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Suonare nei Siberia è fare autocritica

Da un po’ di tempo a questa parte il mio profilo Facebook è subissato da richieste d’amicizia provenienti dalle persone di internet. Puntualmente le accetto, scorro il profilo, ci trovo solo meme & layer & post-ironia e sono costretto a togliere immediatamente il segui. Io non riesco a non essere sincero. Non ho mai parteggiato con le dichiarazioni invisibili che continuamente vogliono ribadire quanto i loro estensori siano vicini e distanti da tutto in modo indistinto. È per questo che sono stato colto da una folgorazione quando ho ascoltato per la prima volta i Siberia, un gruppo italiano dark pop che strizza l’occhio a una retorica un po’ alla D’Annunzio mescolata con tappeti sonori un po’ alla Diaframma (quando era Miro Sassolini a cantare, però) e Cure.

Si trattava di una boccata d’aria rispetto all’estetica sonora delle passioni tristi (vedi alla voce Coma_Cose) e degli slogan facili (vedi alla voce Calcutta). Per giorni ho ascoltato solamente Si vuole scappare, il loro secondo e ultimo disco uscito a Gennaio, traendone un senso di rinnovato benessere ad ogni ascolto. Per questo motivo, la settimana scorsa ho fatto una lunga chiacchierata con Eugenio Sournia (si pronuncia “Sournià”, come Delacroix), voce e penna del gruppo, col quale abbiamo parlato di new wave e cattolicesimo per tener fede al progetto di una nuova epica del dolore che tenti di superare il minimalismo stanco degli Xanax su Instagram.

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Siccome mi si è rotto il telefono, l’intervista è stata arrangiata utilizzando come telefono il telefono di casa di mia nonna, e come registratore il suo cellulare. Dopo una prima chiamata non andata a buon fine (non riuscivo a capire come inserire il vivavoce) fortunatamente riusciamo a portare a termine con successo l’intervista.

Noisey: Scusate il ritardo, ma ci dovrete fare il callo siccome il 4 Maggio suonerete a Roma e qui viene sempre tutto posticipato.
Eugenio Sournia: Veramente suoneremo a Roma il quattro aprile, domani.

(Silenzio. Vado a controllare su Facebook perché sono sicurissimo di aver ragione)

Avete ragione. Sapete perché mi sono confuso? Perché il quattro maggio qui a Roma suoneranno i Diaframma. Questa intro si è praticamente scritta da sola, no? Parto chiedendovi subito se il vostro nome vuole essere un omaggio al celebre disco d’esordio della band di Federico Fiumani.
In realtà, l’idea deriva dalla lettura di Educazione siberiana di Nicolai Lilin. Quando abbiamo deciso questo nome non conoscevo, colpevolmente, il disco dei Diaframma, e una volta scoperta l’omonimia il progetto era già avviato. Ma poi, in fondo, perché no? Ci sono forti analogie tra me e Federico. Amo molto il suo lavoro, sono fan dei Diaframma, e considero Siberia un bellissimo disco. Solo, non abbiamo mai voluto essere un gruppo di genere. Il nome vuole indicare una fascinazione per la Russia e una generica tendenza all’introspezione. Banalmente è anche un nome abbastanza corto, molto memorizzabile. Ci hanno anche proposto di cambiare nome, due o tre anni fa, però siccome non avevamo alternative valide alla fine decidemmo di tenere questo nonostante appunto l’omonimia. Al di là dell’omaggio, col tempo speriamo di scrivere la nostra storia.

Certo. Uno pensa quasi automaticamente all’omaggio perché fate una cosa assimilabile alla new wave a livello musicale, e Siberia è un caposaldo del genere in Italia.
Sì, la domanda è giusta. Per quanto io possa sostenere che il nome è stato ispirato da un’altra cosa, sicuramente ci sono delle analogie, anche territoriali visto che entrambi siamo toscani. Poi abbiamo avuto una chitarra in comune, per anni ho avuto lo stesso taglio di capelli…

“La new wave da liceale”, come canta Rachele Bastreghi dei Baustelle in “Gomma”.
In quel pezzo mi riconosco molto. Molti ci accusano di essere un po’ derivativi rispetto ai Baustelle, ma io questa cosa la vedo come un complimento perché loro sono stati il primo gruppo che mi ha spinto davvero ad ascoltare la musica italiana, mi hanno fatto innamorare della tradizione. Da liceale ascoltavo solo musica in inglese. Sono stati un punto di passaggio importante, e anche loro sono toscani. Abbiamo un retroterra culturale comune perché in Toscana la new wave si respira, i nostri concerti sono anche pieni di trentenni-quarantenni affascinati da questo clima.

Ma, ti ripeto, ora come ora non vogliamo essere in alcun modo un gruppo di genere. Vogliamo cercare di evolverci. Il nostro primo album cercava di riprodurre un certo suono, già col secondo disco abbiamo modernizzato il nostro approccio. Mi auguro che il prossimo disco sarà ancora diverso.

Fotografia di Francesco Levy.

Vi ho citato i Baustelle perché appena vi ho sentiti vi ho immediatamente accostati per una certa cura nei testi. Ci ho visto anche una magniloquenza tipica della letteratura novecentesca, alla D’Annunzio per intenderci.
Sono d’accordo. Io quasi non mi considero un musicista, mi considero soprattutto un autore di testi. Che è quello che ho sempre voluto fare. Da quando scrivo canzoni ho quasi smesso di scrivere poesie perché una cosa del genere è più facile farla da dietro ad un microfono piuttosto che pubblicando raccolte, senza contare che poi è molto più divertente. Quello che faccio ce l’ho nel sangue… ho studiato lettere, mio padre suonava in una band new wave.

E se ti dicessi di dirmi un poeta particolarmente formativo per te?
Ungaretti. Nel vecchio disco lo cito esplicitamente, tipo in Cara Francesca; addirittura, senza nemmeno farlo apposta, ho preso alcuni suoi versi e li ho copiati e incollati nelle canzoni credendoli miei, e invece non erano miei manco per niente! Con Si vuole scappare ho cercato un po’ di modernizzare la scrittura. Volevo andare un po’ incontro alla “scena”, a quello che sta succedendo. Il linguaggio sta andando in un’altra direzione. Sicuramente è giusto andare avanti e mantenere le cose belle, ma è sciocco precludersi la possibilità di parlare direttamente e schiettamente ai tuoi coetanei.

Chi altro pensi che abbia influenzato la tua scrittura?
Sicuramente John Keats, del quale ero proprio fan tipo ragazzina urlante. Poi sicuramente Montale, figurati che io mi chiamo Eugenio perché mia madre voleva un emulo di Montale. E poi stranieri, per esempio Rainer Maria Rilke. O Puškin, anche nella prosa. Comunque ho una formazione abbastanza scolastica. L’unica cosa che mi preme è dire che non mi piace tanto l’Ungaretti che si studia a scuola. Il mio preferito rimane quello del tardo periodo, quello più vivo e più umano, quello della raccolta Il dolore. È ispirata alla morte del figlio in Brasile per appendicite. Bellissima, di una tristezza inenarrabile.

La vostra etichetta, Maciste Dischi, pubblica i lavori di nomi come Gazzelle e Canova. Voi invece fate dark pop, una definizione vostra che stride molto col roster dell’etichetta al punto da suonare quasi come una presa di posizione.
Siamo in Maciste prima di Gazzelle e Canova. Il nostro primo disco è uscito nel 2016, parecchio prima dei progetti che poi hanno dato tanta visibilità alla nostra etichetta. Maciste è stata fondamentale. Credo che per le band ci sia una sorta di timer: se le cose non cominciano a diventare serie entro qualche anno da quando cominci, poi subentrano un po’ di stanchezza e scoramento. Il manager di Maciste, Antonio, ci ha instillato una grande volontà di fare questa cosa con più serietà. Siamo riusciti a evitare di impantanarci nell’amatorialità, rischio sempre presente per una band di provincia come siamo noi, che veniamo da Livorno. Per quanto riguarda la nostra diversità dagli altri: penso sia giusto spartirsi il terreno di caccia, diciamo così. Facciamo sport e campionati diversi, usiamo linguaggi totalmente diversi. Penso che sia un talento anche riuscire a parlare un linguaggio semplice e quotidiano. Noi ci divertiamo a rompere le scatole al terreno del pop tradizionale, ma aspiriamo comunque a piacere al maggior numero di persone possibile. Non vogliamo confinarci in una nicchia, anche perché non siamo né dei musicisti particolarmente tecnici che si basano solo su questo né dei nuovi De André. Cerchiamo di fare delle belle canzoni. Sono molto democristiano!


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Penso sia giusto non prendere posizioni troppo nette per quanto riguarda la musica.
Queste posizioni te le puoi permettere quando hai dimostrato qualcosa, e noi non abbiamo ancora dimostrato niente. Quindi ti direi: andiamoci piano.

La semplicità può essere difficile quanto la complessità.
Sì, te lo dico con convinzione. Quando il mio manager ci dice di scrivere una canzone pop io spesso non ci riesco. Ho come un filtro che non riesco ad eliminare.

Io penso che il pop sia un’arte a sé. Fosse facile fare la melodia accattivante che ti rimane in testa al primo ascolto, fosse facile fare gli ABBA o i Ricchi e poveri… e invece ci vuole un talento speciale per assemblare certe cose.
Sono d’accordo. Si può essere complessi partendo da un livello culturale di base e da un talento discreto. Unire semplicità e genialità richiede una abilità fuori dal comune. Poi non è che tutto l’itpop sia geniale, eh: anzi, secondo me il grande guaio è che si è rapidissimamente codificato in alcuni stilemi. Quindi si è giunti davvero ad una proliferazione di uscite veramente, veramente simili, che lo stanno logorando con molta velocità. La creazione di un canone è la morte di un genere.

Io la stanchezza che dici tu l’ho avvertita con gli ultimi pezzi di Calcutta. Appena li ho ascoltati, ho pensato: basta retorica delle piccole cose, torniamo alle cose più grandi, cerchiamo di andare oltre il quotidiano. Voi invece siete molto lirici, se vuoi molto sfrontati.
La magniloquenza è un tratto della mia personalità, è sia il mio più grande pregio che il mio più grande difetto. Nella scrittura e nella vita. Secondo me dobbiamo non abbandonare, ma piuttosto unire la poetica delle piccole cose alla retorica delle grandi. La vita ha un po’ entrambi gli aspetti, siamo tutti uomini che mangiano vogliono fare l’amore e ubriacarsi ma siamo anche tutte persone con un’anima e dei bisogni più intimi.

Scrivi molti pezzi d’amore. La tua magniloquenza ti crea problemi anche sentimentalmente, immagino. Io, per esempio, sono una persona molto pesante.
Stai sfondando una porta apertissima. Guarda, in passato di più. Io ho un’educazione molto cattolica, e…

Ne ero sicuro.
Quando ero piccolo cercavo di tenere questa cosa tra le righe perché non è esattamente sexy, ecco. Però mi sono reso conto che è una cosa che fa parte della mia personalità, che mi ha dato un punto di vista molto particolare sulla realtà. Ho sempre vissuto l’amore con grande slancio, ho sempre voluto trovare la donna della mia vita. Unito questo a Keats, Ungaretti e così via, puoi immaginare queste povere figliole quante canzoni e poesie hanno dovuto sopportare. Poi ho avuto la mia buona dose di calci in faccia che mi hanno reso più realista.

Fotografia di Matteo Casilli.

Questa tendenza ad innamorarsi spesso penso sia una specie di malattia. Gaber, in un’intervista a proposito de “Il dilemma”, dice a Giovanni Minoli che l’innamoramento fulmineo implica o consegue da una certa debolezza dell’uomo, da una sua incapacità di trasferire le cose sul piano progettuale, e collega la cosa alla libertà sentimentale degli anni Settanta.
Qui emerge tutto il cattolico che è in me, sono molto d’accordo. È un grande difetto che ho io come le persone della mia generazione. Ma non solo, vedi Fiumani, a cui una donna dura due tre anni. Io vorrei evitare, ecco. Ho sempre cercato di cantare un amore che fosse costruttivo, non una fiammata. Come in “Laura”: Un’alba che nasca da queste macerie. “L’amore non è guardarsi l’un l’altro, ma guardare nella stessa direzione” è una frase che cito spesso, anche se a volte sembra di una banalità sconcertante. Io spero che l’amore cantato nelle mie canzoni si avvicini a questo. Sicuramente nei miei pezzi non c’è l’amore sessuale, ma c’è molta sensualità. Come in “Cuore di rovo”.

Niente maledettismi alla Piero Ciampi.
Secondo me Ciampi è un grande artista, sto iniziando a capirlo da poco. Da ragazzino ero molo affascinato dal maledettismo, che poi mi fece allontanare molto dalla fede perché è comunque affascinante scoprire la morte, Eros e Thanatos, no? Entrambi ti rivoluzionano la vita. Di Ciampi mi piace tanto la verità, la sincerità con cui parla dei moti dell’anima dell’uomo creativo. Anche io vorrei dire la mia verità. Col tempo spero, nel corso degli anni e dei dischi, di riuscire a tirare fuori anche delle verità più inconfessabili.

Anche la ragazza di “Cara Francesca” è una persona esistente?
No, forse è l’unica non ispirata a una persona reale. In quel periodo avevo letto alcuni libri sulla seconda guerra mondiale ed ero rimasto colpito da quanto si fosse disposti a dare la propria vita per un ideale in cui si credeva. Vedevo la mia inerzia, la mia inettitudine, e così ho scritto questo canto di speranza per la nostra incapacità di seguire con coraggio i nostri ideali. Francesca è ciò a cui si rinuncia per seguire le proprie idee, è un sacrificio volontario.

Il ritornello di “Nuovo pop italiano” è incentrato sul rapporto che uno può avere da ragazzino con la musica. Da piccoli si è tutti gnostici, col retaggio anni Novanta della musica che ti salva, della frase che ti salva. “Hai playlist di verità / nuovo pop italiano”: tu ce l’hai ancora questo rapporto salvifico con la musica, nonostante la fede?
La fede è importante, ma la vivo con molta razionalità, è molto sepolta nel mio cuore, talvolta inaccessibile..

Pitigrilli diceva: il rapporto tra me e Cristo riguarda solamente me e Lui.
…e quindi nella vita quotidiana le mie sensazioni, le mie passioni, i miei sentimenti sono convogliati principalmente da altre cose. La musica è una delle cose che mi muovono. Io l’ho sempre vissuta come una cosa molto privata. Con questo pezzo volevo stigmatizzare le persone nei loro tardi vent’anni che vivono ancora un rapporto simile con le cose, questi finti maledetti un po’ adolescenziali. Quando dico quella frase faccio riferimento a un atteggiamento tipo oddio Spotify ha messo la nuova canzone di Calcutta piango. Ognuno si commuove con la musica che gli pare, ma poi su internet vedi reazioni adolescenziali da persone da cui non sarebbe lecito aspettarsele.

Quanti anni hai?
Ventisei. Ci tengo a dire che quando punto il dito contro gli altri mi accorgo di averlo puntato contro me stesso, perché poi io sono il primo a fare queste cose. Questa canzone parla di costruirsi un personaggio vissuto attraverso gli psicofarmaci, attraverso la musica che uno ascolta, ma io in questo calderone mi ci metto in mezzo per primo e in maniera particolare.

Viviamo in un’epoca di estetizzazione del dolore nella quale ostentare il proprio star male è una cosa molto hip, molto fica, e anche questo mi sembra un retaggio degli anni Novanta.
Pensa anche alla svalutazione delle parole “disagio” e “ansia”.

Sì, esatto, sono svuotate di senso. Stare male è uno status symbol, manca un’epica del dolore. Ho come l’impressione che siamo diventati incapaci di stare male per davvero. Lo xanax se lo prende mia nonna per dormire la notte.
Il dolore come una cosa seria, esatto. Tutto qui. Chiaro che poi diventa molto difficile perché, a furia di parlarne, qualsiasi argomento si svaluta. Ma ho conosciuto persone con forti problemi psichiatrici e quando vedo queste cose mi prudono le mani. Ci sono tantissimi motivi per stare male, è vero, ma sento che non è giusto banalizzare certe cose. Ed ecco perché il video di Nuovo pop italiano lo abbiamo fatto sul disturbo ossessivo compulsivo, per fare un piccolo tributo al dolore come una cosa seria.

Quello che non va su Instagram.
Però va comunque su YouTube. È un po’ come Lo stato sociale che non si capisce mai bene se pensa quello che canta o no. Volevamo fare una maglia con scritto “Deloraze pane e vino”, quindi vedi bene che alla fine, per quanto parti con le migliori intenzioni, per essere vendibile devi oggettificare queste tematiche. Nonostante il loro peso.

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