russa – in senso positivo.
Prima si tendeva a importare i frutti di mare dalla Francia, sia per l’allure di cui godevano le cucine straniere, in particolare quella francese e quella italiana, dopo il crollo dell’Unione Sovietica
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Facciamo un passo indietro al 2014. Dopo l’intervento militare in Ucraina, nel febbraio del 2014, l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni contro la Russia. Come risposta, nell’agosto 2014, Putin ha posto un embargo sulle importazioni alimentari – frutta e verdura, carne, pesce, prodotti di origine casearia – da Stati Uniti, Unione Europea, Norvegia, Canada e Australia. La decisione è stata propagandata con una retorica fortemente nazionalista, un po’ come l’Istituto Luce che riprende Mussolini mentre falcia il grano ‘autarchico’: guardate questo video per farvene un’idea.
Da quel momento importare i prodotti stranieri in Russia è diventato impossibile a meno che:
a) non si paghino cifre folli, come deve aver fatto il gigantesco Eataly aperto l’anno scorso nel centro commerciale Kievskiy;
b) i suddetti prodotti alimentari non vengano venduti per ragioni salutistico-dietistiche, come i latti vegetali o i biscotti senza glutine. E quindi ecco una crisi diplomatica trasformatesi in insospettata risorsa nazionale.
Prendiamo l’esempio dei frutti di mare. Prima si tendeva a importarli dalla Francia, sia per ragioni logistiche – era più facile far venire un carico di ostrichette da Parigi che i ricci da Vladivostok – sia per l’allure di cui godevano le cucine straniere, in particolare quella francese e quella italiana, dopo il crollo dell’Unione Sovietica (avete mai visto il video delle persone in fila al primo Mc Donald’s in Piazza Rossa? Guardatelo, è piuttosto esplicativo).
Ora si riscopre la varietà piscivora russa. Da Wine & Crab il menu è completamente a tema granchi – russi, ovviamente. Ci sono gli snow crab e gli helmet crab, gli spanner e i Blue King, oltre ai leggendari King Crab, che vengono sia dalla Kamchatka che da Murmansk, al confine norvegese, dove negli anni Sessanta i russi sono riusciti ad effettuare un ripopolamento (c’è chi dice che un’operazione così costosa sia stata fatta proprio per compiacere Stalin, che li adorava). Max’s Beef for Money è un altro esempio di rinnovato e delizioso localismo. Il ristorante è stato aperto un paio di anni fa da un importatore di vini naturali e propone agli ospiti un menu decisamente carnivoro: il manzo proviene da una fattoria di proprietà a Vsevolozhsk, in cui lo chef va una volta a settimana per selezionare la carne, che viene poi frollata all’interno dl ristorante nei frigoriferi a vista.
La proprietà di Wine & Crab è la stessa del pluripremiato Twins Garden, aperto dai gemelli Ivan e Sergey Berezutskiy nel 2016, proprio nel periodo delle sanzioni, e ora basato su un rigorosissimo concept farm to fork, sviluppato in collaborazione con la Russian State Agrarian University. Il 70% dei prodotti viene dalla loro fattoria di 50 ettari a Kaluga.
E poi c’è il golden boy Vladimir Mukhin, protagonista di un bellissimo episodio di Chef’s Table su Netflix, in cui lo si vede andare personalmente nelle fattorie per selezionare i prodotti e proporre ai suoi ospiti portate come il muso di alce. Il suo White Rabbit è 18esimo nella lista dei migliori ristoranti al mondo, a dimostrazione di come fine dining e lusso in Russia non siano più sinonimo di delicacies estere.
Non ci sono prezzi nei mercati russi, perché li decidono in base alla ‘scannerizzazione’ che ti fanno. Se mi metto le scarpe buone me ne propongono un prezzo, se mi mettono quelle da tennis altri.
“Non posso dire che le sanzioni siano state una cosa buona in generale, ma sono sicuramente state buone per gli chef russi” afferma convinto Andrej Shmakov, chef del Savva “Hanno creato una nuova generazione di contadini”. Insieme a lui vado in uno dei quattro mercati coperti della città, il Dorogomilovsky, costruito nel 1936 e rinnovato nel 1991. “Doro” in russo significa costoso, e infatti il mercato era conosciuto per i suoi prezzi più alti della media, anche se aggirandoci tra i banchetti è difficile valutarli: non sono esposti. Come ci spiega lo chef, questa è una caratteristica dei mercati russi: “Non ci sono prezzi perché li decidono in base alla ‘scannerizzazione’ che ti fanno. Se mi metto le scarpe buone me ne propongono un prezzo, se mi mettono quelle da tennis altri” ride Andrej.
La proprietà del mercato è russa, ma la maggior parte dei venditori viene dai paesi del Sud ex URSS: Tagikistan, Uzbekistan, Kirghikistan. Ci aggiriamo tra montagne di pickles, i sottaceti popolarissimi nella cucina russa, vasche di caviale (qui c’è un ulteriore scarto di prezzo: con o senza fattura ci può essere una differenza di 600 euro), agnelli con uno strato di grasso mai visto in quelli europei.
Ci fermiamo a un banchetto di formaggi della Georgia. “Non compro mai formaggio russo” spiega lo chef “Gli animali russi non hanno il latte abbastanza grasso e vengono alimentati male, c’è olio di palma nel mangime. Ma anche in quel campo le cose stanno iniziando a cambiare, e così ora vediamo formaggi come il camembert o la caciotta, riproduzioni – spesso ben riuscite – degli equivalenti europei che qui non possono più arrivare.”
Ma le conseguenze delle sanzioni non sono state solo nazionali. Prendiamo le isole Faroe, ad esempio: non essendo oggetto di sanzioni, hanno continuato ad esportare il loro salmone in Russia e, senza la concorrenza della Norvegia, ne sono diventate il principale importatore – con benefici prevedibili per la loro economia. Oppure prendiamo la Polonia: non ha più potuto esportare mele in Russia e, costretta a tenersele, ha iniziato una fiorente industria della produzione di sidro. E così via. Quanto all’Italia, Matteo Salvini definisce ‘incalcolabili’ i danni economici subiti dal nostro paese per le mancate esportazioni e ha annunciato di voler togliere le sanzioni.
Il mio ultimo giorno a Mosca, nel tragitto in taxi che dall’hotel mi porta all’aeroporto, mi metto a parlare con l’autista, il cui inglese è sorprendentemente buono. Tre ore – avete mai visto il traffico moscovita nell’ora di punta? – di conversazione non sono tante, ma sono sufficienti per grattare un po’ sotto la patina del fine dining o per sgonfiare la bolla dell’alta ristorazione in cui bene o male, per lavoro, mi trovo sempre immersa. “Ti occupi di ristoranti? Io non ho idea di come siano i ristoranti a Mosca” ride “La gente come me non va al ristorante. I russi veri non mangiano nei ristoranti”. Prosegue raccontandomi di come le sanzioni abbiano inasprito la crisi economica russa, del prezzo dei prodotti che è salito, di come ora debbano consumare meno carne e più verdure. Lui però non dà la colpa a Putin, bensì alle potenze occidentali, quelli che chiama gli ‘Obama’s friends’.
E infatti Putin è appena stato rieletto: evidentemente il food ban non ha danneggiato la sua immagine, anzi, hanno contribuito a rinfocolare la retorica della ‘Russia contro tutti’. Comunque le si vogliano vedere, le sanzioni sembrano qui per restare.
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