Tra i miei incubi ricorrenti ce n’è uno a tema università: sono a un passo dalla laurea quando scopro che mi manca un esame, per cui devo rimandarla. O, con una leggera variazione, mi trovo a dare quell’ultimo esame per rendermi conto una volta entrata nella stanza che quel giorno non è prevista nessuna interrogazione.
Ci sono moltissimi studenti che in questi giorni stanno vivendo una cosa del genere, con la differenza che non si tratta solo di uno scherzo dell’inconscio, ma di una situazione con basi reali.
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La notizia infatti gira ormai da qualche settimana, ed è quella dello sciopero annunciato da professori e ricercatori per la sessione di esami autunnale. Tramite una lettera diffusa il 27 giugno dal Movimento per la dignità della docenza, 5444 professori e ricercatori di 79 università ed enti di ricerca italiani hanno proclamato infatti “l’astensione dello svolgimento degli esami di profitto nelle università italiane” nel periodo compreso tra il 28 agosto e il 31 settembre.
Per esperienza diretta, le reazioni che ho riscontrato da parte degli studenti di fronte a questa notizia, specialmente da parte di chi si trova a un passo dalla laurea, sono due: il panico più totale, o la scelta di ignorarla completamente, sperando che evapori senza lasciare tracce. Premesso che entrambe le reazioni sono del tutto legittime, da ex universitaria con incubi da università mi è parso giusto fare po’ di chiarezza sulla situazione, spiegarne le origini e cercare di capire soprattutto quali saranno le conseguenze per gli studenti.
“Questo sciopero è l’epilogo di tre anni di lotte. Abbiamo aspettato pazientemente, abbiamo fatto ben nove azioni diverse per cercare di evitare di dover arrivare allo sciopero. Ci hanno obbligati a farlo,” mi dice Carlo Ferraro, coordinatore del Movimento per la dignità della docenza universitaria e professore al Politecnico di Torino.
Senza voler fare un listone, con le nove azioni Ferraro si riferisce a tutti i tentativi che sono stati fatti,—tramite lettere aperte, incontri e scioperi bianchi—dal 2015 ad oggi, con tre diversi Presidenti del Consiglio e Ministri dell’istruzione, per risolvere la questione che porta allo sciopero. Ovvero, il blocco delle classi e degli scatti stipendiali per il periodo che va dal 2011 al 2015.
Per capire cosa vuol dire bisogna tornare indietro al 2010. Quell’anno infatti il governo Berlusconi blocca gli stipendi per tutti i dipendenti pubblici, compreso quindi il personale universitario, per una durata di tre anni (2011-2013). Dopo che nel 2013 il governo Letta proroga il blocco per un altro anno, gli stipendi pubblici vengono sbloccati l’anno successivo—per tutte le categorie, esclusa quella dei docenti universitari. Per questi, l’anno dello sblocco è il 2015, anno in cui la Corte Costituzionale sancisce l’incostituzionalità della misura.
Ma la questione non è risolta: l’attività professionale svolta in quei quattro anni viene di fatto ignorata, e al momento dello sblocco i professori si ritrovano con lo stesso stipendio e lo stesso ruolo di prima.
“È come se fossimo stati in letargo per quattro anni: tutti gli avanzamenti di carriera e di stipendio che avrebbero potuto potenzialmente esserci in quel periodo, sono spariti. Quattro anni di professionalità completamente svaniti,” mi dice Ferraro. “Noi non chiediamo assolutamente che ci vengano dati i soldi arretrati o di avere aumenti, chiediamo che i nostri stipendi vengano adeguati agli anni di insegnamento e alla carriera. Se così non fosse, ci porteremmo avanti il danno a vita: un danno che è stato calcolato essere di 90mila euro netti per ogni docente,” mi spiega Ferraro.
Ma il problema non è soltanto di natura pratica. Il fatto del 2014, quando ai docenti è stato riservato un comportamento diverso rispetto agli altri dipendenti pubblici, ha avuto secondo Ferraro l’effetto di delegittimare la categoria e di sminuirla agli occhi dell’opinione pubblica. Una delegittimazione che crede sia confermata da alcune scelte recenti del Ministero, e soprattutto che considera ingiusta visti i risultati dell’università italiana in rapporto con i soldi che in essa vengono investiti.
Quello che chiedono docenti e ricercatori è quindi piuttosto chiaro. Ma se nessun accordo venisse raggiunto e si procedesse con lo sciopero, quali sarebbero le conseguenze per gli studenti?
La questione è stata riassunta per la maggior parte con il “salta la sessione autunnale degli esami”. In realtà, anche se per molti studenti l’effetto finale potrebbe essere questo, le cose non stanno proprio così.
Innanzitutto, bisogna capire la portata dello sciopero e quanto sarà esteso. I firmatari della proclamazione dello sciopero sono 5444—solo il 10 percento del totale. Ma il numero di persone che vi parteciperà, mi dice Ferraro, potrebbe essere molto più ampio. “Firmando la lettera, queste persone si sono prese la responsabilità di proclamare lo sciopero, sostituendosi ai sindacati. Ma questo non vuol dire che a partecipare non saranno anche molti altri. Il numero reale lo scopriremo soltanto durante lo sciopero,” mi dice Ferraro.
Quello che queste persone si sono impegnate a fare, non è saltare di netto la sessione autunnale. Piuttosto, per gli esami a più appelli prefissati dal periodo del 28 agosto al 31 ottobre, i professori si asterranno dal tenere il primo degli appelli. Per gli esami ad appello unico, invece, verrà richiesto un appello straordinario dopo 14 giorni.
“Non si deve dire che saltiamo la sessione autunnale, non siamo così irresponsabili. Bisogna garantire agli studenti il diritto di fare gli esami, creare disagio senza arrivare al disastro. Un appello a sessione, anche nel periodo di sciopero, deve assolutamente essere garantito,” commenta Ferraro.
Nel frattempo, diversi comitati studenteschi hanno espresso solidarietà alla causa criticando le modalità della protesta.
C’è poi chi ha avuto il coraggio di dire ciò che il 99 percento degli universitari deve avere almeno pensato. La Conferderazione degli Studenti ha proposto ai docenti, “per mandare un segnale forte circa il loro fondamentale ruolo,” il voto politico a tutti gli studenti durante il primo appello della sessione autunnale. Una provocazione che dai commenti di Ferraro non sembra avere alcuna possibilità di essere considerata.
Sfumato questo sogno, agli studenti non resta quindi che affidarsi al Ministero dell’Istruzione, che ha circa due mesi per trovare una soluzione. In caso contrario, rimane comunque un’estate lunghissima da godersi senza troppi sensi di colpa per il tempo perso a non studiare. Sarà che ho finito gli esami da diversi anni, ma non riesco a vederla malissimo.
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