Música

Roma è Forte

L’interesse per la storia del Forte Prenestino, a Roma, nasce cronologicamente molto prima la recente e incommentabile chiusura del circolo Dal Verme, accusato di arrecare “problemi di ordine pubblico per esigenze di tutela sociale e con finalità dissuasive nei confronti della frequentazione delinquenziale”. Questa mattina, di fronte all’ennesimo ordine di sgombero, l’associazione Init si è barricata all’interno del rudere di via Tuscolana a proprie spese recuperato e reintegrato alla comunità, per fronteggiare le autorità e i mandanti dell’operazione. “Siamo già ad attenderli in paziente attesa, convinti che agiranno dall’orario del timbro del cartellino, per rimandarli al mittente.” Di fronte a situazioni del genere è difficile rimanere lucidi anche a cinquecento chilometri di distanza, e per quanto possa sembrare consequenziale e in qualche modo collegato alle vicende, un approfondimento storico sul centro sociale più grande d’Europa non ha alcuna componente premeditata. La sua storia non ha nulla di fiabesco, e non è certo per miracolo se struttura e organizzazione sono più in piedi che mai. Dal 1986 ad oggi, il tempo e lo spazio, al Forte è scandito da riunioni settimanali, produzione culturale di ogni tipo a creare una microeconomia interna, eventi minori, festival, altre riunioni. “Se ancora non sono arrivati a chiuderci, è perché ci stanno girando attorno piano piano,” mi spiega Valerio Bindi, architetto, entrato al Forte a inizio anni Novanta e curatore del festival di fumettistica indipendente Crack!, che si tiene ogni anno, per quattro giorni, nelle sue segrete. “Torniamo a ricostruire lo spazio dei nostri desideri. Quello che spendiamo è quello che produciamo e quello che paghiamo è quello che siamo,” c’è scritto sul sito ufficiale del festival, ed è un approccio che accomuna un po’ tutti, al Forte.

Lo scorso primo maggio è stato festeggiato il suo trentesimo compleanno, e in quindicimila persone hanno riconosciuto, con la loro presenza fisica, il ruolo che un organismo come il Forte ha ricoperto nel quartiere Centocelle, e in generale in tutta la città. Per l’occasione i suoi occupanti più storici, ma anche i nuovi arrivati e più o meno chiunque avesse avuto voglia di raccontare la propria esperienza al suo interno, hanno scritto e stampato Fortopìa – Storie d’amore e d’autogestione, “trent’anni di occupazione ed autogestione, trent’anni di azione collettiva, di progetti, di laboratori, di iniziative, di socialità, ricerca, cultura, resistenza.” Quel giorno il libro è stato portato al Forte per essere venduto al pubblico per la prima volta, e, manco a dirlo, la tiratura di 1300 copie è andata sold out in un pomeriggio. “È una misura che non ha paragoni,” spiega Valerio, “non mi è mai capitato, nella mia vita di autoproduttore, di vedere che un pubblico esaurisce una tiratura di quelle dimensioni nel tempo di una presentazione. È un libro in cui abbiamo adottato un linguaggio che ha attraversato un po’ le varie generazioni di utenti.”

Videos by VICE


Foto via.

Tramite l’esperienza di Valerio, ho cercato di delineare l’excursus storico e analitico del Forte, della sua Centocelle e degli incalcolabili tesori culturali con cui in trent’anni ha arricchito la città e l’Italia, senza scendere a compromessi. Non è tuttavia un quadro fine a se stesso, ma volto a stimolare una più corretta consapevolezza critica e politica di ciò che è successo, e molto probabilmente succederà ancora nel territorio romano, se episodi come quelli del Verme continueranno a venire minimizzati. Col Verme abbiamo organizzato tantissime cose,” prosegue Valerio, “e tutti loro fanno assolutamente parte dello stesso nostro pianeta, umano e artistico. Crack! è stato aiutato tante volte da loro nell’organizzazione degli eventi. Il loro lavoro non è politico; sono un locale, fanno cocktail buonissimi, ma soprattutto fanno passare la musica che non potrebbe essere diffusa in altro modo. Fanno una grande sperimentazione musicale. L’attacco che hanno ricevuto, però, è politico. Non sta chiudendo un locale e basta, sta chiudendo uno spazio culturale, una strada di produzione artistica, che è la stessa nostra.”

Arte e resistenza

“La mia esperienza al Forte nasce quando gli intellettuali, che non si potevano chiamare intellettuali, dentro l’università si rendono conto che al suo interno non esiste alcun tipo di spazio per la libera creazione e l’associazione di collettivi con cui sperare di influire sulla cultura. Nella stagione dei centri sociali ci si lancia dentro luoghi come il Forte, l’Isola, e tanti altri posti nelle città d’Italia.”

Gli anni Novanta, per tanti, troppi giovani, sono stati anni di ricerca di spazi che avrebbero potuto incubare contenuti, ma soprattutto forme di loro creazione. Viene maturata un’intelligenza immaginaria in grado di produrre politica, e non più subordinata ad essa. “L’idea che viene fuori è che il mezzo più appropriato a comunicare un qualche pensiero è la forma d’arte, e non tanto quella prettamente politica. Ciò non fa sì che l’aspetto ‘impegnato’ venga a meno, anzi. Erano anni intensissimi dal punto di vista delle mobilitazioni sociali. Di queste, le forme che raccontavano di più il cambiamento erano le forme d’arte: graffiti, installazioni, performance, teatro… tutto a livello sperimentale, e non giocolieristico, ecco.”

“A quei tempi studiavo architettura,” riprende Valerio. “È una roba strana perché prima o poi ti rendi conto che il ruolo dell’architetto è veramente secondario per la costituzione della città. Se si vuole essere operativi si cambia area; non ci si occupa più della sperimentazione artistica, ma del luogo all’interno del quale metterla in pratica. Questo è stato il passaggio che ci ha fatto arrivare ai centri sociali. Ci siamo resi conto che stavamo cercando di trovare nuovi linguaggi, ma non avevamo i giusti spazi o strumenti per farlo. Nei centri sociali tu ti mettevi lì e trovavi rottami, cianfrusaglie varie… con pochissimi soldi e il supporto di chi teneva lo spazio, riuscivi a fare installazioni e a costruire cose materialmente. Era un’esperienza reale, non relegata all’accademia. Il pubblico era vastissimo e super interessato, si lanciava verso tutte le innovazioni di quegli anni, e tutto questo aveva reso gli anni Novanta ‘gli anni Sessanta della modernità’, come ha detto qualcuno.”

Roma e Centocelle

In questi nuovi anni Sessanta, “nasceva Internet, le nuove droghe, i rave, l’hip hop, il sistema dei sound system che si spostavano per le strade… era una pacchia. C’era una festa quasi permanente dappertutto, gli occupanti prendevano possesso di tonnellate di posti, poi magari lasciati o ripresi a intermittenza.”

Il Forte ha avuto un’influenza fondamentale come comunità, all’interno del quartiere, una sorta di “mamma” di tutti gli altri centri sociali romani dell’epoca. Il principio di accoglienza veniva prima di ogni altra cosa e pure l’impatto con il vicinato non è stato poi così duro. “Il Forte si trova in mezzo a un parco, in una periferia storicamente accogliente, che ha abbracciato questa comunità con cordialità. Non c’è mai stato un rifiuto da parte del tessuto urbano circostante, che è una dimensione quasi di paese, con una cultura ‘contadina’. Gli abitanti erano prevalentemente lavoratori e lavoratrici emigrati/e al nord dal sud Italia, cercava lavoro a Roma e trovava lì le case a basso prezzo. Il Forte era schermato da questo parco, era enorme e aveva le mura di tufo giganti, che anche dal punto di vista del rumore ha ammortizzato tanto per il vicinato.”

Centocelle era terra del clan della Magliana, nonché di spaccio e di eroina, elementi a cui il Forte si è sempre dimostrato ostile. “Il parco in primis era il luogo in cui gli spacciatori se la cantavano come volevano, eppure il Forte si oppone subito all’eroina, così come al fascismo, sessismo, etc. Si teneva legato il quartiere attraverso iniziative che sapevano conferire una certa carica positiva, ma la diffidenza collettiva non mancava mai, verso questi strani giovani colorati o punk, apparentemente aggressivi, che si aggiravano nei dintorni del parco.” Eppure non c’è mai stato un vero e proprio scontro diretto, e tutto è filato sempre abbastanza liscio perché le dimensioni e gli intenti di questo nuovo organismo sono sempre stati più che lungimiranti. “Non è un centro sociale che basa la sua vita su Centocelle, ma che ne ha cambiato la storia. Adesso Centocelle è un quartiere che si è molto conformato sul pubblico che frequenta il Forte, e mantenendo gli affitti a prezzi abbastanza accessibili, permette un po’ a tutti di viverci. In più è anche diventato attrattiva della città, e questo denota la sua dimensione urbana, se non oltre-urbana, europea.”


Foto via.

Composizione
La struttura labirintica del Forte Prenestino ha contribuito, negli anni, a trasformarlo in una sorta di eclettico ecosistema di arte, cultura, controcultura, ma anche semplicemente un porto d’attracco per tutti coloro sentissero la necessità di un cambiamento. “Al piano terra c’è un laboratorio di autocostruzioni, un laboratorio di disegno, una sala di registrazione, una serigrafia, una sala prove, un cinema, un teatro, enoteca, medialab, ciclofficina, una sala di produzione di cosmetici naturali, birrificio, un infoshop, una palestra, centro SRP per materiale musicale autoprodotto, una taverna, una sala da tè, infopoint con supporto legale e psicologico, laboratorio fotografico con corsi di fotografia, spazio bimbi e una segreteria. Più uno spazio espositivo permanente di cinquecento metri quadri diviso in cinquanta ambienti sotterranei. Queste sono le attività fisse, oltre a esserci due palchi fissi, uno in uno studio realizzato apposta con insonorizzazione e isolamento acustico—quindi un auditorium, se vogliamo usare un termine adatto—e uno esterno. Ah c’è anche una collina in cui si produce il miele. È molto verde, il Forte.”

Tutto ciò che non è strettamente legato alla produzione artistica, lo è al consumo critico e consapevole. “Tutti i festival riguardano la parte audiovisiva, il teatro, il cinema (horror), i fumetti, le tematiche queer (Ladyfest) o il consumo critico, per l’appunto. Tutta la produzione musicale è variegata, e se anche non si esprime in un laboratorio fisso al Forte, ogni tot tempo ha modo di esprimersi passando da lì. Invece il piano superiore è dedicato ad ambienti un po’ più domestici, quali abitazioni e dormitori.”

Cronologia di un’occupazione

Costruito a fine diciannovesimo secolo (dal 1880 al 1884), come uno dei quindici forti militari in difesa della città, nel 1977 è stato consegnato al Comune di Roma, che non ha fatto nulla se non tenerlo in abbandono. Il primo maggio di nove anni dopo sono arrivati i punk e tutti gli affiliati alla Festa del Non Lavoro—dall’83 ad oggi organizzata nel parco adiacente—a re-impadronirsene. “È stato occupato piano piano, con molta pazienza. La prima esigenza è stata quella volta al fare i concerti, quindi serviva un bar dove vendere birra e sale in cui fare musica a basso prezzo. Col passare degli anni è arrivata l’esigenza di sviluppare uno spazio per vivere. La gente doveva vivere là dentro, perché gestire quel posto voleva dire rimanerci a tempo indeterminato.”

“Nasce con un’occupazione punk, si sviluppa con reggae e hip hop. Nasce La Contagio, cioè un centro di distribuzione di materiale autoprodotto, dove non è possibile avere a che fare con niente non sia non autoprodotto. Invece La Cordata era una partenza di studio di registrazione, legato all’ambiente hip-hop, rap e alle parole cantate in generale. Il primo disco prodotto è stato quello di Lou X, e poi si è andati avanti a fare altre cose. Da lì, nella prima metà degli anni Novanta, c’è stata l’esplosione techno, dei rave e dei Kernel Panik. I festival importanti di quegli anni erano l’Electrode, che sarà stato della portata del Sonar, ma il biglietto costava cinque euro…”

L’attaccamento a questa realtà è rimasto alto per tutti gli anni Novanta, fino a un grande stop, nel 2001. “Dopo i fatti di Genova abbiamo vissuto una crisi. Fino ad allora eravamo allegri e positivi, facevamo di tutto e con grande entusiasmo, ma Genova è stato un enorme blocco di tutto questo meccanismo. Non eravamo più in grado di riformare quel tipo di comunità, e siamo tornati a fare il nostro, gli architetti o le varie professioni che avevamo. È lì che ho deciso di dare inizio a Crack!”

Gentrification di spazi liberati

Fortopìa è stato visto da tutti come un momento di riapertura, contando che riunisce storie dalla prima apertura del Forte fino ai giorni nostri, senza dare un punto di vista, ma tanti. Tante parole scritte in modo diverso, e tanti pensieri apparentemente sconnessi nel tempo e nello spazio, vogliono mettere in evidenza la possibilità reale di recuperare delle realtà frammentate e rimetterle in gioco. In qualche modo è in sé una forma di resistenza a una politica, che in questo momento a Roma è più attiva che mai, di chiusura e repressione. Non importa se colpisce i centri sociali, o altri piccoli locali in accordo col comune… si vuole fare piazza pulita su tutto ciò che faccia parte dell’humus di questo movimento.”

Quella che sta avvenendo a Roma è una vera e propria gentrification di spazi. Una lenta e inesorabile sostituzione di tutto quello che è “scomodo” in quanto a tornaconto economico, con qualcosa di più proficuo. “Si chiudono i posti non perché voglio che l’offerta culturale non ci sia più in questa città, ma perché si vuole costringere chi se ne occupa attivamente a fare la stessa offerta in posti prestabiliti. Prima occupavamo un centro sociale sulla base dell’individuazione di uno spazio abbandonato che si prestasse a rivestire un certo ruolo culturale, adesso le nuove occupazioni sono molto più complicate. Teniamo duro sui posti che abbiamo, ma succede che tutti quelli potenzialmente occupabili vengono invece messi a rendita. Il gestore di questi posti, o le entità private che ne sono proprietarie, li affittano a persone facendo in modo che vengano gestiti come se fossero centri sociali. Quindi l’aspetto esteriore è analogo a quello dei CS, e vengono pure chiamate a lavorarci persone preferibilmente appartenenti a quel giro. Quelli del Verme magari sono più utili a organizzare qualcosa di più istituzionale, che a starsene in uno scantinato. Tanto vale chiuderlo.”


Foto via.

Operazioni simili servono a spostare il pubblico pensante e che attualmente frequenta gli ambienti dei centri sociali, in altri spazi, di modo che l’offerta culturale sembri la stessa. La differenza sono le modalità. “Sono spazi di rendita, e stanno dietro alle regole del mercato, per cui da bere costerà quanto costa nei bar, etc. La reale differenza è che un centro sociale crea un tessuto, una continuità, quindi si mantiene nel tempo e afferma uno spazio nel tempo. Gli altri spazi, invece, sono friabili. Possono sparire nel giro di una mattina perché chi affitta un giorno può decidere che non ha più voglia o tempo e bisogna sgomberare. Dopo che si è liberato, magari quello spazio viene usato per farci delle case, un centro commerciale o quant’altro… basta che ci si speculi su. Non esiste più, a quel punto, un tessuto che diffonde il valore socio-culturale di quel lavoro, ma dei produttori-pedine che vengono presi e spostati da una parte all’altra come meglio conviene. Non credo che ci sia un progetto dittatoriale volto a cancellare le forme d’espressione, a Roma; fa tutto parte di un disegno di trasformazione, un po’ come è stato fatto con Expo a Milano.”

Il piano sicuramente prevede la riduzione delle possibilità di nuove occupazioni, e di questo dobbiamo essere tutti consapevoli. “Abbiamo preso come riferimento un testo che si chiamava Diritto alla città di Lefebvre, in cui si sostiene che il diritto alla città si divida in due forme, in due elementi: da una parte la partecipazione, cioè il diritto a partecipare alle attività del tessuto urbano, al partecipare alle scelte, confidando che il mondo si stia spostando e che ci siano sempre più abitanti all’interno delle città che al di fuori. Dall’altra la riappropriazione. Nel momento in cui la città abbandona certi spazi o non fa di loro un uso collettivo, deve essere consentito per legge che i cittadini se ne riprendano possesso. Questo vorrebbe dire dare diritto all’occupazione, quindi far valere la teoria per cui lo spazio si forma a seconda delle pratiche che si svolgono al suo interno. Un capannone è sì un luogo abbandonato da una qualche fabbrica, ma anche qualcosa di meno definito/legale che però raduna persone e ha una sua conformazione a seconda della funzione ‘secondaria’ assegnatagli. Si tratta di spazi di tutti, che non tutti possono usare, e che vanno quindi restituiti.”


Foto via.

Se ciò non dovesse accadere—come infatti non accade—non è illegittimo parlare di furto. “Mi deve essere garantito il dritto di fare di quello spazio ciò che voglio, se un ente come lo Stato se ne lava le mani. Gli spazi sono quello che vi è svolto al loro interno. Se disponessi di un enorme capitale immobiliare e mi trovassi immerso in un sistema che mette in crisi la mia produzione di capitale, la mia prima risposta a questo tipo di meccanismo deve essere quella di distruzione di tutto ciò che contamina il mio panorama ideale di mercato. Se non dovessi riuscire ad annullarli culturalmente, allora li dovrei sostituire. Prenderei qualcos’altro che assomigli a queste realtà, e lo metterei al loro posto, sperando che la gente ‘ci creda’ lo stesso. Il tutto mentre gli altri spazi, quelli originari, sono stati dimenticati. Ecco create le basi per questa dicotomia tra spazi di comunione vs spazi commerciali che li simulano: un modello iperconsumista del centro sociale, ormai diventato centro commerciale.” Tutta questa fetta di pubblico, più attaccata alla ricerca di nuovi contenuti/linguaggi etc, viene contenuta in uno spazio ipercontrollato, dove sembra che tutto sia come prima, e invece non lo è. Quando il processo sarà finito e non ci sarà più nessuno in grado di pensare o immaginare altra via di fuga, verrà raggiunto l’obiettivo di normalizzazione dell’intelligenza, e come sappiamo, siamo già a buonissimo punto.

Futuro
“Si sta sviluppando un meccanismo per cui l’intenzione è quella di non far trovare nessuno dall’altra parte, a reggere il testimone di quanto abbiamo costruito col Forte. Si arriva a sgomberare posti come il Verme, che manco sono centri sociali, ma che sono lo stesso parte di questa staffetta. Viene attaccato tutto il territorio intorno, e stai sicuro che prima o poi arriveranno anche a te. C’è in atto un accerchiamento: prima i più piccoli, e lentamente il pezzo grosso. Siamo sotto minaccia da anni, ma spero che in un futuro prossimo qualcosa cambi davvero, a cominciare dal prefetto responsabile di tutto questo. Soprattutto che non si siano messe in atto le condizioni per farlo tornare. Non sono un politico, ma di cultura periferica o delle zone territorialmente autonome posso dire molto. Per tutti questi motivi è difficile individuare veri proseguitori di un’operazione come la riappropriazione di spazi cittadini.” Ora più che mai, Roma ha davvero bisogno di essere Forte.

Segui Sonia su Twitter.