Da quando l’uomo ha iniziato a raccontare storie, racconta storie che parlano di droga. Con 4.000 anni sulle spalle, L’Epopea di Gilgamesh è ritenuta l’opera letteraria più antica che conosciamo e, stringi stringi, è una storia di droga: l’ultima parte del racconto si concentra su un re disperato e insicuro che va alla ricerca di una sostanza in grado di farlo sentire di nuovo giovane.
“C’è una pianta che somiglia allo spinacristi… se ne entri in possesso, sarai di nuovo com’eri in gioventù,” spiega Gilgamesh al suo compagno di viaggio non morto Ur-shanabi, durante quella che è forse la missione per procurarsi la droga più antica che sia mai stata documentata. “Questa pianta, Ur-shanabi, è la ‘pianta della vita;’ con essa un uomo può riconquistare il proprio vigore perduto.”
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Gilgamesh spiega poi di voler testare la sostanza su un vecchio e ignaro pastore, passando così alla storia come l’eroe che somministra immortalità ai vecchi come se fosse la droga dello stupro. Il punto è che la droga funziona sia come espediente narrativo che come potente simbolo (nel caso del vecchio Gilgamesh, è la sua paura della morte).
Gli esseri umani hanno sempre assunto droghe nel mondo della narrativa, in genere con lo scopo di esplorare le proprie idee sulla scienza, sull’ordine sociale o sulla natura umana. Le nostre storie di droga hanno dimostrato di riuscire a riflettere e a dissezionare le ansie relative a un dato momento storico—si imparano molte cose sulle paure e le aspirazioni legate a un certo periodo, leggendo i bad trip dei personaggi di finzione coevi—e persino a predire il futuro.
Le droghe sembrano fatte apposta per la fantascienza, anche per il modo in cui questo genere tende a evidenziare le correnti sociali e tecnologiche emergenti; una sostanza che trasforma in realtà un’idea nascente è un dispositivo narrativo incredibilmente utile. Un personaggio può buttare giù una pillola, masticare una pianta o bere un elisir, e trasformarsi in qualcosa di completamente diverso senza dover scomodare la logica (è solo droga). In questo processo, le droghe possono esplorare i nostri desideri più profondi e convogliare le preoccupazioni e aspirazioni contemporanee in un racconto rivelatore.
E se potessimo evitare la morte? E se potessimo trasformarci in qualcun altro e magari sfogare tutti i nostri desideri più reconditi? E se la scienza potesse renderci più intelligenti? Permetterci di leggere i pensieri delle altre persone? Farci viaggiare nello spazio? Nel tempo? Farci passare inosservati tra la folla? Nella finzione, le droghe avverano ogni desiderio.
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Tra Gilgamesh (2100 a.C.) e, per dire, Limitless (2015), ci sono state generazioni e generazioni di narratori che hanno usato le droghe per qualsiasi fine possibile e immaginabile. (Volete le prove? Date un’occhiata all’archivio infinito di Wikipedia “List of ficional medicines and drugs“.) Miti, storie e leggende hanno raccontato in dettaglio l’uso di strane sostanze nel corso dei secoli—l’Eneide di Virgilio (19 a.C.) per esempio, parla di un’acqua raccolta dal fiume Lete, che concede a chi la beve di perdere la memoria, condizione necessaria per entrare nei campi Elisi. Ma l’ossessione che proviamo verso le droghe per come le intendiamo oggi—misture chimiche o erbacee, sieri o elisir che consumiamo per alterare il nostro stato psico-fisico—è probabilmente iniziata intorno al 1800.
Nel racconto The Mortal Immortal (1833) di Mary Shelley, il protagonista sottrae un elisir di vita eterna al capo alchimista, vive più a lungo dei suoi amici e dei suoi cari, mentre la sua mente si deteriora. In Alice nel paese delle meraviglie (1865) di Lewis Carroll, l’eroina beve pozioni e mangia funghi per cambiare il proprio stato fisico. (Anche se l’oppio era legale all’epoca, e i Jefferson Airplane hanno in seguito legato per sempre il testo alla psichedelia, secondo certi studiosi Carroll non faceva uso di droga.)
Un altro classico della dipendenza da sostanze è rappresentato dal romanzo Lo strano caso del dottor Jekyll e di Mr. Hyde (1886), scritto da Robert Louis Stevenson. Il siero, o il “sorso” che il folle dottor Jekyll beve è una sorta di mistura rinforzata di speed e alcool, che gli permette di perdere le proprie inibizioni e soccombere alla propria primordiale sete di potere e sesso; la droga è un interruttore on/off tra bene/male, uomo/bestia che permette a Stevenson di esplorare la debolezza morale dell’uomo, riflettendo intanto, forse, anche sulla propria. Alcuni storici sostengono che Stevenson abbia scritto il romanzo in sei giorni, passati tutti in botta da cocaina.
Lo schema ricorrente nelle storie di droga della prima fantascienza è chiaro. C’è sempre quello che gli spettatori “dell’epoca d’oro della televisione” considererebbero un “anti-eroe,” e in genere le storie si sviluppano in questo modo: Un uomo—praticamente sempre un uomo—scopre (o ruba) una nuova strana sostanza che gli offre la possibilità allettante di trasformarsi in qualche modo. L’uomo ingerisce la sostanza senza rifletterci in modo adeguato, poi impazzisce, diventa irriconoscibile, o muore violentemente. Le storie di droga di una volta sono tetre, non c’è che dire.
Capostipite di questo filone letterario è stato probabilmente HG Wells, che ha scritto una caterva di racconti assurdi e allucinati: da L’uomo invisibile (1897), in cui uno scienziato pazzo usa una mistura chimica per rendersi invisibile, al premonitore The New Accelerator (1901), in cui uno scienziato pazzo produce una droga che gli conferisce poteri mentali senza limiti, e impara a rallentare il mondo intorno a lui.
Forse notate un elemento ripetuto—l’arma preferita dagli scienziati pazzi è la droga. I laboratori clandestini con provette che ribollono e tavoli operatori luridi, sono tra i capisaldi della prima fantascienza, e non per caso. Queste storie erano una reazione all’emergere della scienza farmaceutica e della conseguente ascesa dell’industria della droga che, secondo la rivista Chemical and Engineering, si è verificata tra il 1870 e il 1930—esattamente quando sono nate queste storie.
Lo scetticismo nei confronti di scienza e tecnologia è endemico a tutta la narrativa speculativa che si rispetti, e queste prime storie di droga e “scienziati pazzi” ne contengono in abbondanza. Anzi, è possibile individuare proprio in questo periodo le radici di qualsiasi ansia che abbiamo ancora oggi nei confronti delle droghe: l’abuso di sostanze progettate per farci sentire momentaneamente meglio, l’uso eccessivo di una sostanza che migliora le nostre prestazioni, l’assunzione di una droga sconosciuta prima che abbia subito i test adeguati.
Ma queste droghe condizionano solo lo scienziato pazzo e quelli tanto sfortunati da finire sul tragitto della sua tecnologia illecita. Nel 1932, arriviamo a quella che è, probabilmente, la più celebre opera mai scritta che specula sull’uso sanzionato di droga, Il mondo nuovo di Aldous Huxley. I residenti della Londra del futuro sono perennemente sedati dalla soma, una droga legale distribuita dallo stato per curare l’irrequietezza; è l’equivalente letterario dell’ “oppio dei popoli” di Marx, e resta una delle predizioni più acute fatta da Huxley sulla nostra epoca intossicata di Ritalin.
“Ora—tale è il progresso—i vecchi lavorano, i vecchi copulano, i vecchi non hanno tempo, niente svago nel piacere, non un momento per sedersi e pensare,” scrive Huxley, “e se mai si dovesse aprire una fessura di tempo tale nella parete solida delle distrazioni, c’è sempre la soma, deliziosa soma, mezzo grammo per una mezza giornata di vacanza, un grammo per un fine settimana, due grammi per un viaggio verso il meraviglioso Est, tre per un’oscura eternità sulla Luna; così da rimettere piede, una volta raggiunta l’altra sponda di questa fessura, sul rassicurante suolo fatto di lavoro e di quotidiane distrazioni.”
Vi ricorda qualcosa? Tra Stevenson, Wells e Huxley è come se avessimo descritto anfetamine, Viagra, Adderall e Xanax. (All’inizio del Ventesimo secolo, quando la fantascienza pulp ha iniziato a diffondersi, le droghe per il miglioramento delle prestazioni e il controllo mentale erano tra i dispositivi narrativi più gettonati.)
Ma non tutti i racconti di droga parlano delle sostanze in modo negativo. Negli anni Sessanta, l’uso di droga era descritto in modo talmente positivo che il governo americano volle capire se questi racconti di fantascienza non stessero in realtà incoraggiando le persone a fare uso di droga per scopi ricreativi, o almeno capire di cosa parlavano a proposito di tale uso. Nel 1974, il National Institute on Drug Abuse commissionò un report al prolifico autore di fantascienza Robert Silverberg, dal titolo: Drug Themes in Science Fiction. (Oggi, la missione del NIDA è quella di “spingere la nazione a usare il potere della scienza per affrontare l’abuso e la dipendenza da droghe” e ha un budget operativo di 1 miliardo di dollari.) Ho trovato una copia del testo fotocopiata da un volume registrato in una libreria del Maine e caricata sul forum online di droghe Erowid.
“Sono due i discorsi sulle droghe psicoattive fatti dalla fantascienza,” scrive Silverberg. “Uno è di ammonizione: l’abuso di sostanze fuori dal comune fa marcire la fibra morale di chi le usa; è causa di apatia e generale degrado dell’individuo o della società, arrivando paradossalmente a favorire il sistema imposto da un ordine totalitario.”
Questa è stata l’interpretazione dominante fino agli anni Sessanta, quando sono arrivati gli hippie, gli acidi e i funghi allucinogeni; con loro, la seconda interpretazione dell’alterazione mentale: “L’altro discorso è visionario e utopico: come se attraverso le droghe la razza umana potesse ottenere poteri spirituali o psicologici straordinari, e accedere così a una fase esistenziale più elevata,” prosegue Silverberg. “Il secondo atteggiamento è diventato molto più diffuso dal 1965, quando l’uso di allucinogeni e stupefacenti fatto dalla classe media nell’occidente industrializzato iniziò per la prima volta a dimostrare i tratti di un grande cambiamento culturale.”
Il 1965 è stato un punto di svolta per la fantascienza, grazie in gran parte alla pubblicazione di Dune di Frank Herbert, forse il romanzo di fantascienza più popolare della storia. L’intera storia ruota intorno alla droga; nello specifico alla “melange,” o semplicemente “spezia.” Tra le altre cose, la spezia consente di deformare lo spazio-tempo e fare viaggi interstellari, di avere visioni profetiche e di fare abbastanza soldi da gestire un impero intergalattico. In Dune, la spezia è la chiave dell’universo, letteralmente. Solo unendosi a un culto di mistici che vagano per il deserto fatti di questa spezia il protagonista Paul Atreides riesce a diventare il Kwisatz Haderach—il Cristo-equivalente della saga—e a sconfiggere il tirannico Harkonnens, che ha ucciso suo padre e saccheggiato le miniere di spezia dell’universo.
Se vi sembra tutto un trip, non avete tutti i torti—Herbert disse al famoso micologo Paul Staments che gran parte del suo romanzo era stato ispirato dalle sue esperienze personali con i funghetti che, insieme all’LSD, erano diventati una sostanza fondamentale per la contro-cultura psichedelica degli anni Sessanta.
A Time of Changes, scritto proprio da Robert Silverberg nel 1971, ha un messaggio ancora più palesemente positivo; una società di miserabili scontenti scopre una droga che permette alle persone che ne fanno uso di comunicare telepaticamente. Questa sostanza inizia ad aprire le menti e a riportare la pace e il benessere.
A questo punto, la fantascienza che parla di droga è diventata relativamente mainstream, in un vortice variegato di filosofie e strutture. È ovunque. Per quanto abbia già dovuto tralasciare molte interessanti sostanze di fantasia (per esempio, “The Diabolical Drug,” del 1929, che mette le persone in animazione sospesa, o la droga anti-sonno di “He Never Slept” del 1934), da qui in poi sarebbe assolutamente impossibile nominare tutte le droghe di finzione che sono entrate nella nostra cultura. È possibile però suddividerle in un numero contenuto di tipologie. Ecco alcuni dei tipi più popolari delle sostanze consumate e abusate negli annali della fantascienza:
Le droghe per il miglioramento delle prestazioni sono stimolanti fuori dalla norma, come il latte arricchito di anfetamine (“moloko plus”) di Arancia Meccanica, romanzo scritto da Anthony Burgess nel 1962. O, restando su una nota più leggera, l’afrodisiaco Venus in quel chiacchierato episodio di Star Trek del 1967. Vogliamo tutti essere più forti, più sexy, più formidabili; prendere una scorciatoia sintetica, nel mondo della fantascienza, è di rado una buona idea.
Le droghe che deformano la realtà prendono psichedelici e oppiacei e li portano a un estremo post-umano; l’esempio migliore è sicuramente la panoplia di allucinogeni di Dick, forse meglio esemplificati dalla Sostanza M, o “morte,” in A Scanner, Darkly – Un oscuro scrutare, o la neuroin in Minority Report. Anche la “carne nera” in Il pasto nudo di William Burroughs merita di essere nominata; è una cosa talmente “deliziosa” e che crea una tale dipendenza, da indurre chi ne fa uso a mangiare il proprio vomito per prolungare la botta. Questi racconti esplorano il lato oscuro del sogno psichedelico, la dipendenza e il rischio di scivolare in un mondo irreale per sempre.
Le droghe curative sono un altro dispositivo narrativo comune che, per quanto risalga a tempi ben più antichi, è una costante di molte storie di fantascienza. A meno che non si tratti di una sostanza che dona l’immortalità, però, una droga curativa non è mai al centro dell’attenzione, probabilmente perché una sostanza usata per risolvere problemi di salute quotidiani è un po’ noiosa—come anche le sostanze che curano istantaneamente, come la broda che prende Luke in L’impero colpisce ancora, dopo essere stato massacrato. Di tanto in tanto, si tratta di cure psicologiche, come il Dylar di Don DeLillo, che allevia l’ansia della morte, in White Noise.
Le droghe per il controllo mentale danno agli esseri umani poteri telepatici o la telecinetici; un buon esempio sono le sostanze in Scanners di David Cronenberg, che vengono somministrate ai bambini in segreto, con lo scopo di creare una stirpe di agenti governativi in grado di controllare le cose con la mente e di far esplodere il cervello alla gente. Per lo più puro prodotto della fantasia, queste storie si tingono di toni cospirazionisti e vaghe metafore—il governo (o le corporazioni) controlleranno letteralmente qualsiasi cosa; anche le nostre menti.
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Il caleidoscopico successo delle droghe non poteva durare per sempre, ovviamente; tutto finisce. Negli anni Ottanta e Novanta, il cyberpunk ha rovinato la festa. Fare uso di droga è diventata di nuovo una cosa sinistra, tossica e proibitiva. È interessante notare come le droghe siano spesso uno strumento di mediazione nel rapporto—sempre più di dipendenza—che abbiamo con le tecnologie.
In Neuromancer (1984), manifesto del cyberpunk, il protagonista Henry Case si frigge il cervello con le micotossine sovietiche e non può più connettersi al cyberspazio. Ha anche un’assuefazione a diverse droghe reali, finché non si fa impiantare un tessuto sintetico sul pancreas, diventando così a prova di dipendenza. Snow Crash (1992), invece, parla di una droga che gli hacker assumono nella realtà virtuale, che può però ucciderli nella realtà fisica—oltre a essere un virus con il potenziale per spazzare via l’umanità intera ed essere ovunque.
“Aspetta un attimo, Juanita. Deciditi. Questa Snow Crash—è un virus, una droga o una religione?” chiede il protagonista a un certo punto. La risposta è prevedibile: “Che differenza c’è?”
Nel film Matrix, buttando giù la pillola rossa, Neo si disconnette dalle macchine, liberando il suo vero io dalla catena di sfruttamento in cui era prigioniero.
“La fantascienza è tanto una guida su dove siamo, quanto una visione di dove stiamo andando,” scrive Silverberg in Drug Themes in Science Fiction. “Un genere letterario tanto popolare tra i giovani, che fa presa su un pubblico tanto devoto, può avere un ruolo significativo nella comprensione delle idee incubate dalla società contemporanea e di quelle che si svilupperanno in futuro.”
In tempi più recenti (e in modo più significativo) la fantascienza che raccontiamo è di nuovo piena di droghe per il miglioramento delle prestazioni. Siamo tornati a HG Wells e al suo nuovo acceleratore. La sostanza NDZ-70 di Limitless—serie TV andata in onda quest’anno—permette a chi ne fa uso di ottenere una conoscenza sovrannaturale e la capacità di imparare qualsiasi cosa nel giro di pochi giorni. Nel film Lucy, un’altra sostanza nootropa, il CPH4, trasforma il personaggio interpretato da Scarlett Johansson in un essere iper-efficiente e ultra intelligente. Nel reboot di Judge Dredd, ruota tutto intorno alla droga Slo-Mo—che permette alle persone di rallentare all’uno percento della loro normale velocità, magari per sfuggire a una realtà distopica completamente digitale e oberata di lavoro.
In questo momento, vogliamo disperatamente una droga che ci permetta di adattarci all’era del flusso di dati inarrestabile. È interessante notare che in Limitless, le cose in qualche modo si sistemano per il protagonista tossico-dipendente alla fine, nonostante sia un perfetto stronzo—trova un modo per restare sballato per sempre, godendosi i benefici della sostanza stimolante senza pagarne i costi. Forse siamo talmente fritti a questo punto da raccontarci le favole da soli.
Questo è l’elemento che torna in tutte le storie dove la mente si deforma: sono quasi tutti ritratti della nostra hubris. Raccontano la nostra eterna fiducia che ci sia una pillola, una pianta, una sostanza di qualche tipo in grado di curare qualsiasi cosa per noi. In grado di aggiustare tutto.
Persino gli sforzi del proto-cercatore di droghe Gilgamesh sono stati tutti in vano, alla fine. Un serpente divora la sua riserva di immortalità in foglie, mentre lui fa un pisolino. Sconfitto e a mani vuote, torna a casa: davanti alla gloria della propria città, ne decanta le mura come vera forma di immortalità, mentre qualcuno scrive la sua storia su una tavoletta di lapis lazuli. La droga non è mai valsa niente; vivere sì.
Però poi, a pensarci, conosciamo ancora tutti la storia di Gilgamesh e del suo viaggio in cerca dell’immortalità, quattro millenni dopo. Forse le droghe funzionano, dopo tutto.