Poco tempo fa sono venuta a conoscenza della violenza sessuale subita da una persona che mi è visceralmente cara. L’informazione si è fatta faticosamente strada nel mio cervello attraverso alcune tappe piuttosto bizzarre, cambiando forma mentre avanzava nel percorso di elaborazione cognitiva ed emotiva che una notizia del genere comporta. Prima di qualunque altra cosa, quando mi è stato riferito l’accaduto in maniera molto vaga, il mio cervello ha deciso di estrapolarne il contenuto e infilarlo nel format televisivo di Law&Order SVU. Credo che fosse il modo più plausibile per dissociare la sostanza dalle emozioni. Questa ricostruzione dell’episodio—di cui faceva parte anche Olivia Benson, la detective del telefilm—ha veleggiato pigramente nelle pieghe della mia corteccia cerebrale per mesi. Funzionava.
Poi è successo qualcos’altro. Dopo un paio di mesi mi è stato dato un dettaglio realistico, uno solo, la localizzazione geografica dell’accaduto. Una rampa degli handicappati. Ora, questa rampa io la conoscevo, trattandosi di un angolo della stazione secondaria di treni urbani che avevo percorso molte volte quando viaggiavo con un bagaglio scomodo da trascinare giù per le scale. Questo unico dettaglio ha dato il via a un altro stadio: quello della realizzazione compulsiva. Per i tre giorni successivi, l’espressione “rampa degli handicappati” sbucava fuori dal mio flusso di coscienza in continuazione e senza controllo. Tre giorni sembrano pochi, ma non lo sono nel momento in cui ogni volta che formuli un pensiero qualunque fa capolino ossessivamente una “rampa degli handicappati”.
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Per un altro mese ho dormito male e poco, anche alla luce del fatto che questa persona non era stata aiutata da nessuna detective televisiva. Non ne aveva parlato per così tanto, e l’aveva ammesso in un momento di fragilità estrema dopo anni di logorio. La terza fase è stata caratterizzata da fantasie cruente di vendetta che sono sfociate in una rassegnazione irrequieta di fronte all’evidenza che i perpetratori erano, sono e rimarranno anonimi, e dopo così tanti anni a livello legale non è più possibile fare nulla.
Credo che sia stata questa fase a spingermi a chiedermi qualcosa in più su chi siano le persone che commettono questi reati—i sex offender, il termine inglese che sta per “autori di reati sessuali”—e su come venga affrontata la questione in Italia.
Nell’immaginario collettivo (compreso il mio) il reo sessuale rappresenta il gradino più basso della categoria dei criminali. In tutte le carceri esistono reparti separati per i sex offender e la popolazione generica, per evitare gli episodi violenti che scaturirebbero dalla condivisione degli spazi di entrambi i gruppi.
In Italia poi, un paese che non è particolarmente all’avanguardia per ciò che riguarda il concetto di riabilitazione del detenuto, questa caratterizzazione del reo sessuale come un mostro irrecuperabile è più marcata che mai. Eppure, stando ai dati, l’80 percento dei detenuti rei sessuali ci somiglia. Con questo intendo dire che prima di essere incarcerati, questi individui erano persone apparentemente “normali”: insegnanti, padri, vicini di casa e via dicendo. L’idea che il pedofilo o lo stupratore sia un sociopatico è tanto radicata quanto fallace. Questo è ampiamente dimostrato dal fatto che gli abusi sessuali vengono compiuti nella maggioranza dei casi dai familiari delle vittime, e che molte delle credenze su cosa sia stupro e cosa no, come spiegano alcuni studi sociologici, siano le stesse tra stupratori condannati e studenti universitari.
Per approfondire questi temi e sciogliere almeno in parte la dissonanza cognitiva che tutte queste informazioni mi provocano, ho cominciato a fare un po’ di ricerche—imbattendomi fin da subito nel nome di Paolo Giulini, che coi suoi collaboratori è tra i pochi (se non l’unico) in Italia a occuparsi di prevenzione e trattamento dei sex offender.
Ci incontriamo a Milano, negli uffici del Centro Italiano per la Promozione della Mediazione (C.I.P.M.). Il centro gestisce un Servizio del Settore Sicurezza del Comune di Milano, il Presidio Criminologico Territoriale, dove si effettuano gruppi trattamentali per uomini violenti o rei sessuali, per parenti di autori di reati sessuali, e attività di valutazione psicodiagnostica gratuita per i cittadini milanesi. È da questa esperienza che Giulini ha scritto insieme a Carla Maria Xella un libro, Buttare la chiave?, in cui cerca di fare chiarezza su chi siano queste persone e cosa si possa fare per arginare e prevenire il reato sessuale. Ed è sempre dal lavoro del C.I.P.M. che è nato Un altro me, documentario che segue per un anno il programma di trattamento condotto dal team di Giulini nel carcere di Bollate.
Giulini, mi racconta, è un criminologo con un passato di studi giuridici. Il suo primo contatto coi sex offender risale a parecchi anni fa, quando, fresco di laurea, ha iniziato a lavorare in un piccolo carcere a Sondrio, talmente piccolo che i rei sessuali non erano separati dalla popolazione carceraria normale. Il suo compito era quello di osservare i detenuti, compilare delle schede sulla loro personalità e raccogliere i loro racconti. Dopo poco tempo si è reso conto che le storie di queste persone, per quanto diverse, condividevano tutte lo stesso dettaglio: i sex offender affermavano con determinazione di essere vittime di complotti giuridici e familiari, si dichiaravano innocenti, negavano l’accaduto. Di lì a poco Giulini ha intuito che questo atteggiamento non avrebbe condotto assolutamente a nulla. La non ammissione del fatto comportava che queste persone scontassero la pena abulicamente, senza alcuno stimolo che li facesse riflettere sul loro comportamento. Una volta usciti di prigione, con ogni probabilità, avrebbero commesso lo stesso reato.
Da quel momento in poi ha deciso di studiare da vicino i sex offender, risultando ad oggi uno dei massimi esperti italiani del campo.
Nel 2005 è riuscito a ottenere i fondi per finanziare il già citato programma di recupero dei sex offender—il primo in Italia—a Bollate, un carcere che non è nuovo a progetti cosiddetti sperimentali. In realtà inizialmente il progetto era stato esteso anche al carcere romano di Rebibbia, ma è stato presto sospeso per mancanza di fondi e di uno spazio dedicato. Infatti il programma di trattamento a Bollate si svolge su un piano apposito, dove i sex offender che partecipano alla terapia sono tenuti separati dagli altri autori di reati sessuali. Questo avviene perché, alla discriminazione messa in atto dalla popolazione carceraria normale verso quella sessuale, se ne aggiunge un’altra che paradossalmente investe e divide chi non segue il programma e chi invece sì. Coloro che partecipano al trattamento sono visti dagli altri rei sessuali in negazione come dei mostri che hanno effettivamente commesso un crimine.
La negazione, che come già accennato è il tratto caratteristico che accomuna tutti i sex-offender, è un aspetto molto noto tra gli studiosi, e la ricerca in questo campo pullula di articoli che cercano di capire se sia consapevole o meno, se investa tutta la personalità o solo certi aspetti, se sia in buona o in cattiva fede. Giulini mi spiega che spesso queste personalità sono perfettamente dissociate: la negazione stessa è un sintomo della dissociazione che rende possibile avere, nella sostanza, due vite parallele. Per quanto sia difficile anche solo da immaginare, chi commette un abuso sessuale può essere al contempo una persona che in altre sfere della sua vita è funzionale. Non esiste uno standard condiviso che permetta di categorizzare la personalità del sex offender tramite dei criteri diagnostici ben definiti. “Quella del sex offender è una categoria crimonologica, non psichiatrica,” spiega Giulini.
Il superamento almeno parziale della negazione—che fa sì che i detenuti ammettano a loro stessi e agli altri che qualche cosa di illecito sia effettivamente successo—resta dunque il primo requisito per l’inserimento nel programma di Bollate. A questo si aggiungono la conoscenza della lingua e l’assenza di tossicodipendenza e psicopatologie concorrenti. Inoltre, se la stragrande maggioranza dei sex offender non fa parte della categoria diagnostica dei sociopatici, alcuni di loro sono irrecuperabili e di conseguenza non gioverebbero del trattamento.
Il percorso terapeutico, mi spiega Giulini, segue varie tappe. Inizialmente i volontari firmano un contratto simbolico in cui si impegnano per due mesi a partecipare a tutte le attività previste dal programma. Poi, a seguito di una seconda scrematura, si può scegliere di continuare questo iter fino alla fine dell’anno.
In generale il focus del trattamento e gli sforzi clinici sono tesi a un unico obiettivo: evitare le recidive. Per riuscire in questo compito l’approccio utilizzato è multidisciplinare e sfaccettato, e inizia dall’utilizzo dello spazio carcerario stesso: le celle sono tenute aperte e i detenuti sono liberi di interagire tra di loro e con l’ambiente circostante a fronte di una sorveglianza minima, per incrementare il loro senso di responsabilità.
Gli incontri sono sia collettivi, con due terapeuti (un maschio e una femmina) che dirigono discretamente le interazioni del gruppo e permettono un confronto tra i detenuti, sia individuali. All’interno di queste sessioni terapeutiche si cerca di stimolare pensiero critico ed empatia, puntando alla presa di coscienza di quello che si è fatto. L’obiettivo deve anche essere quello di riconoscere i meccanismi che hanno portato a commettere il reato, a identificare lo stress che provoca l’aggressività per maturare delle strategie adatte a gestirla. Nel documentario Un altro me si vede un momento in cui una vittima di abusi sessuali partecipa alla seduta collettiva cercando di rispondere alle domande imbarazzate dei detenuti.
Alle attività strettamente terapeutiche si affiancano attività creative e motorie, e un corso di educazione sessuale.
Quando chiedo a Giulini se crede davvero che possa esistere una totale remissione dei sintomi, se si possono chiamare così, sorride e mi risponde che se non ci credesse sarebbe stupido a continuare a fare questo lavoro. Poi mi racconta un episodio, quello di una persona con profondi problemi psichiatrici che era uno stupratore seriale. L’uomo ha iniziato a partecipare al trattamento di Bollate e si è alleato talmente tanto con gli operatori da diventare lui stesso operatore al termine della condanna, per aiutare altri come lui a non commettere più abusi. Tra il materiale che mi è stato dato da Giulini c’è anche una sua lettera apparsa sul giornale di Bollate:
Ebbene, eccomi qui davanti a un foglio bianco con una penna in mano a fare i conti con la mia vergogna e i sensi di colpa […] Certo, non sarò io a far cambiare opinione a chi ci disprezza e non è nemmeno mio compito farlo, però posso almeno spezzare una lancia in nostro favore iniziando col dire che se ora ci troviamo a Bollate è perché abbiamo capito di aver fatto una cosa orribile e per evitare in futuro di reiterare. […] Non voglio trovare scusanti come potrà sembrare. Porto con me un mondo di brutte cose ed esperienze negative che spesso mi è difficile somatizzare. […] Per ciò che mi riguarda, gli abusi sessuali commessi, fuoriescono e sono del tutto estranei al mero desiderio sessuale, ma sono spinti da qualcosa di più profondo che ho scoperto qui […] Non voglio dire che da qui uscirò come un angelo puro e casto, ma per la prima volta vedo una via d’uscita a quei problemi che mi trascino dietro da troppo tempo.
Giulini ribadisce che l’importante, oltre ad aver aiutato questa persona, è l’essere riusciti a prevenire la presenza di future vittime. Un altro punto su cui insiste molto è quello della costruzione di un sistema virtuoso di presa in carico di queste persone. Per lui la prevenzione è la priorità assoluta. Se de-mostrificassimo la figura del sex offender, le persone che hanno fantasie devianti si sentirebbero a loro agio nel chiedere aiuto. La scoperta di avere certi pensieri è spesso egodistonica—un termine psicologico contrapposto a “egosintonico” che indica quanto un sintomo si inserisca armoniosamente nella struttura di personalità di un individuo—e provoca sofferenza, dolore e vergogna.
A quel proposito, Giulini mi racconta di un ragazzo che per lavoro e passione si dedicava ad attività che avevano a che fare i ragazzini, e che aveva chiesto il loro aiuto dopo essere entrato in contatto con alcune fantasie pedofiliche. Dopo un periodo di terapia di gruppo al C.I.P.M. e con una terapeuta specializzata, il ragazzo ha abbandonato le sue attività ricreative, che per lui erano fonte di benessere e divertimento, per evitare di innescare fantasie rischiose. Questo è solo un esempio, ma di storie così ce ne sono tante.
Quattro anni dopo l’avvio del programma di recupero, nel 2009 l’equipe di Bollate ha dato via anche a un servizio territoriale per la gestione delle condotte violente e sessualmente violente. Questa iniziativa è nata da alcune considerazioni scaturite dall’esperienza del carcere: il reinserimento dopo la detenzione è difficile, e lo stigma sociale molto forte. Troppo spesso queste persone si trovano in una difficile condizione di isolamento che, oltre alla sofferenza sul piano personale, genera un clima di deresponsabilizzazione che rende più facile commettere ulteriori crimini: se nessuno mi considera, se non rendo conto a nessuno, perché dovrei comportarmi bene?
Giulini e collaboratori si sono impegnati a creare uno spazio, sia concreto che mentale, che permetta a queste persone di avere un contatto continuo con gli stessi terapeuti incontrati a Bollate, per portare avanti il percorso di remissione dei sintomi attraverso delle sessioni terapeutiche di gruppo settimanali.
Per quei soggetti particolarmente a rischio di recidiva e privi di sostegno familiare è stato introdotto un nuovo protocollo di sostegno che segue il concetto di “giustizia sociale”: è la società a farsi carico del reo e della guarigione collettiva, secondo l’esempio dei pastori Mennoniti canadesi che a metà degli anni Novanta fondarono i “Circoli di Sostegno e Responsabilità“.
Così i detenuti considerati a rischio di recidiva, una volta scontata la pena, sottoscrivono un contratto della durata di un anno con tre volontari preparati dal C.I.P.M. Questo gruppetto si incontra settimanalmente in un luogo pubblico per chiacchierare di qualunque cosa, aiutando l’ex-carcerato a reinserirsi nella società, alleviando la sofferenza dell’isolamento e permettendogli di condividere pensieri e paure intime che non sarebbe possibile esporre ad altri. Paolo Colaprico, su La Repubblica del 12 febbraio 2016, riporta le parole di uno di questi sex offender che frequentano il C.I.P.M. e che fa attivamente uso dei circoli: “Per la prima sono libero di raccontare le cose così come stanno. Sono libero di non scindermi tra il Salvatore pubblico, con la maschera, e il Salvatore privato.”
A Bollate ci sono 400 detenuti per reati sessuali; quelli che partecipano al programma sono solo una trentina. Al livello individuale, conclude Giulini, dei numeri del genere sembrano irrisori. Ma se in tutta Italia esistesse un impegno istituzionale di cura e prevenzione, si creerebbe un sistema organico nazionale e il numero delle vittime calerebbe. I dati—soprattutto quelli provenienti dalla letteratura scientifica canadese, paese molto all’avanguardia in questo campo—dimostrano che tramite il trattamento le recidive calano del 50 percento. Il progetto di Giulini conferma questa percentuale.
Dopo aver parlato a lungo e aver visto i dati, mi viene spontaneo chiedergli perché, se i risultati sono così significativi, le istituzioni non attivino più programmi come quello di Bollate. “La risposta te la puoi dare da sola,” mi dice amaramente, alludendo a ciò che viene naturale pensare a tutti: queste persone sono irrecuperabili e andrebbe buttata via la chiave; eppure, per quanto sia difficile, almeno la giustizia dovrebbe basarsi su principi diversi dall’istinto.
Il 14 aprile al Cinema Beltrade di Milano verrà proiettato Un altro me alla presenza del regista Claudio Casazza e di parte dello staff del C.I.P.M. Clicca qui per saperne di più.
Illustrazione di Alice Schiavone. Segui Irene su Twitter.