Il 20 novembre 2022 ha avuto inizio il Campionato mondiale di calcio FIFA in Qatar, il primo paese mediorientale a ospitare l’evento. Le infrastrutture ultramoderne che lo ospitano sono state costruite nel corso degli ultimi 12 anni, sia per stupire il mondo che soprattutto per mettere la piccola nazione del Golfo, con i suoi quasi tre milioni di abitanti, sulla mappa geopolitica.
Ma invece di migliorare la reputazione del paese, gli stadi hanno attirato critiche da tutto il mondo a causa delle condizioni di estremo sfruttamento a cui sono stati sottoposti i lavoratori che li hanno costruiti.
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Secondo un’inchiesta del Guardian, i lavoratori sono stati pagati anche 0,56€ all’ora per lavori estenuanti sotto un caldo soffocante. Gran parte di loro hanno dovuto vivere in campi di lavoro, strutture isolate e sovrappopolate costruite nel deserto intorno alle città qatarine in condizioni sanitarie terribili.
Assunti attraverso il cosiddetto sistema Kafala, che l’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha paragonato a un sistema di schiavitù moderna, ai lavoratori viene spesso confiscato il passaporto all’arrivo, rendendogli così quasi impossibile cambiare lavoro o lasciare il paese.
Sono stati inoltre denunciati casi di furto salariale, condizioni di lavoro scadenti, molestie e abusi sessuali. Il Qatar ha passato una riforma sul lavoro migrante nel 2017, ma gli osservatori internazionali dicono che sia cambiato poco o nulla.
Nel 2021, Amnesty International ha rivelato che fino a 15mila persone migranti che hanno lavorato nelle infrastrutture della Coppa del Mondo sono morte tra il 2010 e il 2020, in gran parte a causa di colpi di calore o delle scarse norme di sicurezza.
Altre relazioni hanno però ridimensionato questa cifra, attribuendola alle morti di lavoratori migranti a livello generale, visto che il Qatar non ha reso pubblici i dati riferiti ai cantieri della Coppa del Mondo. Tuttavia, i commentatori hanno sottolineato che gran parte del boom edilizio degli ultimi anni non sarebbe avvenuto senza il grande, e quindi queste morti sarebbero da attribuire indirettamente alla Coppa del Mondo.
Il Qatar avrà anche speso più di 220 miliardi di euro per i suoi stadi, ma il prezzo più alto è stato pagato da paesi che si trovano a migliaia di chilometri di distanza.
I lavoratori stranieri, perlopiù a basso reddito, rappresentano l’88 percento della popolazione, mentre i cittadini qatarini sono soltanto 380mila. Le due comunità più nutrite sono quelle dei lavoratori indiani e nepalesi che si sono trasferiti nel Golfo per guadagnare soldi da mandare alle famiglie. Le loro storie si perdono spesso nell’ombra delle impressionanti cifre diffuse dai media.
Il fotografo franco-belga Frédéric Lecloux ha incontrato molte delle loro famiglie in un viaggio in Nepal, un paese che visita regolarmente per lavoro fin dal 1994. Al culmine del boom edilizio in Qatar, tra il 2015 e il 2016, Lecloux ha deciso ritrarre questi lavoratori e i loro cari tra il Nepal sudorientale e le aride periferie di Doha. Queste foto intime testimoniano che la storia del successo del Qatar è il rovescio della medaglia della povertà e della migrazione in Nepal.
Il suo lavoro è stato pubblicato nel libro Au Désert. Migrations Népal – Qatar (Nel Deserto. La migrazione Nepal – Qatar, disponibile solo in francese.) Lo abbiamo intervistato per sapere che cosa ha imparato da questa esperienza.
VICE: Come sei venuto a sapere della migrazione dei lavoratori dal Nepal al Golfo? Frédéric Lecloux: Vado in Nepal regolarmente fin dalla metà anni Novanta, di solito facendo scalo ad Abu Dhabi, Dubai o Doha [la capitale del Qatar]. Dall’inizio degli anni Duemila, ho iniziato a notare che i passeggeri della seconda parte del viaggio erano quasi esclusivamente giovani uomini nepalesi. Così mi sono conto del fenomeno migratorio.
Il momento decisivo è arrivato con la pubblicazione dell’articolo di Pete Pattisson sul Guardian nel 2013, che denunciava le prime morti riconosciute ufficialmente tra i muratori nepalesi nei cantieri degli stadi del Qatar. Poi, un altro articolo pubblicato da Florence Beaugé su Le Monde ha raccontato la storia dall’altro lato della medaglia, quella dei villaggi nepalesi attorno a Kathmandu dove non c’erano più uomini.
**Tu hai scelto di concentrarti su tre regioni del Nepal sudorientale. Sono quelle più colpite?
**Sì, tutta l’area del Terai è molto colpita. Ci sono tanti villaggi in cui gli unici maschi che vedi sono bambini o anziani. Ma la migrazione economica non è una novità per queste terre—le persone nepalesi sono costrette a trasferirsi per fornire sostegno alle famiglie da decenni.
All’inizio, la destinazione tipica era l’India [che non solo confina con queste regioni, ma ha una politica di frontiere aperte con il Nepal] dove gli uomini si recavano per alcuni mesi per effettuare lavori stagionali. Con il passare del tempo, quegli stessi lavoratori hanno dovuto allontanarsi sempre di più per trovare lavoro, prima fino alla Malesia e poi al Golfo.
**Come sei entrato in contatto con le famiglie dei lavoratori?
**Non è stato facile, queste regioni sono estremamente conservatrici. In Nepal, quando le donne giovani si sposano, vanno a vivere con la famiglia del marito e si trovano spesso sotto stretto controllo della suocera o del cognato. Da occidentale non mi era possibile contattare direttamente le mogli dei lavoratori, avevo bisogno di un intermediario. Dopo un po’ di ricerche, ho trovato un assistente sociale che mi ha aiutato a condurre le interviste e organizzare i servizi fotografici.
**Che idea hanno le donne della partenza dei mariti?
**La frase che ho sentito più spesso è: “Non abbiamo scelta.” Ho cercato di capire che cosa ci fosse dietro e, dopo decine di interviste, direi che si tratta perlopiù di pressione sociale: il vicino di casa ha comprato una casa, una moto o un piccolo negozio di alimentari in questo modo, quindi loro vogliono fare lo stesso.
Per uscire dalla povertà, queste famiglie mandano i loro uomini a lavorare lontano, sperando che tornino in Nepal e ci restino. Lo stato nepalese non è in grado di assicurare loro una vita decente, quindi continuano a migrare.
**Dopo aver conosciuto queste famiglie, sei partito alla ricerca dei loro uomini in Qatar.
**Sì, sono partito anche se ero riluttante e agitato. Avevo la sensazione che sarei stato sotto osservazione in ogni momento. Avevo letto le testimonianze di giornalisti che si erano visti confiscare le foto quando avevano indagato su questo argomento.
Sul luogo, ho potuto contare sull’aiuto di un uomo nepalese che aveva un’auto, Rajendra [nome di fantasia]. Ho contattato i lavoratori via telefono e stabilito un luogo d’incontro. Poi siamo andati a vedere i campi alla periferia di Doha.
**Sei riuscito a entrare nei campi senza difficoltà?
**Sorprendentemente, sì. Rajendra e io parcheggiavamo di fronte al campo, gli uomini ci aspettavano all’entrata, e se una guardia faceva domande dicevamo che stavamo andando a trovare tal dei tali perché eravamo amici della sua famiglia. Ed era quasi vero—io ero l’ultima persona che poteva fornire loro foto, notizie e contatti delle loro famiglie.
Comunque, non ci fermavamo troppo a lungo in un campo, un’ora o due al massimo, per non occupare i pochi momenti di tempo libero che avevano dopo il lavoro. Anche loro citavano l’idea di non avere scelta, di essere costretti a cercare lavoro all’estero, e allo stesso tempo parlavano del profondo senso di stanchezza e noia che questa vita si trascina dietro.
**E ottengono i risultati sperati?
**Parlano molto dei mutui che hanno dovuto accendere per viaggiare così lontano. In Nepal, è diffusa l’attività dell’intermediario che gira per i villaggi promettendo un passaporto, un biglietto aereo e un contratto per poche migliaia di rupie.
Visto che le famiglie non hanno i risparmi necessari, i prestiti diventano una parte chiave del progetto di migrazione. In genere, il primo anno di salari serve a ripagare i prestiti e gli interessi, che sono estremamente alti. Tuttavia, è anche importante che io metta in prospettiva quanto si aspettano di guadagnare, visto che il salario base di un contadino in Nepal è di circa 1,25€ al giorno [che è meno di quanto prendono in Qatar].
**Credi che smetteranno mai di partire?
**Anche se il tasso di migrazione si è abbassato negli ultimi anni, ormai è diventata una parte strutturale del funzionamento della società in Nepal. A seconda della fonte e dell’anno, risulta che tra il 25 e il 30 percento del Pil del Nepal provenga dai lavoratori migranti. Quindi il governo si limita a cercare di rendere più facile e scorrevole possibile il processo di migrazione, mentre le Ong non cercano di limitare la migrazione, ma soltanto di renderla più sicura.
Ciò che mi colpisce di più è che la migrazione, e se questa sia una cosa buona o cattiva, non è nemmeno più una questione dibattuta in Nepal. Per i giovani uomini, è una specie di passaggio obbligatorio. Oggi, il 10 percento delle persone che partono è donna [alcuni sondaggi riportano cifre tra 5 e 8,9 percento].
La destinazione per la maggioranza è il Golfo, dove fanno le operatrici domestiche. E temo che, visto che queste giovani donne rimangono completamente isolate a case dei loro datori di lavoro, si trovino a vivere situazioni ancora più drammatiche.
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