Com’è vivere con la Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie

Illustrazione di Katherine Killeffer

Questo articolo è apparso originariamente su Broadly

Soffro di allucinazioni strane che nessun medico è mai riuscito a spiegare. Cominciano sempre allo stesso modo. Sono sdraiata a letto, mi sto per addormentare, e all’improvviso tutto accelera e inizio a provare terrore puro. Mentre sono sempre più nel panico, i muri cominciano a stringermisi addosso e inizio a sentirmi come se fossi dentro un telescopio gigante. I miei arti diventano sproporzionati rispetto al corpo e la lingua troppo grossa per la mia bocca, ma tutto questo succede dentro la mia testa. Guardandomi dall’esterno, non si nota nulla.

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Da piccola mi capitava molto spesso—due o tre volte a settimana. I miei genitori mi hanno portato di corsa in ospedale dopo che un medico di base ha nominato la parola “epilessia”. I dottori mi hanno attaccato degli elettrodi alla testa per esaminare i miei impulsi cerebrali mentre mi facevano sentire rumori fastidiosi e mi abbagliavano con dei flash—una specie di versione pediatrica di Arancia Meccanica.

Non era epilessia, non era un tumore al cervello. Tutti sapevano dire con esattezza cosa non fosse. Ma non sapevano dire cosa fosse. Ai miei genitori hanno detto di stare tranquilli: la mia malattia non era pericolosa, e probabilmente crescendo mi sarebbe passata. In parte avevano ragione, oggi mi capita molto meno di frequente—quelle che prima erano quattro volte a settimana ora sono circa quattro volte all’anno.

A quanto pare, una sindrome ce l’ho, e si chiama Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie (AIWS). Mi sono imbattuta per la prima volta in questo termine un paio di anni fa completamente per caso, in un piccolo trafiletto di un supplemento di un quotidiano dedicato ai disturbi mentali più strani.

Un sacco di altra gente ne ha sofferto almeno una volta. Molto spesso quando menziono questa esperienza a un’amica mi sento rispondere, “Sì, ho presente!” Direi che mi succede con circa una persona su cinque. Di solito, pensano di essere gli unici. Mi sono iscritta a un forum online alla ricerca di persone che soffrissero della mia stessa condizione, e ho ottenuto numerosissime risposte. Tutti quelli che mi hanno contattata descrivevano le loro esperienze negli stessi termini: “I muri pulsavano,” “i muri si gonfiavano,” “era come se stessi guardando attraverso un grandangolo.” Era chiaro che parlavamo tutti della stessa cosa.

Ho iniziato a fare ricerche sul mio disturbo per un articolo per Planet Ivy, una rivista online. Ho contattato il British Institute of Psychiatry, il British Institute of Practical Psychology, la Oxford University, la Cambridge University e la London School of Hygiene and Tropical Medicine. Nessuno è riuscito ad aiutarmi. Alla fine, una donna un po’ più bendisposta all’ufficio stampa dell’Institute of Psychiatry del King’s College London mi ha spiegato il motivo delle difficoltà che stavo incontrando per accedere alle informazioni.

“Dato che non è una patologia scientificamente riconosciuta, non è registrata nei nostri database,” mi ha spiegato. “Quindi non riesco a individuare un esperto che possa aiutarla.” In altre parole, per la comunità scientifica ufficialmente la Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie non esiste. Mi ha suggerito di contattare medici specializzati in campi in cui si trattano sintomi simili a quelli della mia sindrome.

È così iniziata la mia caccia alla diagnosi tra medici ed esperti. Ho parlato con non meno di otto tra psicologi e psichiatri. Sentendomi sempre più una cavia, ho risposto a infinite domande tipo, “Gli episodi sono legati alle tue emozioni?”, “C’è qualcuno nella tua famiglia che ha lo stesso disturbo?”, “Stai prendendo medicine? O droghe?” Un dottore mi ha chiesto se guidavo e quando gli ho chiesto se non avrei dovuto mi ha risposto, “Mmm…non saprei.”

Tutti mi dicevano che non avevano mai visto un caso del genere e di contattare qualcun altro. Proprio quando stavo per perdere le speranze, un amico su Facebook mi ha consigliato di rivolgermi al dottor Tim Williams. “Conosco l’AIWS per i suoi legami con i funghi allucinogeni (su cui ho fatto delle ricerche),” mi ha scritto via mail. “Comunque, non ho mai visto nessuno in cui la sindrome si ripresentasse periodicamente.” Il dottor Williams mi ha detto che la mia descrizione dei sintomi faceva pensare che fosse coinvolta la connettività funzionale intrinseca (DMN)—ovvero quella parte del cervello che ha il compito di distinguere le emozioni e i ricordi dalla realtà.

“In alcune persone, la DMN può essere meno attiva durante gli stati di coscienza,” mi ha spiegato. Poteva essere questo il problema, ha detto, ma non ne era certo perché esulava dalle sue competenze—quello che mi hanno detto tutti. È la cosa più simile a una risposta che ho ottenuto.

Un pomeriggio sono stata contattata da un’agenzia di news. Volevano vendere ai tabloid la storia del mio cervello. Sapevo che era una cattiva idea, ma avevo l’assicurazione sanitaria da pagare e il Daily Mail mi stava sventolando davanti agli occhi una bella cifra. Il risultato è stato che ho perso la mia dignità, e mi sono ritrovata in costume da Alice nel Paese delle Meraviglie sul sito del giornale.

A quel punto le richieste di ospitate hanno cominciato a piovermi addosso. Ho fatto un intervento su Radio 4, e ho respinto richieste da Sky News, ABC News e Closer, da alcune riviste brasiliane minori e da documentaristi. Ora perfetti sconosciuti mi contattano su Facebook solo per dirmi che anche loro hanno lo stesso problema. Alle volte, mi chiedono aiuto, come Ella: “Se ho contattato la persona sbagliata scusami,” mi ha scritto. “Ho visto un video su YouTube in cui parlavi della Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie. Mi chiedevo se mi puoi aiutare a trovare qualcuno con cui parlarne, dato che di recente l’ho sviluppata.”

O Vaughan, che ha pensato mi potesse interessare un libro di psicologia “per le masse” che stava leggendo, che forse “mi avrebbe aiutato a capire di più della mia condizione e a risolverla.” Sto bene, grazie! Sono stata contattata anche da un avvocato che rappresentava un cliente che “sembra abbia sviluppato l’AIWS.” Voleva sapere se c’era “qualche esperto in particolare” che potevo consigliarle e che sarebbe stato in grado di “diagnosticarla correttamente.” Le ho augurato buona fortuna e le ho detto di non farsi troppe aspettative. Ricevo ancora richieste e domande, soprattutto su Facebook. Ho cominciato a ignorarle.

Volevo capire se da quando avevo cominciato le mie ricerche c’erano stati nuovi sviluppi—ma niente. Mark Griffiths, professore di psicologia alla Nottingham Trent University, mi ha spiegato le difficoltà di studiare un siffatto disturbo. “Considerando che le esperienze come la tua durano così poco, è molto raro riuscire a studiare gli effetti neurologici,” ha spiegato. “Ho letto che la dott.ssa Sheena Aurora [medico di base a Standford] è stata la prima a fare una risonanza magnetica su un paziente—una ragazzina di 12 anni—durante uno di questi episodi. Quello che ha visto è che l’attività elettrica causava un flusso di sangue anormalmente intenso verso le parti del cervello che si occupano di controllare la vista, la consistenza, la forma, e la dimensione.”

“Tra i vari casi studio non c’è un comune denominatore. Avere gli stessi sintomi non significa che le cause siano le stesse.”

Non solo brancolano nel buio quanto alle cause, ma i medici non riescono nemmeno a decidere come chiamare il disturbo. Ho ricontattato il dott. Williams perché è stato uno dei pochi ad aver usato il termine Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie. Gli ho parlato dell’attenzione mediatica che avevo ricevuto e gli ho chiesto perché invece la comunità scientifica tergiversava. “I medici sono sempre cauti nell’assegnare etichette o sindromi alle persone. Oggi le cartelle cliniche sono meno riservate, e possono essere richieste da molte istituzioni,” ha detto. “Se sulla tua cartella clinica è riportata una sindrome o una malattia, soprattutto se non è una malattia nota o ben definita, puoi avere dei problemi.”

Posso parlare solo per me, ma attualmente la mia condizione ha un impatto minimo sulla mia vita—perciò non mi sento di chiamarla una ‘sindrome’. Più che altro, mettere un’etichetta a una cosa interessante che il nostro cervello è in grado di fare non serve a niente. Se i déjà-vu all’improvviso venissero chiamati ‘Sindrome di Ricaduta della Memoria’ non cambierebbe quello che sono: semplici attimi che ci ricordano la complessità del nostro cervello. Ho cercato risposte dai più brillanti ed esperti scienziati inglesi, e nessuno ha saputo darmene. Spero che la comunità medica cominci a esplorare la Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie, senza altro fine che quello di incrementare le nostre conoscenze. Ma di certo io non farò più da ragazza immagine.