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Il muro di Padova: storia dimenticata del 'Bronx' della mia città

Il muro di Padova era stato costruito nel 2006 per isolare il ghetto di via Anelli, uno dei principali centri di spaccio del Nordest. Dopo lo smantellamento, rimane uno dei più clamorosi fallimenti legati all'immigrazione in Italia.
Leonardo Bianchi
Rome, IT

Dieci anni fa veniva sgomberato del tutto il complesso Serenissima di via Anelli, conosciuto come il "ghetto di Padova." In occasione dell'anniversario riproponiamo questo articolo di due anni fa, rispetto al quale non è cambiato ancora nulla.

A più di due decenni di distanza dal crollo del muro di Berlino, in Europa si sta tornando a parlare di muri—quando non direttamente a costruirli. Nonostante le polemiche e le condanne per la decisione del governo ungherese di erigere un muro anti-migranti, il premier Viktor Orban è in ottima compagnia: da Ceuta e Mellilla alla Bulgaria, passando per Calais, sempre più paesi europei stanno riesumando una pratica—quella della fortificazione dei confini—che si pensava ormai superata.

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Recentemente anche il premier Matteo Renzi è intervenuto sul tema, dicendo che "dobbiamo evitare il ritorno dei muri, noi che abbiamo visto l'Europa che i muri li buttava giù." In realtà, e senza bisogno di andare fino al confine tra Ungheria e Serbia, un muro l'ho visto costruire proprio nella mia città, Padova.

Si tratta, appunto, di quello che è passato alle cronache come il "muro di Padova" —una barriera di lamiera alta tre metri e lunga novanta metri tirata su nell'estate del 2006 dall'allora amministrazione di centrosinistra guidata dal sindaco Flavio Zanonato, che poi diventerà ministro dello sviluppo economico sotto il governo Letta. All'epoca, il "muro" si guadagnò parecchi reportage e articoli anche sulla stampa internazionale, compresi BBC e Guardian. Sul New York Times si parlò addirittura di "muro di Berlino di Padova."

A differenza di quello ungherese o bulgaro, che fondamentalmente serve a impedire l'ingresso ai migranti, quello di Padova aveva lo scopo di isolare una parte "infetta" della città—il famigerato ghetto di via Anelli, un complesso di sei palazzi (chiamato "Serenissima") che nel giro di una quindicina d'anni era diventato uno dei principali centri di spaccio del Nordest.

Per quanto degradata ed estrema fosse la situazione in quegli anni, nessuno pensava che si potesse arrivare a tanto. E in effetti, il muro di Padova è stato uno dei più clamorosi fallimenti politici e sociali legati all'immigrazione mai registratisi in Italia, nonché l'amaro epilogo di una situazione che si era incancrenita lentamente ma inesorabilmente.

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Per capire a fondo il muro, però, bisogna necessariamente ripercorrere la storia di quello che la stampa locale chiamava "Bronx" di Padova. Per farlo ho sentito la ricercatrice Francesca Vianello, che nel 2006 ha curato il libro Ai margini della città, un'approfondita ricerca sociologica proprio su via Anelli.

Il muro di via Anelli nel 2006. Foto via Wikimedia Commons

Il complesso residenziale—formato da 286 appartamenti di circa 30 metri quadri ciascuno—era stato costruito tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta per ospitare principalmente gli studenti. La zona in cui si trova è periferica, ma non troppo lontana dal centro e dall'università; inoltre, è circondata da centri commerciali, negozi e grandi magazzini.

"Possiamo dire che quello 'spazio segregato' è il frutto di processi strutturali," racconta Vianello. "Il ghetto si costituisce come tale agli inizi degli anni Novanta, quando di fatto incominciano ad arrivare i primi flussi migratori significativi in Veneto e a Padova in particolare."

La sostituzione degli studenti con i migranti avviene in tempi relativamente brevi. Quest'ultimi si trovano spesso in condizione di irregolarità, ma con l'aspettativa di una sanatoria, dato che all'epoca le leggi sull'immigrazione erano molto meno restrittive delle attuali. Inizialmente, dice Vianello, si tratta di un ghetto "funzionale," cioè "un primo punto d'approdo per queste persone che progressivamente, migliorando la loro condizione dal punto di vista giuridico e anche lavorativo, riescono ad andarsene dal ghetto e trovare delle situazioni migliori."

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Un po' alla volta, anche a causa dell'inasprimento delle norme sull'immigrazione e del maggiore afflusso di persone, il ghetto diventa "strutturale" e si riempie con più di mille persone, molte delle quali in subaffitto. Il "caso via Anelli" esplode definitivamente intorno al 1995. La tensione sociale nel ghetto sfocia sempre più spesso in "scontri armati nei quali si affrontavano etnie, religioni, tribù urbane," e nell'agosto del 1999—tanto per fare un esempio—si scatena una maxi-rissa tra nigeriani e tunisini che la polizia fatica a sedare.

La giungla di via Anelli. Da La Stampa del 15 settembre 1999.

Via Anelli, insomma, diventa il posto da evitare per eccellenza, e la copertura della stampa locale contribuisce a creare una sensazione di inferno in terra che coinvolge l'intera città. Come documentato in Ai margini della città, però, la vita nel ghetto era molto più complessa di quello che poteva apparire a prima vista.

"Noi stessi all'epoca siamo stati un po' ingenui," racconta la ricercatrice, "nel senso che ci siamo affidati alla rappresentazione generalizzata del ghetto." Una volta all'interno, il gruppo di ricerca si accorge di due questioni fondamentali. La prima è che "molte delle persone che giravano intorno alla spaccio non abitavano dentro al ghetto" ma venivano da fuori. I residenti del complesso, infatti, "erano persone che lavoravano dalla mattina alla sera, alcuni con famiglia, e che al limite partecipavano di questa attività illecita nel momento in cui o perdevano il lavoro, o avevano amici che prendevano parte a questa attività."

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Insomma, a gestire il traffico di stupefacenti non erano gli abitanti di via Anelli—che infatti, esattamente come i residenti italiani delle vie limitrofe, si lamentavano costantemente del degrado in cui erano costretti a vivere. Per evidenziare ulteriormente le numerose sfaccettature del ghetto, Vianello afferma che "nemmeno la divisione tra 'buoni' e 'cattivi' funzionava, perché comunque si cercavano coinvolgimenti e sostegni reciproci dovuti alla situazione precaria che tutti vivevano."

L'altra questione fondamentale è che, nonostante lo spaccio, il degrado e le condizioni igieniche disastrose, per queste persone il ghetto era diventata una risorsa. Anzitutto, in assenza di politiche abitative, via Anelli offriva la possibilità di avere una casa a chi arrivava a Padova e non sapeva dove andare. Paradossalmente, poi, veniva garantito l'accesso a "servizi essenziali" (medici, legali o di volontariato) messi in campo proprio perché era un ghetto. Inoltre, c'era la non scontata possibilità di avere una vita sociale sia negli appartamenti (in alcuni c'erano dei bar informali) che nel piazzale di cemento del complesso.

Nonostante la criminalità e le difficili condizioni di vita, per diverso tempo il ghetto aveva fatto comodo—soprattutto, come sostiene Vianello, a quelli che hanno cominciato a "lucrarci" sopra. I proprietari degli appartamenti, ad esempio, affittavano a prezzi assolutamente folli. Gli amministratori della città (sia di destra che di sinistra) prima hanno sostanzialmente ignorato il fenomeno—erano troppo preoccupati a risanare Prato della Valle e il centro storico—salvo poi usare via Anelli come "cassa di risonanza" per iniziative elettorali. E infine, sempre secondo la ricercatrice, "tutta una serie di figure ha cominciato a ruotare e fare affari intorno al ghetto."

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Dal punto di vista dell'ordine pubblico, invece, via Anelli permetteva da un lato di circoscrivere lo spaccio, e dall'altro di "testare" nuove tattiche d'intervento. Nel corso degli anni, infatti, si sono fatte retate clamorose—persino con elicotteri e agenti calati sui tetti—e si sono sperimentati presidi permanenti e checkpoint.

Tuttavia, alla spettacolarizzazione non sempre seguivano risultati concreti—anzi, le retate avevano l'effetto di spaventare a morte i residenti dei palazzi. Questa circostanza, naturalmente, provocava un grande senso di frustrazione nelle forze dell'ordine.

Lo dice chiaramente un poliziotto intervistato nel libro: "Fa comodo avere una via Anelli da tirare fuori quando serve. Ci mandano là, ma mica per risolvere il problema. Così magari ogni tanto si arrestano un po' di persone, che poi escono subito, e si può fare l'articolo sul giornale. Oppure quando trema la sedia di qualcuno. […] Forse siamo dei burattini nelle mani di chi poi usa i dati e parla di contrasto alla criminalità."

Arresti in via Anelli. Grab via YouTube

Sebbene non si possa certamente parlare di una pianificazione a tavolino del ghetto, a un certo punto la situazione è completamente sfuggita di mano. Intorno al 2003 il "caso via Anelli" assume una valenza nazionale, e il malcontento generalizzato della città non è più arginabile. Nel 2005 la giunta Zanonato inizia così il processo di "desegregazione" e sgombera la prima palazzina, tra le resistenze e i ricorsi al Tar dei proprietari.

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Ma i problemi non finiscono qui. Nell'estate del 2006, infatti, la situazione precipita ulteriormente. Il 26 luglio scoppiano dei pesantissimi scontri—con tanto di machete e roncole—tra centinaia di cittadini nigeriani e maghrebini, e la polizia interviene con i lacrimogeni per placarli. Le cronache locali parlano di "guerra in via Anelli," e l'operazione di polizia porta all'arresto di più di venti persone per devastazione e saccheggio, al sequestro di diverse armi da taglio e di un chilo di cocaina.

È proprio dopo questi scontri che la giunta di centrosinistra opta per la costruzione del fatidico muro tra via Anelli e via De Besi. "Come a Berlino nell'agosto del 1961," si legge in un articolo del Corriere della Sera, "gli operai hanno fatto tutto in poche ore." Il 9 agosto del 2006, quindi, la città si risveglia con quello che qualcuno bolla come il "muro della vergogna" e gli occhi della stampa mondiale puntati addosso. "Il Muro dei clandestini: Padova si divide in due," titola Repubblica. "La resa di Padova: un muro per ghettizzare gli spacciatori," fa eco La Stampa.

Il sindaco Flavio Zanonato—sostenuto anche da esponenti dell'allora governo Prodi come il ministro delle politiche sociali, Paolo Ferrero—difende a spada tratta la sua decisione. "Non nego che sia una misura forte, ma la situazione è gravissima," dichiara in un'intervista. "Quel 'muro' è solo una barriera che impedisce agli spacciatori e ai loro clienti di vendere e comprare droga sotto le finestre di cittadini che hanno diritto a tranquillità e sicurezza. […] Io voglio rendere difficile la vita a chi vende la droga. È forse razzismo questo?"

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Francesca Vianello ricorda nitidamente come, all'epoca, "quel tipo di soluzione abbia preso alla sprovvista un po' tutti." Visto che gli sgomberi delle palazzine erano già iniziati, e si sapeva che il ghetto sarebbe stato chiuso di lì a poco, la ricercatrice e i suoi colleghi si sono chiesti più volti a cosa servisse veramente quel muro.

"Può anche essere che il muro sia stato costruito non tanto per rassicurare chi stava fuori, ma per impedire a chi era fuori di andare dentro," spiega Vianello. "Io credo che, al di là della risonanza, il muro sia stato più che altro funzionale alla chiusura del ghetto."

Quest'ultimo è stato effettivamente smantellato—insieme al muro—un anno dopo, più precisamente nel luglio del 2007. La chiusura è stata accompagnata da un'ordinanza, tutt'ora in vigore, che prevede il divieto d'accesso a chiunque, compresi i proprietari. Per capire come è stata portata avanti la "desegregazione" di via Anelli—e se questa abbia effettivamente funzionato—ho dunque interpellato Claudia Mantovan, co-autrice e curatrice del libro Il ghetto disperso.

La ricercatrice sottolinea subito il "doppio registro" della chiusura del ghetto: da un lato c'è stato il trasferimento dei migranti regolari in case popolari o case in affitto a prezzi calmierati; dall'altro, però, lo spostamento dei "regolari" è stato accompagnato dall'"operazione repressiva verso quelle componenti più marginali dell'immigrazione e della devianza." Si è dunque cercato di "includere la componente regolare" e di espellere definitivamente quella "irregolare," anche se "le condizioni di irregolarità spesso non sono volute."

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Il bilancio finale del progetto, comunque, è tutto sommato positivo. "L'intervento a un certo punto andava fatto, perché la situazione era veramente degradata da un punto di vista strutturale," dice la ricercatrice. Spostare gli abitanti di via Anelli ha "tolto quel fattore di stigma" associato alla residenza e "li ha fatti sentire più integrati nella città." Tuttavia, non è andata bene a tutti: chi aveva lavori precari o ha perso il lavoro, è stato costretto a trovarsi un'altra sistemazione una volta finito il supporto per l'emergenza abitativa. Per Mantovan, quindi, misure del genere non sono "sufficienti di per sé," perché "se non risolvi i fattori che sono alla base della marginalizzazione di queste persone, poi i ghetti si ricreano inevitabilmente."

Alcune associazioni impegnate sul campo—che pure ritenevano necessaria la chiusura del ghetto—hanno avanzato forti critiche alle modalità di intervento, che tra l'altro sono state oggetto del documentario Via Anelli, la chiusura del ghetto .

"In poco tempo quella per il superamento del ghetto di Via Anelli è diventata questione di polizia e mezzi blindati," si legge sul sito MeltingPot, e il "processo di emancipazione" si è trasformato "nella più grande operazione di controllo e repressione dei migranti che la città di Padova abbia mai conosciuto." Il ghetto, insomma, "si è dissolto in città riproducendo sull'intero tessuto urbano l'esclusione che lo caratterizzava."

Via.

Ma cosa ne è di via Anelli nel 2015? Attualmente, il complesso "Serenissima" è ancora un buco nero nella città—i palazzi sono completamente murati e versano in uno stato di abbandono da quasi dieci anni, visto che la tanto sbandierata riqualificazione della zona non è mai iniziata.

Lo scorso aprile il neo-sindaco leghista Massimo Bitonci aveva lanciato l'ultimatum ai proprietari degli appartamenti, dicendo che o si trovava una soluzione, oppure sarebbero partiti gli espropri del Comune. Alla scadenza fissata al 30 giugno, però, le risposte sarebbero state troppo poche. "A settembre partiranno gli espropri," ha dichiarato Bitonci. "Faremo un nuovo progetto di edilizia residenziale pubblica oppure, con il rettore, una residenza universitaria." Poi, ha aggiunto il sindaco, "finalmente faremo brillare quei fabbricati."

Da un certo punto di vista, quindi, quello di demolire ciò che resta del ghetto è la soluzione più "logica" per mettere fine a una vicenda gestita in maniera catastrofica, ma che rimarrà per sempre una ferita nella memoria collettiva della città e il simbolo dell'integrazione fallita.

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