Cinquant’anni fa, Henry Rogers è uscito da un ascensore ed è entrato in un inferno.
Ispettore del controllo qualità alla NASA, Rogers stava lavorando a una simulazione di lancio per l’Apollo 1, la prima missione Apollo dotata di equipaggio, a Cape Canaveral, in Florida. Ma mentre si trovata nell’ascensore, era scoppiato un incendio nella cabina del veicolo spaziale. Quando Rogers è entrato nella white room — l’area della torre dello shuttle che porta alla cabina — le fiamme erano alte e la stanza era piena di fumo.
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“Avrebbe potuto tornare all’ascensore e mettersi al sicuro, sapendo quali rischi poteva correre, ma non ha esitato un attimo,” ha scritto in un saggio nel 2004 Stephen Clemmons, un tecnico meccanico che si trovava lì a sua volta, quella notte. “Anzi, è corso attraverso il fumo e il fuoco e si è messo a dare una mano, in qualsiasi modo. Non aveva ricevuto l’addestramento per aprire i boccaporti, ma ci ha provato.”
Rogers e cinque altri uomini, compreso Clemmons, hanno messo le proprie vite a repentaglio per cercare di salvare Gus Grissom, Ed White e Roger Chaffee, i tre astronauti intrappolati dentro la capsula in fiamme. Quando, alla fin fine, sono riusciti ad aprire il portellone, era troppo tardi. Tutti e tre gli astronauti erano morti. Anni dopo, molte persone alla NASA si sono convinte che la loro morte abbia in realtà salvato il programma, ma nel momento della tragedia, il futuro del programma Apollo era diventato incerto.
La memoria dell’incendio dell’Apollo nel 1967 è conservata nei libri di storia e in documentari approfonditi. Ma l’orrore e la violenza emotiva di vedere tre dei propri colleghi — e per molti nel programma, tre amici — soffocare in una capsula che brucia, mentre cerchi di salvarli, non è stata salvaguardata altrettanto. La gravità di quel momento è diventata una nota a più di pagina nella coscienza pubblica, sbiadita dalle decadi che sono passate e hanno offuscato le imprese incredibili del programma Apollo.
Ma per quelli come Henry Rogers, che hanno vissuto in prima persona la tragedia, il trauma del 27 gennaio 1967 ha lasciato vere cicatrici e un profondo senso di rimpianto, che è difficile da afferrare dopo tutti questi anni.
“Ci siamo sentiti profondamente responsabili.”
Le azioni compiute quella notte hanno fatto guadagnare a Rogers e agli altri uomini che hanno cercato di salvare i compagni la NASA Medal for Exceptional Bravery, un raro onore, che viene concesso “per la gestione esemplare e coraggiosa di una situazione di emergenza, da parte di un individuo che, a prescindere dal pericolo per la propria persona, agisca per prevenire la perdita di vite umane.” Ma Rogers non ha mai parlato dell’incendio con la sua famiglia. Ha marciato oltre, stoicamente, nel modo in cui tanti della sua generazione sembravano sempre fare, e ha continuato a lavorare al programma Apollo fino alla sua conclusione, nel 1975.
Rogers era un veterano, che aveva combattuto nella Seconda Guerra Mondiale e in quella in Corea. Era membro orgoglioso della squadra che ha messo il primo uomo sulla Luna. Era un marito e il padre di tre figli maschi.
Era anche mio nonno.
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Il 27 gennaio 1967 era un venerdì, la fine di un’altra settimana faticosa di preparativi in vista della data di lancio dell’Apollo 1, programmata di lì a poche settimane: il 21 febbraio del 1967. La missione consisteva nel portare Grissom, White e Chaffee in orbita, permettendo così ai tre astronauti di testare i sistemi di lancio e volo dell’Apollo — in particolare il Command Service Module — per essere certi che la tecnologia impiegata in un eventuale allunaggio sarebbe stata all’altezza del compito.
A quel punto, l’ambizioso programma spaziale Apollo era al sesto anno. Era stato lanciato in risposta all’obbiettivo prefissato nel 1961 dall’allora presidente John F.Kennedy, di “mandare un uomo sulla Luna e farlo tornare sano e salvo sulla Terra” entro la fine del decennio. I progressi fatti dai primi programmi spaziali con equipaggio umano, Gemini e Mercury, erano stati consistenti. Ma la corsa allo spazio in competizione con l’URSS, aggiunta all’impegno pubblico di Kennedy di un allunaggio, ha contribuito a creare un senso di urgenza, che ha spinto il programma Apollo a rotta di collo. Di conseguenza, tutto il team sentiva una responsabilità personale nei confronti del progetto.
“Quel che ricordo è che le persone erano lanciate al massimo e papà faceva molte ore di straordinari,” mi ha raccontato Ron Rogers, mio zio e figlio minore di Henry. “Stavano davvero spingendo il pedale sul progetto, perché c’erano tante implicazioni politiche.”
Henry “Buck” Rogers era nato il 25 marzo del 1923, insieme alla sorella gemella, Betty, a Charlotte, nel North Carolina. I suoi genitori si sono poi spostati con tutta la famiglia — i gemelli e la sorella Jean — nella piccola cittadina di White, in Georgia. Sono cresciuti poveri; per un periodo, Henry dovette indossare le scarpe vecchie della sorella, perché la famiglia non poteva permettersi di comprargliene di nuove. Altre volte, andava a scuola scalzo. Da ragazzino, Henry raccoglieva cotone o vendeva arachidi bollite alle partite di baseball per aiutare.
“Parlava fingendo di avere la zeppola, per far impietosire le persone e vendere più noccioline,” mi ha raccontato di recente mio padre Randy, il figlio maggiore.
Henry aveva 16 anni quando la Seconda Guerra Mondiale è scoppiata e si è unito immediatamente alla Marina, mentendo sull’età e divorando banane per mettere su il peso minimo necessario per arruolarsi. Ha dovuto lasciare la scuola, ma ha poi preso il diploma delle superiori durante il tempo in servizio. Ha combattuto a Pearl Harbor e nella battaglia delle Midway.
Dopo anni di trasferte di guerra, Henry si trovava a fare scalo a Detroit, intorno al 1943. Lì, in un negozio di robivecchi, ha incontrato una fiera ragazza canadese dai capelli rossi, che veniva da Windsor e lavorava come cassiera. Nonostante dovesse partire di lì a pochi giorni, le ha chiesto di uscire e hanno iniziato una relazione a distanza, scrivendosi lettere. Nel 1944 erano sposati e due anni dopo, alla tenera età di 23 anni, Henry diventò padre — pur essendo lontano in servizio, nel momento del parto. Il primo di tre figli, mio padre, nacque nel dicembre 1946.
Henry ha servito nella Marina per 15 anni, seguiti da un periodo di cinque nella Air Force, prima di ritirarsi. Ma il tempo passato nell’esercito gli ha fornito conoscenze consistenti di ingegneria e manutenzione, cosa che gli ha aperto le porte per un lavoro alla Martin Marietta Corporation, un’azienda che costruiva razzi e che poi è diventata la Lockheed Martin. Nel 1965, ha fatto il salto dalla Martin alla NASA, dove ha passato il resto della sua carriera.
Come ispettore del controllo qualità, il lavoro di Henry era assicurarsi che i materiali e le componenti della navicella fossero in ordine, riportare qualsiasi danno o difetto e cercare possibili miglioramenti. La NASA oggi descrive questo ruolo come di “fondamentale importanza” perché gli ispettori come Henry “sostengono il programma spaziale e proteggono le vite degli astronauti.”
La notte dell’incendio, Henry stava andando verso la white room per dare assistenza durante la simulazione finale, un’evacuazione di emergenza. Il team aveva passato la giornata a condurre un ultimo controllo di massima di tutti i sistemi, chiamato test “plugs out.” Consisteva nella prova del conto alla rovescia completo, seguito dallo scollegamento dei sistemi di terra (questa è la parte di “plugs out”) per vedere se i sistemi sul veicolo di lancio e sulla navicella funzionassero da soli. La white room si collegava tramite un braccio d’accesso alla navicella. Per raggiungerla, bisognava prendere un ascensore per 60 metri fino al livello A8, dove una piattaforma aperta collegava la torre di controllo alla white room.
Il test aveva avuto inizio intorno all’una del pomeriggio. Benché fosse andato per lo più tutto come al solito, c’era stato qualche problema con i collegamenti delle comunicazioni. Era difficile per il controllo della missione capire cosa dicessero i membri dell’equipaggio dentro lo shuttle e viceversa, cosa che ha scatenato la famosa frase pronunciata da Grissom dopo ore di rumore statico: “come faremo ad andare sulla Luna, se non riusciamo a comunicare a distanza di un paio di edifici?”
Alle 18:20, fu stabilita una pausa di 10 minuti per cercare di risolvere i problemi di comunicazione prima della simulazione dell’evacuazione di emergenza.
All’improvviso, alle 18:31, un messaggio oltre la linea di comunicazione:
“Al fuoco.”
Henry ha sentito la chiamata mentre andava verso l’ascensore. Ma a sua insaputa, la situazione nella white room verso cui era diretto si è intensificata rapidamente, in soli pochi secondi.
“All’improvviso qualcuno, pensiamo sia stato Grissom, ha detto ‘fuoco,’” mi ha raccontato John Tribe, il responsabile della propulsione dei veicoli spaziali per Apollo, che si trovava in un edificio separato quella sera. “A quello è seguita, subito dopo, la voce di Chaffee, che diceva ‘c’è un incendio nella cabina.’”
In quel momento, il team nella white room è passato in azione. Jim Gleaves, il tecnico capo, è corso verso la navicella per cercare di aprire i boccaporti e far uscire l’equipaggio. Nel frattempo, Don Babbitt, il pad leader per la North American Aviation — l’azienda ce ha prodotto la navicella dell’Apollo — è corso a prendere il telefono per chiamare aiuto.
“Appena si è girato, c’è stato un suono di sfiato, una sorta di WHOOOOSH!, seguito da qualcosa che a Babbitt è sembrata una lama di fuoco sparata dalla navicella e diretta verso la sua testa, che ha incenerito i fogli sulla sua scrivania,” hanno raccontato Catherine Bly Cox e Charles A. Murray nella loro ricostruzione del programma Apollo, Apollo: Race to the Moon.
Come poi un’indagine sull’origine dell’incendio ha determinato, il recipiente a pressione sulla navicella si era danneggiato, e il fuoco era divampato sul forcellone, scaraventando Gleaves indietro contro la porta, per poi invadere la stanza — e gli uomini — di fiamme fresche e fumo denso. Durante questo tempo, i lavoratori nella stanza di controllo erano attoniti, ascoltavano le comunicazioni discontinue degli astronauti, senza poter fare nulla.
“Ci sono stati 10 secondi di pausa e poi un grido disperato da Chaffee: ‘Tirateci fuori di qui! Stiamo bruciando!’” mi ha raccontato Tribe. “E poi un urlo. E poi era tutto finito.”
Dal momento del primo avviso di incendio all’esplosione del recipiente a pressione, sono passati solo 18 secondi: abbastanza per permettere a Henry di salire alla torre. A questo punto, Gleaves, Babbitt, Clemmons — così come L. D. Reece e Jerry W. Hawkins, altri due uomini che lavoravano nella white room — stavano già cercando di spegnere le fiamme e tirare in salvo gli astronauti.
“Sentivamo solo calore e cenere.”
Il fuoco ha raggiunto il soffitto e spedito “pezzi roventi di Teflon” della navicella per aria, ha scritto Clemmons nel suo rapporto. Insieme alla minaccia immediata delle fiamme, c’era un altro pericolo in vista: il razzo d’evacuazione da 4000 kg attaccato alla torre. Se l’incendio lo avesse raggiunto, avrebbe potuto prendere fuoco ed esplodere. I cinque uomini puntarono gli unici due estintori presenti sul piano contro le fiamme vicine al portellone.
“Il fumo era così denso che Jim non riusciva a vedere la navicella, ma poteva solo percepire gli ingombri del [portellone],” ha scritto Clemmons. “Era ormai quasi cieco per il fumo acre. Jerry era messo quasi uguale. Entrambi avevano la voce così rauca da non riuscire a parlare.”
Quando Henry è arrivato, senza esitazione alcuna, si è buttato nel caos generale che gli si parava davanti. Si è tolto la giacca per offrirla a un altro uomo, perché si coprisse il viso. Ha aiutato a recuperare un paio di maschere d’aria, e poi ha raggiunto gli uomini che stavano cercando di aprire i tre strati del boccaporto.
“Il portellone era allentato, ma non riuscivano a tirarlo,” ha detto Henry nella sua testimonianza, avvenuta durante le indagini durate un anno in seguito all’incendio. “Lo abbiamo spinto quanto bastava per intravedere dentro al modulo di comando e c’era tanto fumo e calore provenienti dall’interno della navicella. Abbiamo [guardato] e non riuscivamo a vedere nulla, così abbiamo infilato un braccio per vedere se riuscivamo a sentire qualcosa. Sentivamo solo calore e cenere.”
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La NASA ha pubblicato i risultati di un’indagine ufficiale dell’incendio dell’Apollo nel 1968. Stando al rapporto lungo 200 pagine, Grissom, Chaffee e White sono morti di arresto cardiaco dopo aver inalato una dose eccessiva di monossido di carbonio ed essersi addormentati. Tutti e tre gli astronauti erano morti molto prima che le fiamme li raggiungessero. È comunque un modo orribile di morire, e il dolore colpì a ondate tutti nel programma.
“In quanto membri del team di lancio, sentivamo di aver perso tre dei nostri e che la responsabilità era nostra,” mi ha detto Tribe. “Come diamine avevamo potuto mettere tre uomini in quelle condizioni?”
Le indagini hanno rivelato diversi errori minori, che si sono sommati uno all’altro fino al disastro. Il più evidente era l’atmosfera dentro la cabina, fatta di puro ossigeno. Magari sembra un errore ovvio oggi, ma come Cox e Murray hanno sottolineato nel loro resoconto del programma Apollo, l’ossigeno puro è necessario in orbita. Con la pressione in cabina che è solo un terzo di quella terrestre, l’aria normale — che è fatta per il 78 percento di azoto e per il 20 percento di ossigeno — non riuscirebbe a sostenere la vita mentre in orbita. Ma per i test a terra, si è dimostrata una scelta disastrosa mettere gli astronauti in capsule di puro ossigeno pressurizzato.
C’erano anche alcuni difetti di progettazione che hanno permesso alla prima scintilla di accendersi, restare nascosta e divorare materiali altamente infiammabili nelle vicinanze, portando l’incendio a crescere a dismisura in pochi secondi. Poi c’era il portellone stesso: era progettato per aprirsi verso l’interno (cosa quasi impossibile se la pressione della cabina aumenta) e dotato di tre strati, che rendevano l’apertura un processo lento e faticoso, e che hanno reso tardivi i tentativi di soccorso.
Ognuno di questi errori ha fornito una lezione importante per le fasi successive del programma Apollo e ha portato enormi miglioramenti nel design della navicella. Nessuno avrebbe imparato queste lezioni, forse, senza una tragedia del genere. Hanno aiutato gli astronauti americani a vincere la corsa alla Luna nel 1969, con l’Apollo 11.
Grissom, White e Chaffee non sono morti in vano, ha detto Tribe.
“Ho la sensazione personale che, senza la loro perdita nel 1967, non saremmo andati sulla Luna, letteralmente, perché ciò che abbiamo imparato dall’incidente ha reso il programma più sicuro,” mi ha detto.
Se l’incendio non fosse successo quando e dove è successo, nessuno avrebbe magari notato quei pericolosi difetti di progettazione finché non sarebbe stato troppo tardi, e magari avremmo mandato astronauti in orbita — o, peggio, sulla Luna — condannandoli a morte. È uno scenario che nessuno di quelli coinvolti nelle missioni Apollo ama prospettare, ma uno che di sicuro avrebbe determinato la fine del programma.
Invece, 18 mesi dopo l’incendio, la NASA ha lanciato l’Apollo 7, che ha completato la missione a cui sarebbe stato destinato l’Apollo 1. Otto mesi e tre missioni dopo, Neil Armstrong ha fatto un passo sulla superficie della Luna.
E nel 1971, l’equipaggio dell’Apollo 15 ha portato, in segreto, una piccola statua di un astronauta caduto e una placca, sulla superficie lunare. Era un tributo agli astronauti che hanno perso la vita nel dedicarla all’esplorazione spaziale, che hanno spianato la strada perché equipaggi come quello dell’Apollo 15 visitassero la Luna e tornassero a casa sani e salvi.
Ancora oggi, incastonata da qualche parte sulla superficie della Luna, si trova questa placca, con otto nomi incisi sopra. Tra di essi: Gus Grissom, Ed White e Roger Chaffee.
Per quanto riguarda mio nonno, invece, non ho mai avuto occasione di incontrarlo. Dopo aver lasciato la NASA, alla fine del programma Apollo nel 1975, si è goduto quattro anni di pensione, prima di morire di cancro al pancreas. Ma nella casa della mia famiglia, in Canada, c’è un tributo da tutti noi: a Henry e agli uomini che ha cercato di salvare. Conserviamo la sua medaglia per il coraggio straordinario, in una modesta cornice di legno.
Questo articolo è apparso originariamente su Motherboard US.