Tecnología

Smagliature digitali: un viaggio tra i 3 manifesti fondamentali degli ultimi 30 anni

Nel mondo iper-strutturato in cui viviamo, i software, il forno a microonde, la pillola anticoncezionale, i trattamenti ormonali, i device di ultima generazione hanno tutti un’influenza sulla nostra visione delle cose e sulla nostra collocazione all’interno della società. Sono sia causa che conseguenza di determinati rapporti di potere, che si strutturano anche in relazione al genere. E in un’ottica tecnofemminista, per chi non corrisponde al modello di normalità cis-etero-bianco, possono essere motivo di emarginazione.

Questo è il presupposto da cui partono gli autoru del libro Smagliature Digitali, pubblicato recentemente dalla casa editrice Agenzia X. Una raccolta di riflessioni sul rapporto tra genere, corpi e tecnologie definito nel retrocopertina “un@ cyborg transfemminista queer che guarda attraverso un caleidoscopio”.

Videos by VICE

Gli interventi contenuti nel libro, che vanno dal modo in cui la pornografia racconta il confine Messico-USA al progetto di ricerca Transcyborgllera e i suoi modi di “hackerare il genere” in una prospettiva transfemminista e queer, si muovono tra ambito accademico, esperienza personale e attivismo. Tutti pongono una particolare attenzione nei confronti della vita e del corpo, affrontando i temi tradizionali del femminismo e quelli più recenti del dibattito sui gender studies con l’intento dichiarato di “smascherare i dispositivi di potere e i loro complicati intrecci”.

Tra gli altri, c’è un saggio che analizza i tre manifesti politici più influenti degli ultimi 30 anni per quanto riguarda la cultura digitale e il rapporto tra classe, genere e tecnologia: il Manifesto Cyborg di Donna Haraway, il Manifesto Accelerazionista di Alex Williams e Nick Srnicek e il Manifesto Xenofemminista del collettivo Laboria Cuboniks — contenuto in versione integrale nel libro. Ho incontrato l’autrice, Elisa Virgili, per chiederle come si accelera quando si indossa una gonna, e magari anche i tacchi.

Motherboard: Il tuo saggio si intitola ‘If I was a rich girl’, come mai questo titolo?
Elisa Virgili: Innanzitutto è una canzone che mi piace moltissimo. Poi, banalmente, per strutturare il mio contributo al libro ho fatto tesoro dell’insegnamento di Donna Haraway e sono partita dalla mia esperienza personale, in base al principio del posizionamento. La nostra visione del mondo è sempre mutuata dal genere, dal colore della nostra pelle e dalla classe a cui apparteniamo. Siamo soggetti incarnati, mai astratti. Quindi riflettendo sul rapporto tra genere e classe e tra genere e tecnologia mi sono chiesta: se fossi nata in una famiglia più ricca, in un contesto più stimolante che non fosse la provincia di Udine, il mio accesso alle tecnologie sarebbe stato diverso? Avrei avuto un’altra visione del mondo?

E cosa ti sei risposta?
La risposta è sì, ovviamente. Per fare un esempio, un vero e proprio accesso a internet l’ho avuto quand’ero al primo anno di università. Ed è una cosa che ha in qualche modo influito su di me. O ancora: io sono una donna bianca italiana, se fossi una donna di colore immigrata il mio modo di relazionarmi con l’accesso che posso avere a questa tecnologia e il modo in cui essa influisce sul mio corpo sarebbe molto diverso.

Chiaro. Il Manifesto Cyborg di Donna Haraway, mi è parso di capire, è un po’ il punto di riferimento concettuale con cui analizzi anche gli altri due…
Sì, il manifesto di Donna Haraway, pubblicato nel 1985, è incentrato sulla figura del cyborg, un soggetto ibrido che mette in discussione tanti binari: natura e cultura, umano e non-umano, genere e sesso… Per la prima volta si comincia a ragionare su come anche il genere venga influenzato dalla tecnologia, e sul fatto che quest’ultima non è mai neutra ma mutuata dalla propria collocazione nella società. Prima di Haraway c’è stato un periodo in cui i movimenti femministi hanno riconosciuto nelle tecnologie una dinamica di potere patriarcale, e in qualche modo le rifiutavano.

Il manifesto accelerazionista arriva molti anni dopo, nel 2013. In che modo si pone in relazione con Haraway?
Nel manifesto accelerazionista si parla principalmente del rapporto tra tecnologia e classe, e si cerca di capire come usare la tecnologia a nostro favore. Non tanto con l’intento di progredire sempre di più, ma di cercare degli spazi in cui inserirsi, in cui essere creativi. Il soggetto accelerazionista non è assoggettato ma ha un potere di immaginazione in un momento storico in cui la tecnologia è pervasiva.

La pratica di riappropriarsi di certe tecnologie, di inserirsi in certi interstizi della rete è presente già in Haraway. Nel manifesto accelerazionista, però, non si parla espressamente di femminismo. C’è soltanto un punto in cui si accenna al corpo sessuato, al fatto che è una realtà che dobbiamo prendere in considerazione. Nel libro Inventare il Futuro, invece, si prende in mano la questione del genere in modo più approfondito, ma non esaustivo. Quello che mi ha stupito è stato che il manifesto di Williams e Srnicek, 30 anni dopo Haraway, non sembra averne assimilato le riflessioni. Il pensiero femminista viene sempre pensato come in qualche modo separato. Ma se la politica è una riflessione sul soggetto, il soggetto va anche connotato dal punto di vista del genere.

Invece lo xenofemminismo è ovviamente molto attento alle questioni di genere, no?
Il manifesto xenofemminista, nel 2015, ha supplito a questa dimenticanza. Mi sembra che riprenda il filo rosso lasciato in sospeso da Haraway e lo integri con il pensiero accelerazionista. Sviscera bene i desideri legati al corpo e all’individuo, puntualizza che i soggetti sono corpo. Lo xenofemminismo, infatti, è abolizionista del genere e della razza, ed è anti-naturista: riprende il concetto di Donna Haraway secondo cui non esiste niente di completamente naturale, ma natura e cultura si fondono.

Il prefisso ‘xeno’ sta per ‘estraneo’?
Più che altro dà l’idea di qualcosa che è posto ai margini, eccedente, fuori dalla norma. Inoltre indica anche ciò che è sconosciuto o alieno, un’alienazione propria dell’era tecnologica.

Lo definiresti un’appendice femminista dell’accelerazionismo, in un certo senso?
Più che un’appendice mi piace pensarlo come un ibrido di accelerazionismo e femminismo. È un po’ obsoleto parlare di ‘corrente femminista’ di un qualche pensiero politico. In un periodo storico come quello in cui viviamo il femminismo dovrebbe essere insito in qualsiasi movimento. Ma volendo semplificare, puoi vederla così. Per esempio nel manifesto accelerazionista si parla di un futuro post-lavoro, che dal punto di vista del genere è riferito più all’uomo che alla donna: le tecnologie aiutano una certa categoria di lavoratori ma non sollevano la donna da molte attività produttive e riproduttive, come il lavoro di cura o le mansioni domestiche. Ci sono anche altri punti che sono stati in qualche modo trascurati: l’ecologia — accelerare a discapito dell’ambiente — o la geopolitica — i paesi occidentali accelerano a discapito degli altri.

Mi faresti un esempio concreto di una tecnologia che si interseca con il genere e la classe in questo senso?
Oltre agli esempi che trovi nel libro — che coinvolgono un uso diverso dei media digitali, la questione della sorveglianza, le tecnologie di riproduzione, l’autoproduzione di sex toys per persone trans — mi viene in mente Testo Tossico di Preciado, un libro stupendo, un ibrido tra saggistica e narrativa, tra politico e privato, tra i confini dei generi. È una specie di diario scientifico in cui racconta gli effetti di un’intossicazione volontaria di testosterone che assume attraverso un gel. In questo testo il legame tra gli ormoni, quindi la tecnologia farmaceutica, il genere e il corpo è evidente. La dimensione della classe sta invece nella riflessione su chi produce queste tecnologie, chi può avervi accesso e a che prezzo.

La sensazione, in Italia, è che siano ancora movimenti più virtuali che reali. Mi sbaglio?
Il dibattito accelerazionista è nato nel Regno Unito, quello sul cyberfemminismo era per lo più americano. Il nuovo materialismo invece è situato per lo più in Nord Europa. In Italia da un paio d’anni a questa parte si parla abbastanza sia di accelerazionismo che di xenofemminismo, ma è un dibattito più che altro accademico-intellettuale o estetico-musicale. In ambito politico è trattato pochissimo. Di sicuro non sono ancora così diffusi, ma è anche vero che ognuno di noi vive nella sua nicchia, quindi è difficile stabilirlo con certezza.

Forse perché portano istanze piuttosto astratte, a differenza della politica contemporanea che sta andando sempre più verso l’estrema semplificazione…
Certo, siamo ancora in una fase di work in progress. Questo da una parte è bellissimo, dall’altra è un grosso impegno. Parlare di temi come per esempio il post-lavoro è difficile anche all’interno dell’ambito stesso dell’accelerazionismo. Immaginare un futuro in tal senso non è così immediato.

Se di accelerazionismo si sente parlare un po’ più spesso, lo xenofemminismo è ancora molto di nicchia. C’entra il fatto che anche il dibattito femminista non è preponderante?
In realtà i movimenti femministi se la passano bene in italia. Non una di meno è molto attivo e ben radicato sul territorio. A Milano ci sono diversi gruppi. Anche a livello istituzionale si sta muovendo qualcosa: c’è la casa delle donne, molti centri anti-violenza e a Milano c’è una rete di ricerca sul genere tra le varie università. Anche i centri sociali più storici, che tradizionalmente non si occupano di queste tematiche, stanno iniziando problematizzare il dibattito femminista.

Smagliature Digitali. Corpi, generi e tecnologie è una pubblicazione plurale curata da Carlotta Cossutta e Arianna Mainardi del collettivo transfemminista milanese Ambrosia, Stefania Voli e Valentina Greco.