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Sono stata con Roshelle al concerto di Achille Lauro

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Un team di ricercatori dell’università della Pennsylvania ha condotto uno studio meticoloso sulle persone che spruzzano spray al peperoncino durante i concerti, e, incrociando i dati su età, provenienza, professione eccetera, è saltato fuori che sono tutti dei poveri perdenti, con una vita infelice, condotta ai margini della società. Quindi, dato che, nella loro nullità, non hanno rispetto per il lavoro, l’arte, la gente che si fa il mazzo, la gente che si sta divertendo e in generale per qualunque cosa (tanto più per se stessi), se li conoscete, per piacere, denunciateli o spingeteli ancora di più nel cono d’ombra dove meritano di stare. E qui chiudo con la breve parentesi sull’unica cosa brutta accaduta al concerto, altrimenti incredibile e festante, di Achille Lauro e Boss Doms in un Alcatraz bello pieno e bello carico.

Solo di quello, e della mia guest Roshelle, ha senso parlare: perché uno show così selvaggio, ma anche strutturato e ragionato come una vera performance d’arte dark contemporanea è una sonorissima manata, di quelle che ti arrivano anche più forte di quel che ti saresti immaginato. Occorre partire da un fatto, che è un po’ il fil rouge di Concertini, ovvero la grandissima presa bene generale di tutti i suoi protagonisti. Il backstage di Lauro e Doms, affollatissimo, era in modalità così “love profusion” che persino uno come Kevin Spicy è stato accolto garbo e gentilezza.

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Lauro e Doms ci hanno aperto le porte del loro camerino, che si è rivelato quanto di più vicino a un sogno erotico io abbia mai visto, e la ragione è riassumibile in tre semplici parole: vestiti, gioielli, occhiali. Messa un attimo a tacere la me materialista e vittima del sistema capitalistico, la cosa realmente piacevole di quella manciata di minuti passati lì dentro è stata il senso di tranquillità dei due, che infatti si sono prestati a un paio di battute pre live, senza dare alcun segno di nervosismo o tensione.

Mi sembra di averlo già intuito, ma qual è la vostra sensazione dominante a poco più di un’ora dallo show?
Boss Doms: Siamo tranquilli, ce la viviamo bene, anche perché siamo sempre molto a nostro agio sul palco. Abbiamo provato parecchio, solo oggi ci siamo sparati due ore belle dense, e abbiamo aggiustato soprattuto i pezzi nuovi, le cose nuove che faremo stasera. Adesso che ci siamo levati questi piccoli, ultimi dubbi tecnici, siamo a posto. Ora è il momento di pensare solo alle good vibes, a farcela prendere bene e a fare un concertone.
Achille Lauro: Io, se posso essere sincero, dopo le 100 date di quest’anno sono più preoccupato di che cosa mangerò domani a cena, che del live!

Il vostro non è certo il set “classico” da cinquanta minuti scarsi che va per la maggiore: che idea c’è dietro al vostro live?
Achille Lauro: Quello che a noi importa davvero, quello ci sta proprio tanto a cuore è evolverci. Piano piano stiamo costruendo uno show che sia sempre più paragonabile a uno show teatrale che a un concerto rap classico, anche perché noi di rap c’abbiamo poco e niente. Detto questo, siamo solo all’inizio, e infatti la serata si intitola “La morte del cigno”.

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Esatto, come mai questo titolo?
Achille Lauro: Perché si chiude un capitolo e se ne apre un altro. Lo show rispecchia questo, e quello che ci aspetta dopo è una nuova evoluzione, un nuovo cambiamento, ancora e ancora. Alla fine, se ci pensi, la musica, così come la direzione artistica di uno show, è basata sulla costante ricerca del nuovo. Penso che a nessuno freghi di dipingere lo stesso quadro per sempre. Lo stesso per il nostro sound, che cambia, è in continua evoluzione, pur mantenendo quella che è la matrice d’origine, che è punk.

A questo punto io e Roshelle, accompagnata da manager e dalla sorella Cristiana, ci siamo dedicate a quella che è diventata una nuova tradizione del format più seguito tra i pastafariani, ovvero la cena a base di carboidrati con contorno di carboidrati. Al tavolo del ristorante abbiamo chiacchierato di una cosa per lei davvero cruciale, ma sulla quale si interroga tantissimo, che è l’istinto dell’artista, ma anche della sua infanzia, di un certo coro che le ha fatto scoprire la sua voce, e anche dell’imparare a tornare a casa, dopo che si è stati via per un po’.

La prima domanda di Concertini riguarda sempre l’artista che si esibisce, quindi ti chiedo: hai già visto live Achille Lauro o è la prima volta?
Roshelle: L’ho sentito una volta quest’estate dal backstage di una data in cui ci esibivamo entrambi, ma un suo live no, non l’ho mai visto: sono mega curiosa. Mi hanno parecchio gasata le ballerine, i costumi di scena… Sembra davvero ‘pro’ come spettacolo. Poi loro sono pazzi, quindi di sicuro sarà una cosa estrosa, libera, creativa.

Senti di avere una connessione artistica con loro?
Lauro l’ho scoperto attraverso mia sorella Cristiana, che è una sua grande fan e si ascoltava ogni mattina i suoi pezzi, magari chiusa in bagno quando era triste [ridono]. Non si contano le volte che mi ha cantato “Ascensore per l’inferno.” Di lui e di Doms mi piace tanto che siano persone libere, perché nonostante il loro estro così marcato, si capisce che non c’è nulla di artefatto e di calcolato, ma che tutto nasce da un guizzo creativo sincero.

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Ti piace chi osa?
Mi piace chi sperimenta. Apprezzo la voglia di smarcarsi dalla strada musicale italiana più “sicura”, quando rifai sempre lo stesso pezzo perché funziona. Che poi è anche quella una cosa sensata, perché quando la musica diventa un lavoro, uno può sentire legittimamente il bisogno di calcare la mano su qualcosa che sa che piacerà senz’altro. Invece, tornando a Lauro e Boss Doms, loro rischiano, se la giocano. Si affidano all’istinto.

Anche tu ti affidi all’istinto?
Tantissimo. Ma qui entriamo in un discorso complicato: fino a dove l’istinto dell’artista va assecondato? E ti parlo di arte che volge al lavoro, naturalmente. In questo momento, per esempio, io a livello musicale sento di star seguendo molto il mio istinto, perché mi piace conoscermi e questo è un modo per farlo. Mi piace lavorare su di me e quindi faccio spesso, molto spesso, quello che sento di fare al momento.

Ma è un processo un po’ tormentato o appagante?
Io mi sento bene quando faccio qualsiasi cosa mi venga in mente. E solo continuando a sentirmi appagata riesco ad andare avanti a costruire la me artista. E poi è per questo che esistono i manager, no? Per tenere a bada gli eccessi di estro.

Come mai parli di arte in generale e non di musica?
Perché io faccio mille cose, tutti i giorni, dalla pittura alla scrittura, al canto, al suonare, sono sempre stata così.

Che momento della tua vita riflette il tuo primo singolo in italiano “Tutti Frutty”?
Io ho sempre cantato, parlato e scritto in inglese, però vivo in Italia ed è una cosa che limita le persone che mi ascoltano, per cui a un certo punto ho sentito il bisogno di essere compresa. Ho pensato che, forse, la lingua inglese poteva essere una barriera tra me e chi mi segue. Perché ho davvero bisogno di essere capita.

E com’è andata con l’italiano?
Non solo non avevo mai scritto una canzone in italiano, ma sono anche una che non parla molto. Per riuscire a sbloccarmi sull’italiano ho iniziato a studiare e studiarmi tantissimo, tipo facevo un video al giorno in cui parlavo di cose random, semplicemente per abituarmi alla mia voce in italiano. Avevo così tanta fretta di scrivere pezzi in italiano che ne ho fatti dieci in dieci giorni. Davvero. Ma tornando a “Tutti Frutty”, ho deciso di partire da lì semplicemente perché è quella che più mi fa divertire in questo momento, è stato un flusso di coscienza, non l’ho mai ritoccata, perché mi piaceva così,

Come mai ci hai messo il napoletano?
Perché i miei sono campani tutti e due, quando ero piccola andavo sempre lì a trovare i miei nonni, ed è uno dei luoghi dove ho iniziato a creare. Io sono sempre stata una grande amante della teatralità e di quello che sta dietro alla costruzione di uno spettacolo. Per esempio mi ricordo che quando ero alle elementari ero in fissa con Paso Adelante, te lo ricordi? C’era questa protagonista, Lola, con le Buffalo, gli scaldamuscoli e i capelli lunghissimi, che cantava da dio, ballava, eccetera. Per diventare a mia volta Lola, mi mettevo le calze di mamma sulla testa, per fare finta di avere i capelli lunghi, e così facevo le coreografie, poi costringevo anche mia cugina e mia sorella a farle.

C’è stato, invece, un momento preciso in cui hai scoperto la tua voce?
Sì, ero in terza elementare e l’insegnante del coro del Duomo di Lodi è venuto a fare scouting nella mia scuola e mi ricordo di questo signore che è venuto lì e ci ha fatto fare degli esercizi vocali accompagnati dal pianoforte. Da lì mi sono appassionata e ho iniziato a cantare nel coro come soprano. Banalmente, il percorso delle cantanti R’n’B, in America non è niente di nuovo. Però a me piace il romanticismo del mio percorso.

Sei rimasta legata a quel mondo lì?
Vocalmente, amo cantare in modo “lirico”, come quando ero nel coro, dove più che cantare canzoni usi la voce come strumento. Il bello di fare parte di un coro è propio quell’annullarsi per diventare parte di un grande strumento, che ha come obiettivo qualcosa di più grande di te. A volte stavo in silenzio, per sentire la vibrazione nella pancia di tutte quelle voci, è una roba potentissima.

Ti piacerebbe un domani parlare nei tuoi pezzi anche di questi lati più intimi di te?
Sì, sì, ma proprio domani davvero! Sì, super. Desidero fortemente creare un senso di imprevedibilità di me nelle persone, vorrei essere credibile alle orecchie delle persone talmente tanto che se domani uscissi con una ballad piano e voce sarebbe perfetto comunque. Non mi piacerebbe sapere che vogliono solo un follow up di quello che sto già facendo, capito?

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Dici di voler essere compresa: quando leggi i commenti al tuo ultimo video senti di esserlo?
Io non sono molto legata alla lettura dei commenti, semplicemente perché credo nel mio percorso. E so cosa sono e cosa posso dare, come dico anche nel pezzo. E poi: i commenti di oggi si basano su che cosa, su un primo singolo? Non riescono a toccarmi, anche se quelli che mi lasciano più spiazzata sono quelli di ragazzine, ma anche bambine molto piccole, che scrivono cose forti. Sono poche, ma quelle poche, magari di 10 anni, che scrivono cose che proprio ti tagliano, mi fanno strano. Non è strano che una bambina di 10 anni scriva “puttana” a una ragazza di venti?

Quantomeno strano, sì. E come elabori tutto ciò?
Sono i pro e i contro della realtà dei social che a mia volta non so se amare o odiare. Riconosco il potenziale del social, perché Instagram è una piattaforma che se sai usare per il tuo scopo è immensa, perché ti può far arrivare a Diplo, okay? Però ha anche tanti contro, perché la gente è sempre spinta a dare un giudizio e quasi mai a godere e basta di quello che vede, l’interazione tra arte, artista e spettatore non è un obbligo, credo. Io so di essere forte, di avere carattere, ma una persona un po’ più fragile, un artista meno sicuro, magari alle prime armi, che vuole intraprendere questo tipo di carriera, è facile che si lasci scoraggiare dalle critiche, dagli insulti sul web.

Senti di ricevere e dare a tua volta supporto alle ragazze che fanno il tuo genere musicale in Italia?
Io non la vedo tanto una questione di genere, ma di oggettività e soggettività. Per esempio, a me Priestess piace tantissimo, ma non mi importa che sia donna o uomo, mi piace. Mi piace come si esprime, mi piace quello che dice, perché vedo che racconta il suo e se fosse un uomo mi andrebbe bene uguale. Allo stesso tempo, poi, ci sono tanti altri/e che non mi piacciono, perché non mi rivedo nel loro messaggio e non trovo una verità in quel messaggio. Il mio è un discorso realistico, non superficiale, nel senso che non mi è mai stato sul cazzo qualcuno perché non mi piaceva la sua faccia, mentre sembra tanto che oggi funzioni proprio così e che il disprezzo tra artisti nasca da cazzate. Anche questa cosa che dicono i fan, “queen della trap”, come se dovesse esistere un solo posto nel mercato per questo genere e per tutti i generi musicali, ma ragazzi, siamo miliardi sulla terra, ma che senso ha? Non mi aspetto di essere l’unica, così come non mi aspetto che le donne non possano rappare: le donne possono fare come gli uomini il cazzo che vogliono. Non mi piace questo discorso sui generi. Forse perché sono poche le artiste in Italia che si espongono in questo senso, ma non è impossibile e, anzi, secondo me c’è qualità. C’è qualità e c’è roba non di qualità, ma io ho i mie gusti, senza odio, ma a istinto: se qualcosa non mi piace è solo perché le mie orecchie mi dicono “ti prego, basta”.

Chi non ti fa mai dire basta?
Cardi B. “Tutti Frutty” l’ho davvero scritta pensando a lei e all’energia che mi trasmette. E sfatiamo il mito che voglio emulare o aspiro a essere la Cardi B italiana. La cito perché è una grande, ha una vibrazione incredibile, e riesce a trasmetterla attraverso un cellulare. Quando guardo i suoi video mi spacco dal ridere e vedo una persona che parla di cose vere, e secondo me c’è bisogno di realtà. Io la stimo, mi ispira e mi fa stare bene. Per esempio Beyoncé, che è un’altra fonte di grande ispirazione, è molto austera, è la disciplina fatta artista. E quando mi chiedo come mai nessuna abbia ancora preso il posto di Beyoncé, mi rispondo che nell’era di Instagram per un’artista stare dietro al proprio profilo è diventato parte del lavoro, porta via tempo, distrae. Il tempo per l’arte, per allenarmi su quello che voglio fare è ridotto rispetto a quello che il mio cuore e il mio intimo vorrebbero. Ognuno oggi addobba la propria vetrina da sé, e siccome io sono puntigliosa e perfezionista, mi scoccia quando non posso dedicare tutto il tempo che voglio alla cosa principale, la musica.

Ambisci ad arrivare a un momento della carriera in cui sarai così forte artisticamente che potrai fare a meno dei social?
Quando quello che hai seminato e poi costruito inizia a parlare per te, senza che le persone ti vedano o ti debbano vedere ogni giorno è un grandissimo obbiettivo raggiunto. Ambisco assolutamente a questa cosa qui.

Quanto peso ha avere il supporto della tua famiglia e di una sorella che ti segue nel tuo lavoro?
Ha un peso fondamentale. E me ne sono accorta, come spesso accade, dopo che per un anno non ho coltivato e frequentato la mia famiglia. Poi un giorno è come se mi fossi svegliata di colpo da un brutto sogno, e ho ricominciato ad andare a casa, in modo sistematico. Io sono sempre stata molto, molto solitaria, e quindi l’uscire di casa mi era sembrato come una liberazione, anche solo per coltivare la mia solitudine. In realtà la mia famiglia mi ha sempre super supportata, anche perché sono tutti creativi: mio fratello lavora con realtà virtuale, mio padre è uno speaker, mia madre lavora nell’editoria e ha sempre cantato gospel, mia sorella fa di tutto ed è bravissima in tutto. Però, nonostante questo “clima favorevole” ho voluto staccarmi, per poi accorgermi che mi mancava enormemente la presenza e il sostengo delle persone che mi conoscono davvero. Mi sono alienata talmente tanto che la prima volta che ho sentito parlare della me pre-alienazione, sia da amici di vecchia data che dalla mia mamma, dal mio papà, dai miei fratelli, ho pianto un sacco. Sai quando non ti accorgi di stare crescendo e cambiando e ti senti dire “ma tu ti ricordi che eri così?” È andata proprio così. Il contatto con chi ti conosce davvero è fondamentale è una roba che mi rompe il cuore, tanto mi tocca.

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Per uscire da questo momento mega emotivo, ti chiedo banalmente che racconto c’è dentro il video di “Tutti Frutty”.
Il video è una ricerca estetica del bello, quindi non volevo improntarlo sullo storytelling, come avevo già fatto in passato. Così con i ragazzi di The astronauti, che sono assurdi e hanno la bacchetta magica, abbiamo studiato delle immagini che fossero per noi iconiche. Così l’immagine del cavallo è molto eterea, senza tempo, mi dà l’idea che se tra dieci anni riguardo il video potrebbe essere stato girato in qualunque anno. L’immagine del nastro trasportatore dell’aeroporto la amo molto perché mi rimanda a quest’anno in cui ho viaggiato molto, e ogni volta che vedevo quel rullo dicevo dentro di me che avrei troppo voluto fare un video in cui stavo lì, forse proprio per il fatto che c’è scritto “vietato salire”.

In un limbo confuso di sensazioni, in gran parte dovute a quel mezzo di chilo di gnocchi alla sorrentina serviti in cestino di pasta di pizza (true story), abbiamo raggiunto l’Alcatraz giusto una decina di minuti prima della messa in atto de La Morte del Cigno. Achille Lauro e Boss Doms non c’hanno girato tanto intorno, e dopo un assaggio di Ciajkovskij e ballerine sulle punte, hanno attaccato con “Midnight Carnival”, un pezzo che non lascia scampo e che in trenta secondi ci ha fatti spingere tutti molto oltre al limite del dignitoso, con mosse danzerecce azzardatissime.

Loro due, peraltro, hanno anche reso immediatamente visibile agli occhi quanto detto poche ore prima nel camerino: il palco è cosa e casa loro, e il flusso di energia che sanno direzionare, che siano soli o con uno dei tantissimi guest della serata, è praticamente inevitabile. Gli stage diving, la teatralità barocca e i vestiti buttati a terra sono l’unico modo che conoscono per stare sul palco, altrimenti non ci stanno proprio. Capita spesso di leggere, nei report dei live l’aggettivo “generoso”, a voler significare che l’artista è stato meritevole e s’è dato con slancio al suo pubblico, ma in questo caso specifico non mi sentirei di associarlo a quanto è accaduto durante la lunghissima scaletta de La Morte del Cigno. Non m’è sembrato che in quel sali scendi di emozioni, linguaggi, ispirazioni e suoni diversissimi tra loro (perché siamo davvero passati dal nodo in gola di “Ulalala”, eseguita insieme a Gemitaiz e dal vivo più emotiva di quanto credessi, alle sberle di “Thoiry”, al clubbing lascivo e torbido di “Angelo Blu”, cantata con Cosmo, fino alla tribalità di “Ballo del blocco” e di BVLGARI) fosse in gioco un atto di generosità, quanto piuttosto una necessità. Non solo la loro, degli artisti, staccati in qualche modo dalla massa, ma anche la nostra, come se nel giro di tre minuti, Lauro e Doms ci avessero fatto capire che, più o meno in fondo (ma nemmeno troppo) avessimo moltissimo bisogno di lasciarci andare.

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E questa è una cosa che molti artisti, credo, provano a fare, e pochissimi riescono a innescare. Durante il loro show, a me è scattato quel tipo di click, e mi perdonerete se non ho farcito questo racconto con le solite minchiate, ma ci tenevo a raccontare almeno in parte di la potenza artistica che ho visto sul palco dell’Alcatraz. Anche la mia guest Roshelle si è fatta tirare dentro dallo spirito selvaggio della serata, tanto che a un certo punto è scomparsa dai miei radar insieme alla sorella Cristiana, per poi scrivermi di aver deciso di lasciare la “balconata vip” per andare sottopalco. Lì l’ho raggiunta, lì ho incontrato anche Eddy de Il Pagante, che poco dopo si sarebbe rivelato una figura cruciale e salvifica quando tutto è parso precipitare. Negli attimi, infatti, di fuggi fuggi generale causato dallo spray, Eddy è stato il solo a non alzare nemmeno un sopracciglio. E aveva ragione lui, perché dopo un quarto d’ora tutto è ripartito, con immutata presa bene, con ancora tanti guest, (oltre ai già citati si sono susseguiti OG Eastbull, Noyz Narcos, Clementino, Rocco Hunt, Fred De Palma, Emis Killa, Anna Tatangelo, più i giovani di No Face R.Y.C.H, la nuova etichetta di Achille Lauro). Alla fine della setlist, con “Penelope”, sale già viva la curiosità di sapere che cosa si potranno mai inventare, dopo questa Morte del Cigno, per il prossimo show.

“Come dicevo prima—mi dice Rosh a commento finale—la forza di un artista sta nel saper essere imprevedibile, e Achille Lauro e Boss Doms hanno questa qualità al cento per cento. Mi piace che abbiano fatto richiamo alla follia di continuo, e che siano dei “folly” veri. Concludendo: il concerto mi è piaciuto tanto, ma soffro troppo a fare la spettatrice, ma Achille e Boss vvb”.

Carlotta è su Instagram, così come Kevin.

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