La Cina sta progressivamente diventando uno dei fulcri dello sviluppo tecnologico globale, arrivando a competere direttamente con gli Stati Uniti in una sfida geopolitica e tecnica che per decenni sembrava non potesse avere concorrenti. Da qualche anno, le aziende tecnologiche cinesi guadagnano fette importanti di diversi mercati cruciali, basti pensare all’ascesa di Huawei nella classifica dei maggiori produttori di smartphone, o il suo ruolo centrale per la diffusione del 5G in Europa. Grazie a investimenti enormi in ricerca e sviluppo in settori fondamentali, a cominciare dall’intelligenza artificiale, la Cina e le sue diverse “Silicon Valley” avranno un ruolo prioritario nel plasmare gli scenari tecnologici futuri, facendoli oscillare costantemente tra efficienza e distopia.
Oltre alla crescita aziendale, ai successi commerciali e all’influenza accademica, però, il modello cinese di approccio alla tecnologia e alla sua applicazione sta diventando un punto di riferimento anche altrove e nelle democrazie compiute. Su questo tema si concentra Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza), il nuovo libro di Simone Pieranni, giornalista de Il Manifesto ed esperto di cose cinesi. Il libro dettaglia alcuni degli sviluppi maggiori della tecnologia cinese, illustrando come questa trovi applicazione in diversi contesti: dall’uso quotidiano dell’app-mondo WeChat per fare sostanzialmente qualsiasi cosa, all’enorme apparato di sorveglianza di massa gestito dal Partito Comunista Cinese (PCC) nei confronti dei cittadini e, in modo estremamente oppressivo, di quelli della minoranza uigura nella regione dello Xinjiang.
Videos by VICE
Perché parte del nostro futuro si scrive in Cina, come indica il titolo del libro di Pieranni? Perché anche fuori dalla Cina, e in contesti dove si guarda normalmente a Pechino come a un modello negativo o distopico, applicazioni simili di tecnologie controverse con forti implicazioni sociali, politiche e democratiche trovano sempre più di frequente spazio e legittimazione.
Riconoscimento facciale, uso spregiudicato dei dati biometrici, smart city che diventano città della sorveglianza, rapporti stretti tra aziende tecnologiche e apparati statali: se in Cina queste tecnologie definiscono uno stato di totale sorveglianza, in Occidente sono sempre più frequentemente una realtà concreta, spesso utilizzate con eccessiva leggerezza o senza sufficiente scrutinio nei confronti delle loro implicazioni sociali. Non è un caso, ad esempio, che Mark Zuckerberg guardi da tempo a WeChat come a un modello per la sua Facebook, o che diverse città (anche italiane) si vantino della pervasività dei loro sistemi di videosorveglianza. Motherboard ha contattato Pieranni per parlare proprio di tutto questo.
MOTHERBOARD: Per diversi anni, anche da un punto di vista tecnologico, la Cina è stata indicata come modello distopico per eccellenza. Il tuo libro, però, mostra come molti modelli tecnologici cinesi stiano diventando interessanti (o stiano già per essere applicati) anche in Occidente. È cambiata di più la Cina o sono cambiate le nostre aspettative nei confronti della tecnologia?
Simone Pieranni: La Cina è cambiata di sicuro e molto, ma come spesso ha già dimostrato in passato è piuttosto laica nel recepire anche cambiamenti clamorosi nella propria vita quotidiana, pensiamo solo al processo di urbanizzazione e a come sono cambiate, espandendosi, le città cinesi.
Analogamente con la tecnologia i cinesi non sembrano aver alcun problema ad accettarne la pervasività nella vita, perché leggono l’introduzione di nuovi strumenti e nuovi utilizzi della tecnologia come il sintomo del progresso del paese e percepiscono questo ‘movimento’ anche nelle proprie vite quotidiane. Inoltre, essendo sempre stata una società controllata, l’intrusività della raccolta dati, ad esempio, non viene percepita come fastidiosa, non più di tanto.
“Credo che a cambiare siano state le prospettive dei governi occidentali, o meglio la possibilità di agire senza troppa resistenza sociale”
In Occidente, almeno per quanto riguarda i governi, il controllo della popolazione è sempre stata sottoposta a un più rigido scrutinio—ma nel momento in cui passa l’equazione “telecamera uguale sicurezza” in realtà non potremmo dirci così distanti dalla Cina. Questo passaggio, per altro non è di certo avvenuto ieri, ma ormai vent’anni fa, con il consenso di destra e sinistra per altro. Oggi semmai ci sono videocamere ancora più invasive rispetto ai tempi in cui fecero la loro prima comparsa nelle nostre città. La tecnologia consente un controllo molto più funzionante che in passato e tutto sommato permette modifiche alla vita civile senza dover passare da assemblee legislative che ormai sembrano perfino dare noia a chi governa. Credo che a cambiare siano state le prospettive dei governi occidentali, o meglio la possibilità di agire in certi ambiti senza troppa resistenza sociale.
L’emergenza sanitaria in Cina ha fatto emergere la reale natura dei sistemi di sorveglianza di Pechino o si tratta di qualcosa di applicato quotidianamente che in questi mesi ha ottenuto solo maggiore visibilità anche in Occidente?
La Cina ha messo a disposizione dell’emergenza tutto quanto viene già utilizzato quotidianamente, convogliando verso le necessità sanitarie strumentazione che già è in uso con funzioni commerciali o di mero controllo sociale della popolazione. E ha funzionato, ma non perché la tecnologia ha risolto tutto da sé, ma perché è inserita in un contesto valoriale, di cui parlavamo prima, nel quale tutta una popolazione è stata chiamata e rispondere all’emergenza e a non ostacolare quello che viene percepito come un bene collettivo.
Durante l’emergenza Coronavirus e il dibattito attorno alle app di contact tracing, diversi Paesi asiatici variamente democratici (Singapore e Corea del Sud in particolare) sono stati indicati come modelli da seguire anche da questo punto di vista. Anche la Cina è stata guardata con interesse.
Anche paesi democratici come la Corea del Sud hanno usato la tecnologia in un mondo confuciano, così come in Cina. Questo è il motivo principale per il quale le loro soluzioni hanno funzionato. Su Singapore ho delle riserve quando la si inserisce tra le democrazie, a meno che non si voglia considerare l’eredità in stile monarchico alla stregua di una democrazia, ma facciamo che sia una democrazia: vale quanto sopra. Gli stessi sviluppatori della app, ad esempio, se non sbaglio, hanno detto che la app da sola non serve a niente. Immaginare quindi che la app risolva tutto è sbagliato, pensare di fare ‘come’ in Corea, Cina o Singapore anche.
WeChat è forse l’app che meglio spiega l’avanzamento tecnologico della Cina odierna. Quanto è stretto il rapporto tra i colossi aziendali come Tencent e il governo cinese? Il “capitalismo della sorveglianza” cinese è effettivamente un canale di sorveglianza di massa?
Le aziende cinesi private vivono uno strambo rapporto con il Partito Comunista Cinese (PCC). Senza la censura del partito non sarebbero diventati colossi perché avrebbero dovuto competere con i big occidentali. Allo stesso tempo hanno goduto o godono di favori di natura fiscale ed economica non da poco. È impensabile quindi che nel momento in cui il PCC chiede a WeChat i dati, WeChat non glieli consegni, e infatti glieli dà.
Ma è capitato anche ad aziende straniere. Nel libro racconto il caso di Yahoo! e di come consegnò al governo cinese le mail di alcuni dissidenti poi condannati e torturati. È l’ecosistema cinese a funzionare così. WeChat, raccogliendo dati 24/7, ha un chiaro vantaggio competitivo sui rivali e un occhio del PCC costante sulle sue attività. Si tratta di relazioni non così scontate, perché in Cina capita talvolta che i miliardari non facciano proprio una bella fine. Ad esempio, secondo me, si può guardare a Jack Ma (co-fondatore e già Executive Chairman of Alibaba, nda) si è ritirato e subito dopo ha dichiarato di avere la tessera del PCC per avere più garanzie di una pensione serena. Con il PCC che comanda ogni ambito della vita, ci vuole poco: basta che cada, per mille ragioni, qualche gancio in alto e saltano tutti quelli sotto.
In Cina sono nate varie “Silicon Valley” e diversi hub di innovazione tecnologica e ricerca. I terreni di scontro con gli Usa più imminenti sono certamente il 5G e l’intelligenza artificiale. Quali scenari, specialmente in Europa, si aprirebbero se fosse proprio la Cina a vincere questa rincorsa? Pensi sia legittimo temere la dipendenza da tecnologie sviluppare in un regime non democratico?
Credo che porsi il problema che la tecnologia cinese sia in mano del PCC dopo gli scandali che hanno coinvolto le aziende occidentali sia un metodo piuttosto fumoso di affrontare il problema. L’Europa dovrebbe dotarsi di un sistema di gestione dei Big Data comune, in grado di confrontarsi (se non alla pari, quasi) con Usa e Cina. Altrimenti nel nostro futuro dovremo scegliere se sarà meglio che i nostri dati siano in mano americana o cinese e l’Europa rischierebbe di diventerebbe un campo di battaglia in quel senso.
Da un punto di vista culturale, il mito positivista statunitense di Internet come luogo senza confini e strumento di liberazione e democrazia, ha costruito il nostro immaginario tecnologico e continua a foraggiare il nostro approccio alla rete. Esiste qualcosa di simile in Cina o i presupposti sono completamente diversi?
In Cina all’inizio internet ha avuto un ruolo molto importante come strumento o meglio luogo attraverso il quale controllare i politici. C’è stato un periodo, a inizio anni 2000, fatto di denunce continue: ricordo un funzionario che venne beccato a una conferenza con un orologio costosissimo e partì una campagna online che arrivò a ottenere le sue dimissioni. Tanti casi come questo hanno dato a molti cinesi un nuovo modo di ‘partecipare’ in qualche maniera alla dialettica tra potere e cittadinanza.
Come vedi siamo sempre in una logica di controllo, anche se in questo caso inversa e senza i mezzi di repressione dello Stato. Direi che alla base dei due sistemi—occidentali e cinesi—in Cina c’è il particolare del PCC: non succede niente che il PCC non voglia. Quindi, anche quando assistiamo a qualche evento “liberatorio,” molto spesso si scopre la lunga mano del PCC. Probabilmente, quel funzionario colpito per via dell’orologio era un nemico da eliminare e—visto che poi abbiamo scoperto l’esercito dei 50 cents e in generale le persone pagate dal governo per indirizzare i dibattiti on line—chissà che non fosse già in funzione qualche meccanismo del genere allora.
Infine se parliamo di miti o immaginari, Internet, al di là di questo aspetto di denuncia, ha soprattutto liberato i consumi. Internet in Cina significa e-commerce per lo più, svago o videogiochi.
Segui Philip su Twitter: @philipdisalvo