Siamo sempre in lotta

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A10N5: Il numero dei profili

Siamo sempre in lotta

Il 29 agosto 1969 Leila Khaled è stata la prima donna nella storia a dirottare un aereo, diventando un simbolo della resistenza palestinese. L'abbiamo incontrata per farci raccontare la sua vita.

Illustrazione di Marco Klefisch.

Aeroporto di Fiumicino, 29 agosto 1969. Una ragazza ventenne, mora e minuta, aspetta di essere imbarcata sul volo TWA 840 diretto a Tel Aviv. Dopo due giorni di passeggiate solitarie per Roma, Leila Khaled è riuscita a passare i controlli aeroportuali nascondendo nei pantaloni e nella borsetta una pistola e una bomba a mano. Finge di non conoscere l'uomo seduto a pochi metri da lei, Salim Issawi, un compagno dell'Unità Commando Che Guevara del FPLP, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.

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I due hanno prenotato in prima classe, sorseggiano drink di benvenuto e aspettano come tutti che sia servito il pranzo. Khaled chiede alla hostess di portarle una coperta, e inizia in questo modo a sistemare le armi per poterle estrarre facilmente pochi minuti dopo. Approfittando della distrazione di passeggeri e personale di bordo, Issawi si introduce nella cabina di pilotaggio. Khaled non aveva toccato cibo per rimanere concentrata durante l'azione, ma lo stomaco vuoto unito all'agitazione del grande momento fa sì che una volta in piedi la pistola, anziché rimanere ferma sulla cintura, scivoli dentro i pantaloni. Scuote la gamba con un movimento goffo e piegandosi a terra estrae l'arma dalla caviglia, scoppiando in una grande risata liberatoria di fronte alle espressioni terrorizzate dei passeggeri.

Il dirottamento aereo, una tattica che negli anni Settanta diventerà sinonimo della resistenza palestinese in tutto il mondo, era ancora una pratica semi sconosciuta. Era stata utilizzata per la prima volta dai rivoluzionari peruviani nel 1931, ma il primissimo dirottamento palestinese avvenne nel 1968, quando due commando del FPLP ordinarono al pilota di un aereo israeliano di deviare verso l'aeroporto di Algeri. L'aeromobile e i passeggeri furono rilasciati in cambio della liberazione di prigionieri palestinesi. L'azione di Khaled e Issawi non prevedeva in alcun caso l'uso della violenza; l'obiettivo principale era quello di attirare l'attenzione mondiale sulla causa palestinese e di ottenere il rilascio di prigionieri. Per questo, avevano ricevuto precise indicazioni atte a preservare l'assoluta incolumità dei viaggiatori.

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Leila Khaled aveva percorso la stessa tratta almeno un'altra volta prima della missione ufficiale, in modo da memorizzare tutti i più piccoli dettagli utili al dirottamento. L'azione era pianificata minuziosamente, persino nell'abbigliamento. Wadi Haddad, l'uomo che preparò Khaled, prese in rassegna diverse gonne e vestiti prima di trovare quello adatto: un completo pantalone bianco, occhiali da sole scuri e un cappello che le piacque talmente tanto che prima di partire se lo legò sotto al collo, così che non cadesse in caso di perdita dell'equilibrio durante un eventuale scontro fisico.

Quel giorno la missione viene portata avanti completamente da lei; Issawi ha solo il compito di proteggerla in caso qualcosa dovesse andare storto. Dopo aver estratto l'arma, Khaled ordina ai passeggeri seduti in prima classe di spostarsi in seconda, e chiede al personale di bordo di continuare ad assistere i viaggiatori. Avendo appreso che molti di loro non parlano inglese chiede a una hostess di tradurre in francese il suo discorso di rivendicazione, ma la maggior parte dei passeggeri non ha la più pallida idea di chi siano i palestinesi e del perché abbiano inscenato un'azione così eclatante. Al di fuori del mondo arabo, la questione palestinese era completamente invisibile. Khaled si sposta poi in cabina di pilotaggio dove costringe il pilota a deviare verso la Siria, non prima di sorvolare con gli occhi lucidi Haifa, la sua città natale che rivede per la prima volta dopo 25 anni di esilio.Il dirottamento si concluse come sperato: furono rilasciati alcuni prigionieri palestinesi e tutti i passeggeri dell'aereo furono liberati incolumi. Khaled tornò al suo addestramento militare, non prima di sottoporsi a sei operazioni di chirurgia plastica che le cambiarono i connotati. Anche senza internet, il suo volto era ormai diventato troppo celebre per poter continuare a combattere nella resistenza palestinese con la dovuta discrezione.

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L'immagine pubblica di Leila Khaled è stata quasi completamente definita dal dirottamento del 1969 e da quello seguente del 1970 (meno fortunato del primo: Khaled venne trattenuta per sei mesi nella stazione di polizia di Ealing, a Londra, mentre il suo compagno fu ucciso), ma la sua storia di combattente, attivista, donna e madre si è sviluppata di pari passo alla questione palestinese. Sesta di 12 fratelli, Khaled è nata ad Haifa il 9 aprile 1944; il suo quarto compleanno coincise con il massacro di Deir Yassin (ad opera dei gruppi paramilitari sionisti Irgun e Lehi, che rasero al suolo il villaggio uccidendone gli abitanti) e con l'inizio del suo status di rifugiata, per questo non fu mai più festeggiato in famiglia.

Il massacro scatenò il panico tra i palestinesi, e pochi giorni dopo il suo quarto compleanno Leila fu portata nella casa di uno zio nel sud del Libano, a Tiro, mentre il padre rimase ad Haifa per difendere la sua casa e il bar di cui era titolare. Entrambe le proprietà furono sequestrate dall'esercito israeliano pochi giorni dopo, il 22 aprile. Così Ali Khaled si unì alla resistenza palestinese e tornò dalla sua famiglia un anno dopo.

"Avevamo lasciato casa in fretta e furia, nostra madre ci caricò in auto e ci trasferimmo da alcuni parenti nel sud del Libano. Di quel posto ricordo un giardino con molti aranci, e ricordo anche che ogni volta che io e i miei fratelli provavamo a cogliere un frutto, nostra madre ci schiaffeggiava le mani dicendoci che non era roba nostra. Solo quando saremmo tornati a casa avremmo potuto godere dei frutti della nostra terra: fino a quel momento ci dovevamo considerare solo degli ospiti. Ho odiato le arance per tutta la mia vita. Sono riuscita a mangiarne una solo dopo il 1970."

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​Leila Khaled (al centro) insieme a Salim Issawi (a destra di Khaled) e ad altri membri del FPLP durante una pausa dalle esercitazioni, 1969 circa. Foto per concessione di Popperphoto/ Getty.

Leila mi racconta della sua infanzia nell'elegante hall dell'albergo di Amman in cui alloggio, sorseggiando un caffè e fumando una sigaretta dopo l'altra, fino a svuotare un pacchetto intero. Sapendo dei suoi fittissimi impegni politici avevo preventivato almeno un'ora di ritardo sul nostro appuntamento, ma quando la vedo scendere da una berlina polverosa aiutata dall'autista, di ore ne sono passate quasi due. È appena tornata da un giro di visite ai feriti palestinesi in cura negli ospedali giordani durante i giorni dell'operazione militare israeliana Protective Edge. Le ho chiesto subito di raccontarmi come e quando era stata coinvolta nella resistenza palestinese. "Ho iniziato la mia attività politica a 15 anni. Vivevo ancora con la mia famiglia nel sud del Libano. Negli anni Cinquanta era stato fondato dal Dott. George Habash, assieme ad altri studenti dell'Università Americana di Beirut, il Movimento Nazionalista Arabo. Tra gli studenti membri del Movimento c'era anche mio fratello maggiore; il loro primo obiettivo era quello di liberare la Palestina e di liberare i suoi cittadini come arabi, non solo come palestinesi. Al tempo avevano già compreso che non stavamo solamente conducendo una lotta contro gli israeliani ma anche contro i sionisti, i colonizzatori e gli inglesi che regalarono la nostra terra per costruirci dentro una patria per gli ebrei. Per questo, essere coinvolti nel movimento era il sogno di ogni rifugiato palestinese."

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Nel 1952 Khaled era troppo giovane per entrare nel movimento, ma come gli altri nella sua famiglia fu influenzata da suo fratello maggiore. "Per ogni membro era un dovere informare e coinvolgere in primis i familiari, perché si pensava che se non fossero stati in grado di farlo non avrebbero saputo nemmeno convincere il resto della società." Per questo, ogni membro della famiglia Khaled entrò a far parte del movimento una volta compiuti i 16 anni. Nel 1958, durante la crisi libanese che si concluse con un intervento americano, tutti i fratelli e le sorelle più grandi di Leila combatterono sul campo. L'esercito assediava le città e lei, non potendo partecipare alla lotta, aveva il compito di rifornire di cibo i combattenti. "Nello stesso periodo ricordo che a scuola c'erano tre gionate in cui organizzavamo delle manifestazioni: il 15 maggio, per la Nakba ["la catastrofe", l'espulsione di 700.000 palestinesi che coincise con la fondazione dello stato d'Israele]; il 2 novembre, anniversario della Dichiarazione di Balfour, e il 29 novembre, il giorno della risoluzione delle Nazioni Unite che stabiliva la partizione della Palestina. Tutti, compresi i nostri compagni libanesi, venivano a manifestare assieme a noi. Oltre i cortei c'erano incontri durante i quali i nostri insegnanti (anche loro rifugiati) ci spiegavano perché queste date fossero così importanti per il nostro popolo, e quindi per la nostra cultura di resistenza."

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In quest'atmosfera era quindi normale che anche una giovanissima liceale avesse un ruolo politico. "Pensavamo costantemente al nostro diritto di tornare a casa, e cercavamo di utilizzare qualsiasi risorsa per accelerare la situazione. Così, passata la crisi in Libano, chiesi di diventare un membro, ma ero ancora troppo piccola e piansi per giorni perché non mi spiegavo come non potessero notare tutto l'impegno che ci mettevo: oltre ad aver rischiato di morire sotto il fuoco nemico, cercavo di contribuire alla causa appendendo sui muri della scuola degli articoli divulgativi, e scrivevo sui muri molti slogan che mi avrebbero potuto portare all'arresto." Nel 1959, Leila Khaled venne ammessa con riserva al movimento. "Passai un anno di formazione e al compimento dei 16 anni diventai un membro a tutti gli effetti. Prima di essere ammessi bisognava dimostrare di essere veramente motivati. In più era necessario passare diversi livelli di preparazione e addestramento.Da quel momento iniziai la mia carriera politica, che continua tutt'oggi. Dopo il 1967 mi unii al Fronte per la Liberazione della Palestina, che fu fondato nel dicembre di quell'anno. La mia prima missione militare però fu il dirottamento del '69." Aveva avuto paura durante la sua prima vera azione militare? Apparentemente no. "Sono sempre stata felice, perché mi sentivo onorata di essere stata scelta per portare avanti delle operazioni così importanti. Il dirottamento poi è stata la prima volta in cui ho rivisto la Palestina da quando hanno cacciato me e la mia famiglia. Quando mi dissero che l'aereo avrebbe sorvolato la mia vecchia casa mi sembrava un sogno. Un'altra ragione per cui non ho mai avuto paura è per dimostrare che le donne non sono inferiori agli uomini né dal punto di vista militare, né organizzativo né comunicativo."

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In quegli anni, come oggi, c'erano molte donne nel Fronte Popolare, ma nessuna quanto lei ha dovuto portare il peso di una così grande celebrità. "I media erano molto attratti da me, come sono interessati a tutti gli individui che possono sfruttare come personaggi. Sapevano che ero stata la prima donna nella storia a dirottare un aereo, quindi volevano conoscermi, e così iniziarono a cercarmi giornalisti da tutto il mondo. All'inizio rifiutai perché non volevo essere famosa. La primissima troupe che mi intervistò era proprio italiana."

La troupe italiana arrivò a Beirut, contattò Ghassan Kanafani il quale la indirizzò in Giordania, dove Khaled abitava. I giornalisti suonarono alla sua porta e le chiesero di lei, ma Khaled disse loro di non sapere dove fosse. Al tempo non c'erano molte sue foto in giro, e i reporter non avevano idea di che faccia avesse la famosa dirottatrice. Khaled consigliò di provare a controllare nel campo di addestramento, molto lontano dalla città. Si fece trovare lì prima di loro. "Arrivarono e chiesero ancora di me, ma mi negai ancora una volta. Infine tornarono da Ghassan Kanafani riferendogli l'accaduto, e lui ordinò ai miei compagni di tenermi lì a costo di sequestrarmi." Così il Dott. George Habash cercò di farle capire che, anche se tutto quello che voleva era tornare in Palestina e combattere, parlare con i media era un altro modo per contribuire alla causa. "Mi disse che così avrei potuto essere la voce di tutte quelle donne rinchiuse in prigione. A quella frase scoppiai in lacrime e mi convinsi che aveva ragione. Mi feci coraggio, e nonostante il grande imbarazzo nel dover ammettere di averli presi in giro per giorni, mi feci intervistare. Arrivai nella stanza con gli occhi rossi e quasi singhiozzando, e uno di loro mi disse: 'Hai sconvolto il mondo intero e ora hai paura di noi?'"

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Al tempo Khaled pesava solo 45 kg. Quando la videro non potevano smettere di fissarla perché, a loro dire, non avrebbero mai immaginato che una persona così piccola potesse avventurarsi in un'azione così pericolosa.

Lei rispose: "È più pericolosa una missione del genere o un'occupazione militare?" Non senza qualche difficoltà (i giornalisti continuavano a rivolgerle domande sulla sua vita sentimentale, cosa che Khaled non apprezzò particolarmente) l'intervista si concluse, e alla fine confessarono di aver avuto l'impressione di parlare con una bambina, ma una bambina già adulta.

"Ero cresciuta in fretta per colpa della sofferenza, dell'occupazione e della nostra condizione forzata di rifugiati. Questo ha fatto crescere me e gli altri palestinesi più velocemente." Da quel momento, Khaled dovette rilasciare un numero sempre maggiore di interviste, che non nasconde siano state uno degli ostacoli più grandi dell'inizio della sua attività politica. "Non pensavo di aver fatto qualcosa di così importante. Tutti continuavano a chiedermi com'era possibile che una donna ce l'avesse fatta, e io continuavo a ripetergli che era facilissimo, bastava una pistola e un po' di buona volontà!" Nonostante il dirottamento fosse una tattica discutibile, abbandonata dal FPLP pochi anni dopo, Khaled sostiene che fosse assolutamente necessaria.

"All'epoca fummo obbligati a muoverci in un certo modo, non perché ci piacesse dirottare aerei ma perché avevamo bisogno di attirare l'attenzione mondiale per comunicare che eravamo un popolo con una causa. Dal 1948 al 1967 (e oltre) siamo stati trattati solo come dei poveri rifugiati che avevano bisogno di aiuti umanitari, qualcosa da mangiare e di vestiti usati. Volevamo far capire al mondo che eravamo un popolo, non solo degli sfollati. Dovevamo far suonare quel campanello, perché il mondo non ti ascolta se non metti in scena qualcosa di potente."

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Oltre a ciò, un'azione del genere sembrava l'unico modo per ottenere il rilascio dei prigionieri palestinesi, uomini e donne che erano nelle carceri dall'inizio dell'occupazione e che venivano spesso torturati e condannati a morte.

"Per me era importantissimo fare qualcosa per i miei compagni, specialmente per le donne. Nessuno sentiva le loro urla quando le torturavano, nessuno sentiva il nostro dolore quando eravamo costretti a vivere nelle tende, specialmente durante l'inverno quando il vento gelido portava via tutto e intere famiglie non sapevano dove rifugiarsi, con i bambini che correvano ovunque piangendo traumatizzati. Dovevamo fare qualcosa, lo facemmo e funzionò. Tutti cominciarono a domandarsi chi fosse questa gente, ma il dirottamento non era la nostra risposta: la rivoluzione è stata la nostra risposta." Il dirottamento funzionò a tal punto che una sua foto di quegli anni, che la ritraeva con un fucile in mano in una posa quasi mariana, divenne una delle icone più diffuse della resistenza palestinese.

​Leila Khaled a una manifestazione a Cape Town contro l'occupazione israeliana di Palestina e Libano nel 2006. Foto di Rodger Bosch/ Stringer.

Continuando a raccontarmi della sua vita con una voce così roca e grave che sembra impossibile uscire dalla bocca di una donna anziana, mi confessa che la popolarità (e la strumentalizzazione) della foto in questione non la disturba nemmeno un poco, anzi ne va molto fiera. Nel ritratto c'è un particolare che mi incuriosisce: nella mano destra Leila indossa un anello molto strano. "Era la prima bomba a mano che usai durante l'addestramento. Aveva un anello che andava tirato via prima di gettarla, così lo conservai e ci infilai dentro un piccolo proiettile. Ora è conservato in un museo negli Emirati. Visitai il paese nel '69 con una delegazione per parlare della rivoluzione e del Fronte Popolare nelle università e nelle scuole, e per raccogliere donazioni. Mi chiesero di dare il mio anello per un'asta. Io lo regalai volentieri, a patto che portasse molti soldi al Fronte, e così fu. Lo acquistò il Ministro degli Esteri e lo espose in un museo, che ho visitato qualche anno fa."

Per questo, il volto di Leila è estremamente noto nei Territori Occupati e tra la diaspora palestinese, e io stessa sono venuta a conoscenza della sua storia quando un ragazzo dal quale prendevo lezioni di arabo mi regalò una spilletta con il suo volto. Iniziai così a cercare informazioni su di lei e rimasi stupita di come Tumblr straripasse di contenuti, segno che Leila è molto popolare anche tra gli adolescenti.

"Da quel che ho capito, le giovani generazioni sono molto attratte dagli individui, e non molto da ciò che c'è dietro. Si avvicinano alla mia figura come farebbero con quella di un cantante o di un calciatore: li colpisce l'aspetto fisico e dopo, casomai, iniziano a seguire quello che fa. Credo sia un'abitudine che hanno acquisito dai media occidentali."

Essere considerati un simbolo non deve essere semplice, ma proprio per questo Khaled non manca mai di riportare l'attenzione sull'aspetto umano e politico dell'intera questione palestinese, e sulle cose che tutti questi anni di attivismo le hanno insegnato. "Nella mia vita ho imparato che l'ingiustizia è una cosa orribile per un essere umano. Abbiamo sempre vissuto sotto una spietata oppressione militare, e la lotta per la giustizia e la dignità è ormai radicata nella nostra cultura, non solo come individui ma come popolo, anche se questo comporta molte perdite e sacrifici. Tra i sacrifici rientra anche la perdita della propria privacy, come è successo a me per molti anni. La seconda lezione che ho imparato è che le donne possono fare cose meravigliose per la nostra lotta. Le donne danno la vita, ed è una cosa che ho capito quando sono diventata madre per la prima volta. Ovviamente lo sapevo anche prima, ma metterla in pratica è tutt'altra cosa. Negli ultimi mesi ho visto bambini uccisi dall'esercito israeliano nelle maniere più brutali, li ho visti essere ripescati da sotto le macerie. Molti hanno perso tutto ciò che avevano, molti hanno perso la vita. La sofferenza dei bambini è una cosa che tutti gli esseri umani dovrebbero sentire, non solo le madri.La terza lezione è avere coraggio e non lasciarsi abbattere. Sono estremamente orgogliosa di far parte di un popolo che dopo tutti questi anni non ha ancora alzato la bandiera bianca. Stiamo ancora resistendo."

Tra i sacrifici che Leila ha dovuto affrontare durante gli anni di lotta, il poco tempo per la sua famiglia è stato uno dei più duri da sopportare. Oltre alla celebrità che limitava i suoi spostamenti, gli addestramenti e le missioni la tenevano lontana dal suo primo marito (anche lui nel FPLP) e dovette divorziare. Ma la rivoluzione ha richiesto a Khaled un prezzo ben più alto: tornando a casa alla vigilia di Natale del 1976 trovò sua sorella in una pozza di sangue, uccisa da un commando israeliano che l'aveva scambiata per lei. Si rifiutò di lavorare per il Fronte Popolare fino al momento in cui non avessero trovato e punito i responsabili, cosa che avvenne un anno dopo.

"Anche se non sembra, ho vissuto una vita normale, perché la lotta non è qualcosa di anormale. È la nostra vita. Lottiamo da esseri umani; possiamo amare, sposarci, avere una famiglia e dei bambini, ma siamo sempre in lotta, cercando di tenere le due cose in equilibrio, anche se è estremamente difficilee te lo dico perché ci sono passata. A volte sono dovuta stare lontana dai miei figli per dei periodi molto lunghi quando erano ancora piccolissimi. La prima volta è stata con il mio primo figlio: l'ho lasciato che aveva due mesi per partecipare alle sedute del Consiglio Nazionale Palestinese, di cui sono membro. Sono stata via 15 giorni, e ho pianto ogni singola notte perché ero lontana da lui, ma sapevo che era il mio dovere."

Dopo il 1982 Leila e la sua famiglia furono cacciati dal Libano e trovarono rifugio in Siria, dove Khaled partorì il suo secondogenito. Poco tempo dopo suo marito passerà cinque anni in Unione Sovietica per terminare la sua specializzazione medica. Rimase lì dal 1985 al 1990, anni durante i quali Leila viveva sola con i bambini in un campo profughi. Per fortuna, anche grazie alle sollecitazioni di altre militanti del Fronte Popolare, nel campo fu allestito un asilo dove potevano lasciare i loro figli. Sorseggiando l'ultima goccia di caffè Leila ricorda brevemente quegli anni: "Fu molto difficile, ma anche bello."

Con il passare del tempo l'attività di resistenza di Khaled ha abbandonato lo strumento della lotta armata per concentrarsi su quello politico: diventa membro del Consiglio Generale delle Donne Palestinesi e del Consiglio Nazionale Palestinese, facendo anche tappa fissa al World Social Forum. Attualmente è membro del Consiglio Legislativo Palestinese ed è responsabile del dipartimento per i rifugiati e il diritto al ritorno, cosa che la tiene spesso lontana dalla sua casa di Amman. La sua vera casa però, quella di Haifa, le è ancora inaccessibile. "Lo è per sei milioni di palestinesi, ti rendi conto?" mi dice, mentre controlla il telefono per sapere se il suo autista è nei paraggi. Pochi secondi dopo arriva la sua auto alzando una nuvola che sembra talco, e prima che l'autista metta mano al clacson riesco a fare un'ultima domanda: qual è la prima cosa che farebbe se potesse tornare ad Haifa, domani stesso? "Dormirei per tre notti sotto un albero di arance."

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