Quando Elliott Smith salì sul palco degli Academy Awards nel 1997, avvolto da un completo bianco, con in mano una chitarra e le parole di “Miss Misery” in testa, stava vivendo un sogno. Solo, non era il suo. Gus Van Sant gli aveva chiesto di scrivere una canzone originale per il suo nuovo film, Good Will Hunting, una tragedia su un ragazzo prodigio interpretato da un giovane Matt Damon. Lui lo aveva fatto, e pure bene. Ma non era quello il suo posto, non era lì che si sentiva di dover stare. Per Smith, la fama era quasi solo l’effetto collaterale della depressione che cercava di coprire con il sottile velo nero del folk. Le luci di Hollywood, splendendoci sopra, non fecero che renderlo trasparente, e svelarlo in tutta la sua fragilità.
Anche Sufjan Stevens avrò presto a che fare con gli Oscar, anche se non li ha mai guardati. È stato assoldato da Luca Guadagnino, che gli ha chiesto di scrivere due canzoni per il suo nuovo film Call Me By Your Name, cioè Chiamami col tuo nome, una storia d’amore ambientata nelle campagne del nord Italia. Anche lui, come Smith, ha stretto un legame tra le coltellate emotive della sua vita privata e la forma folk. Ma mentre Smith, con le sue ballate di grande nulla, annaspava cercando di restare a galla nel mare infuriato della sua mente, Stevens cerca di unire tutte le persone che lo ascoltano in un immaginario, immenso abbraccio. Che si tratti di mettere in forma-canzone la storia lacerante della sua famiglia, la bellezze e le contraddizioni degli Stati Uniti, il mistero dell’amore o quello di Dio, la fratellanza o la tradizione, Sufjan canta sia per se stesso che per chiunque altro. Non per vedere o farci vedere più chiaramente come funzioniamo, che quello non si può sapere: solo per prendere il più persone possibile sotto le sue ali (quelle d’angelo o di farfalla che indossa sul palco), e creare un canzoniere universale in cui la storia degli uomini, e di ogni singolo uomo, può sembrare meno spaventosa nella sua indecifrabilità.
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“Mystery of Love” e “Visions of Gideon” saranno per molti il primo passo da compiere in un’immaginaria passeggiata per l’ampia discografia di Sufjan. Sono entrambe un buon punto d’inizio, due sussurri di gioiosa incertezza. Ma non possono raccontare la vastità della sua idea musicale, che ho provato a riassumere brevemente qua sotto.
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Ebbe una grande idea, Sufjan, poco dopo l’inizio del nuovo millennio. Non scrivere il Grande Romanzo Americano™, ma quasi: comporre un album per ogni stato della sua nazione. Lo chiamò il 50 States Project e ci si mise a lavorare di buon impegno. Quello che uscì, prima dell’inevitabile presa di coscienza dell’assurdità del progetto — un’imposizione artistica al resto della propria carriera, a tutti gli effetti — furono due capolavori. Il primo, Michigan, aveva due volti: uno annerito e decrepito come Detroit, dove Sufjan è nato, e uno quieto e rassegnato come le enormi campagne che riempiono i suoi confini. Il secondo, Illinois, un album troppo importante per essere spiegato ampiamente in questa sede, era invece un’epica festosa e sgangherata che saltellava di qua e di là nel tempo per raccontare delle speranze del passato e delle paranoie del presente.
È qua che si trovano quella novella di viaggio e rimpianto che è “Chicago”, l’abbraccio ai disoccupati e sottopagati sul punto della resa che è “Flint”, la tenera e innocente carnalità di “The Predatory Wasp of the Palisades Is Out to Get Us!” e la scoppiettante giostra capitalista con visione ectoplasmica annessa di “Come On! Feel the Illinoise!”. La forma musicale cambia di canzone in canzone in maniera festosa e irruente, tra chitarre, tastiere, trombe, archi, coretti e pinzillacchere varie. A restare costante è la qualità dei testi di Sufjan, che canta di Adlai Stevenson e dell’Esposizione Universale del 1932 con la stessa passione con cui racconta di macchine a forma di pollo, pattinatrici sul ghiaccio come eroine moderne e UFO che assomigliano a Dio.
Il Sufjan folksinger contemporaneo compare anche in “Eugene”, l’unico barlume di luce in Carrie and Lowell, l’album in cui narra la storia della malattia e della morte di sua madre. Ed è lì che appare perché esprime un sentimento che contiene, anche solo in piccola parte, una dolcezza: raccontando del suo patrigno, che non sapeva pronunciare il suo nome, e di come gli insegnò a nuotare durante i brevi periodi in cui vedeva sua madre d’estate, Sufjan dedica a una località dell’Oregon gli unici momenti di gioia in un album altrimenti gloriosamente doloroso. Perché Carrie sarebbe impazzita, e fuggita di casa, e si sarebbe abbandonata all’alcool, e poi sarebbe morta. E il Sufjan che canta di quelle cosa è un altro Sufjan.
Playlist: “Flint (For the Unemployed and Underpaid)” / “The Predatory Wasp of the Palisades Is Out to Get Us!” / “Come On! Feel the Illinoise!” / “The Upper Peninsula” / “Adlai Stevenson” / “Chicago” / “Springfield or, Bobby Got a Shadfly Caught in His Hair” / “No Man’s Land” / “Eugene” / “Concerning the UFO Sighting Near Highlands, Illinois” / “Decatur or, Round of Applause for Your Step-Mother!” / “Tonya Harding (In D Major)”
Forse ti interessa: Sufjan Stevens, esploratore del dolore e del male
Quello di Carrie and Lowell è il Sufjan più difficile da ascoltare, a patto che si capisca l’inglese (e se non lo capite, potete ovviare qua). Uscita l’orchestra dal palco, spente le macchine e svuotata la testa, Sufjan resta spesso solo con sé stesso e qualcosa che emette suoni, e quello che viene fuori è straziante. “Moriremo tutti”, ripete dolcemente in “4th of July”, giorno di festa e della morte di sua madre—”mia stella nel cielo”, “mia libellula”, la chiama. La stessa opposizione tra la dolcezza della festa e il dolore della morte torna in “Casimir Pulaski Day”, su Illinois, in cui un amore adolescente e un cancro alle ossa si scontrano con l’ottusità della fede nel giorno in memoria del padre della cavalleria americana.
Ecco, la fede. Nella concezione artistica di Sufjan, il rapporto con Dio è fondamentale quanto fumoso. È una protezione dal dolore, la promessa di una comunità, ma non per questo una garanzia di piacere. Il dolore esiste, e quando è troppo la fede traballa fino a rivelare il suo scheletro contraddittorio. “There’s no shade in the shadow of the cross”, canta Sufjan nel suo momento più basso, quando nemmeno Dio sembra poterlo proteggere dall’afa del male, potergli spiegare perché sua madre lo ha privato di una madre, regalandogli invece bottiglie d’alcool e pensieri suicidi—quelli di “The Only Thing”, per esempio.
Il dolore, in Sufjan, diventa anche violenza, da raccontare perché non venga dimenticata e perché qualcuno possa trovarci un senso universale: proprio come succede nel folk. È in primis psicologica e passiva: quella della famiglia dal natale rovinato di “Did I Make You Cry On Christmas Day?”, per esempio: “Astro del ciel / Pargol divin / Niente sembra al suo posto”, cantano assieme. Oppure quella dei ragazzi che narrano “The Owl and the Tanager” e “Happy Birthday”: nella prima, una ballata gotica tratta dall’EP All Delighted People, si parla di pugni, tradimenti, risate malate e sonni umidi, mentre la seconda è una deprimente auto-pacca sulla spalla quando “la vita è ansiosa, la vita è ingiusta”. In secondo luogo, la violenza può farsi fisica e attiva: come in “John Wayne Gacy, Jr.”, il serial killer pittore che, vestito da clown, uccise e nascose nella sua casa 33 ragazzi, o in “Kill”, tratta da A Sun Came, la cui voce narrante concepisce l’omicidio come unica possibile fonte di pace.
Playlist: “4th of July” / “Casimir Pulaski Day” / “Kill” / “John Wayne Gacy, Jr.” / “I Want to Be Well” / “Justice Delivers Its Death” / “No Shade in the Shadow of the Cross” / “The Only Thing” / “That Was the Worst Christmas Ever!” / “Did I Make You Cry on Christmas Day? (Well, You Deserved It!)” / “The Owl and the Tanager” / “Happy Birthday”
Forse ti interessa: Sufjan Stevens, compositore
Come suggerivano gli arrangiamenti di buona parte di Illinois, definire Sufjan esclusivamente un cantante folk sarebbe riduttivo. La sua è una delle figure che si sono posizionate al confine tra il mondo dell’indie chitarristico nordamericano e quello della classica contemporanea, quella “New American Music” che Bryce Dessner dei National ha cristallizzato nell’omonima rassegna da lui curata al Barbican Centre di Londra nel 2015. In quell’occasione, Dessner proiettò “Round-Up” di Stevens, colorata esplorazione audiovisiva della tradizione del rodeo—ma il punto migliore da cui partire per esplorare il Sufjan compositore è The BQE, film-e-colonna sonora sulla Brooklyn-Queens Expressway, arteria che attraversa New York e Stevens immagina come frenetico parco giochi della produttività americana.
Il Sufjan compositore è però al massimo della sua brillantezza quando fa capolino tra tutti gli altri Sufjan: nei brevi intermezzi pianistici, orchestrali e rumoristici che marcano l’incedere di Michigan, Illinois e della raccolta di b-side The Avalanche. Sono piccoli sfarfallii sonori, solitamente dai titoli più lunghi della loro effettiva durata, splendidi sia che si tratti di cristalline evocazioni di scorci naturalistici che di riscaldamenti sonori che Sufjan fa per sgranchirsi la creatività prima di cominciare la corsa che sono le sue vere canzoni.
Playlist: “Movement I – In the Countenance of Kings” / “Movement VI – Isorhythmic Night Dance with Interchanges” / “Even the Earth Will Perish and the Universe Give Way” / “Out of Egypt, Into the Great Laugh of Mankind, and I Shake the Dirt Off My Sandals As I Run” / “Redford (For Yia-Yia and Pappou)” / “Alanson, Crooked River” / “Kaskaskia River” / “The Palm Sunday Tornado Hits Crystal Lake” / “The Undivided Self (for Eppie and Popo)”
Forse ti interessa: Sufjan Stevens quando si sente super ambizioso (e magari in fissa con l’elettronica)
Il Sufjan compositore si sovrappone, in un certo senso, a quello ambizioso. È quello più vulcanico e ardito, lo stesso che aveva concepito il 50 States Project e si era convinto di poterlo portare a termine. Solo, su scala minore. È nei momenti in cui si è allontanato di più dalla chitarra che Sufjan ha lasciato spazio a questo suo lato, e quindi in particolare in The Age of Adz. Arrivato cinque anni dopo Illinois, nel 2010, Adz fu un album spiazzante, foderato di tastieroni al neon, ritmi spezzati, cori lancinanti, idee fluorescenti, coreografie sul palco, tricche e ballacche varie. Dopo essersi dipanato in mille direzioni, si concludeva con i monolitici 25 minuti di “Impossible Soul”, una sorta di super-monologo in cui Sufjan cerca di parlare a sé stesso per capire come può fare a stare bene in mezzo all’ipereccitazione dell’era della pubblicità del titolo—estremo opposto del semplice tempo senza tempo della tradizione.
Il Sufjan super ambizioso si manifesta anche nell’ermetico e introverso concept strumentale che è Year of the Rabbit, opera mezza noise mezza sound art composta in onore dello zodiaco cinese che è, ad oggi, il suo lavoro più inaccessibile; ma anche nei dieci sconnessi minuti di “Earth” (tratta dal suo progetto Planetarium assieme a Bryce Dessner dei National, al compositore newyorkese Nico Muhly) e nei 17 di “Djohariah”, suite chitarristico-psichedelica dedicata alla sorella minore. È quando riesce a contenere il minutaggio che risulta, però, più efficace: come nella corsa sfrenata di “Dear Mr. Supercomputer”, tratta da The Avalanche, o nel sintetico quarto movimento di The BQE, “Traffic Shock”.
Playlist: “Impossible Soul” / “Dear Mr. Supercomputer” / “Age of Adz” / “Movement IV – Traffic Shock” / “Christmas Unicorn” / “Year of the Monkey” / “Year of the Dragon” / “Djohariah” / “Earth” / “Jason” / “Get Real Get Right”
Forse ti interessa: Sufjan Stevens quando canta d’amore (o di Dio, chissà)
“Mystery of Love” spiega bene perché le canzoni d’amore di Sufjan funzionano: perché non si capisce mai se parlano di una relazione (o di un’amicizia, o di una fratellanza?) tra un uomo e una donna, un uomo e un altro uomo, o un essere umano e Dio. Una relazione non detta si svolge nella natura dell’Oregon, che è in quanto naturale è come quella di Crema, ed è messa letteralmente nella “mano di Dio” con una richiesta di salvezza dal “mistero dell’amore”, che è carne e anima, che è infelicità ma anche benedizione.
La stessa tensione compare in due dei momenti più dolci di Seven Swans, l’unico album in cui Sufjan ha lasciato la totalità del suo spazio lirico alla presenza divina – che sembra però prendere corpo, e crucciarsi degli stessi crucci che affossano i cuori degli uomini. “To Be Alone With You”, dice Sufjan: ma tu, amore mio, o tu, mio Signore? E in chi è che “vede tanta vita”, nel ritornello di “The Dress Looks Nice On You”? Per chi è che “farebbe tutto” in “For the Widows in Paradise, for the Fatherless in Ypsilanti”, tratta da Michigan?
Le sfumature, insomma, sono parte fondamentale del modo in cui Sufjan concepisce l’amore: conferma ulteriore è “The Predatory Wasp of the Palisades Is Out to Get Us!”, struggente ricordo d’infanzia tratto da Illinois che parla di un abbraccio tra amici (o fratelli, o qualcosa di più), suggellato dalla puntura di una vespa durante un’escursione. O anche “Futile Devices”, da The Age of Adz, una dichiarazione d’amore (“anche se stupida”) per un fratello per cui le parole sono, appunto, solo “futili dispositivi”. Tutto questo non esclude la presenza di espressioni più dirette nel canzoniere romantico di Sufjan: “I Walked” è un esercizio di contrasti tra musica e testo, un beat che sembra scoppiare come un millebolle su cui si appoggia, nudo, un rimpianto. “Too Much” esprime per affaticamento la schiacciante grandezza dei sentimenti. “Heirloom” parla di un litigio, di una gioia che passa velocemente che può essere forse ritrovata solo con un bacio mozzafiato.
Playlist: “To Be Alone With You” / “Mystery of Love” / “The Dress Looks Nice On You” / “Futile Devices” / “Too Much” / “I Walked” / “Heirloom” / “For the Widows in Paradise, for the Fatherless in Ypsilanti” / “Rake” / “The Predatory Was of the Palisades Is Out to Get Us!” /
Forse ti interessa: Sufjan Stevens che parla di fede e di Dio e di Gesù e dei santi
Come abbiamo detto più volte, la fede è un concetto centrale nella poetica di Sufjan: le canzoni che la narrano senza legarla ad altri temi meritano quindi una trattazione a sé stante. Da quello che lascia trasparire, per Sufjan la fede è una conseguenza naturale della tradizione che alimenta il suo fuoco creativo, con il beneficio di un senso di ancoraggio in mezzo alle onde della vita. È nelle note acustiche e rade di Sevens Swans che tutto questo raggiunge il suo culmine: nella violenza divina della parabola di “Abraham”, nel magniloquente miracolo di “The Transfiguration”, nel risveglio glorioso di “He Woke Me Up Again”, nel combattimento dell’anima di “We Won’t Need Legs to Stand”.
“The Seer’s Tower”, tratta da Illinois, è invece un brano più cupo, a creare un senso di distanza dalla spensieratezza del gioco di parole del titolo. Su un tappeto sonoro ridotto a pochi fili, Sufjan canta di “una torre sopra la Terra”, su cui sta “Emanuele delle madri”, da cui vede l’universo, “il fuoco”, “la fine”. È il lato tetro del credo, la certezza di un paradiso ma quindi anche di un inferno, e l’ansia della conferma che arriverà solo nella “tomba più profonda”, dove Sufjan dice di “andare a dormire, da solo”. È lo stesso sentimento evocato dalla title track del suo esordio A Sun Came: “C’è ancora un Dio, ma non mi sono mai sentito così solo”.
Infine, la fede di Sufjan si esplicita nel suo lato più spensierato nelle sue annuali Songs for Christmas, raccolte di canti della tradizione e pezzi originali originariamente pensati per essere regalate ad amici e parenti, e poi finite stampate in due cofanetti dedicati. Per lui fede è tradizione, dicevamo: il Natale è la festa perfetta per esprimere il loro inscindibile rapporto.
Playlist: “Abraham” / “Seven Swans” / “The Seer’s Tower” / “O Come O Come Emmanuel” / “The Transfiguration” / “He Woke Me Up Again” / “We Are What You Say” / “We Won’t Need Legs to Stand” / “Come Thou Fount of Every Blessing” / “A Sun Came”
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