L’uomo che recupera i corpi dei suicidi nella metropolitana di Città del Messico

“Uno si abitua a vedere queste cose,” mi dice Joel mentre beve un sorso di birra. “C’è sempre il momento in cui mi si chiede se non mi faccia schifo, se non mi faccia paura. E io dico: ‘No, ormai ci sono abituato’. La verità è che il mio lavoro mi piace talmente tanto che a volte quasi aspetto che succeda.”

Poi esplode in una sonora risata che fa sparire l’aria rozza dal suo viso gonfio e adombrato dalla barba. Corrisponde perfettamente allo stereotipo della persona che per lavoro ha a che fare con la morte: è alto quasi un metro e ottanta e ha dei lineamenti duri. Indossa una maglietta nera di un gruppo heavy metal, col nome stampato sopra in caratteri gotici. Però c’è una cosa che contrasta con questa immagine: la voce, leggermente acuta.

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“Mi raccomando, non mettere il mio nome. Di’ che mi chiamo Joel, che si fotta quel coglione,” e ride di questa sua ingiuria che allude al direttore della metropolitana di Città del Messico, Joel Ortega.

Anche se ha un aspetto rude, è un padre di famiglia premuroso. Oggi è venerdì, e non lavora. Ha deciso così. Ha informato il suo capo che non sarebbe andato né oggi, né sabato. “Vediamo come fanno,” dice, con la sicurezza di qualcuno che sa di essere indispensabile. Vuole riposarsi almeno un paio di giorni: è già molto stanco, fa il turno di notte e sta facendo ore extra. La metro non dà tregua.

Chiede una birra a sua moglie che sta preparando la cena per lui e i figli, una ragazza adolescente e un bambino di nove anni. Quest’ultimo guarda una partita di calcio, e quando dico “guarda” intendo in senso letterale, perché Joel ha abbassato completamente il volume in modo da non essere disturbato mentre parla. Infatti sta per parlarmi di una cosa importante: il suo mestiere.

“Ci occupiamo di qualsiasi situazione possa capitare in metro, dentro e fuori. Dobbiamo occuparci di tutto, dalla persona che cade sulle scale alle piccole infiltrazioni d’acqua, per dirti le cose più leggere; tra l’altro fuori dalla stazione ci sono molti venditori ambulanti che si portano dietro le bombole del gas, e a volte ci sono fughe di gas o incendi; poi magari ci sono dei cortocircuiti, o dei principi d’incendio. La cosa più forte però, è quando qualcuno si butta sotto il treno.”

Joel nota che manca qualcosa a tavola, e sollecita la moglie. “Cosa penseranno gli ospiti?” dice scherzando mentre stappa un’altra birra scura.

“Appena qualcuno si butta ci avvisano, che sia per radio o per telefono. E quando succede noi ci attiviamo. Abbiamo un’unità, la PC01, l’unità d’emergenza, sembra un’ambulanza. Unità di Recupero Urbana, si chiama. Prendiamo, e in cinque o più andiamo fino alla stazione dove ci è stato detto che è avvenuto l’incidente. Una volta sul posto il processo è: primo, una parte del gruppo si occupa di allontanare le persone, non deve rimanere più nessuno, poi due o tre di noi scendono a livello dei binari. Per prima cosa si controlla se la vittima è viva. Se ne occupano la sicurezza o la Croce Rossa. Se è viva, il treno non si muove. Si controlla se si può estrarre il corpo. Se è rimasto agganciato al treno abbiamo dei cuscinetti idraulici, e quando li posizioniamo il treno viene alzato. Ovviamente non di molto, circa due, tre centimetri, però ci aiuta. Una volta estratto il corpo lo mettiamo su una barella, e lo portiamo direttamente in ambulanza; quelli poi se lo portano via e lì finisce il nostro lavoro. Se invece la vittima è morta la portiamo sulla banchina, poi la trasferiamo e lasciamo che a fare il lavoro siano le autorità. Il fatto è che bisogna metterla dove non sia in vista, perché la gente è molto morbosa, e vuole sempre fare delle foto o fare casino.”

Joel si accorge del mio sguardo dubbioso. Non avevano già fatto uscire tutti dalla stazione proprio per questo motivo? Quindi, con pazienza, come se fossi un bambino a cui bisogna spiegare tutto, mi dice:

“Quando riapriamo la stazione la gente sa che è successo qualcosa. E a volte non vogliono proprio andarsene. Di fatto la stazione è chiusa. Questo per evitare le foto e che la gente ingombri. Ma molte volte sono gli stessi poliziotti a fare delle foto, li abbiamo visti, e quelle immagini sono quelle che usciranno sui giornali. Dopo che il corpo viene portato in bagno si fa spostare il treno per verificare che non ci siano resti sulle rotaie. Se è rimasto qualcosa, si raccoglie e si mette in una borsa, poi si spruzza la schiuma chimica dell’estintore per coprire i segni e togliere l’odore.

Dopodiché la stazione riapre. Quando invece il corpo è a pezzi, si inizia usando un sacco della spazzatura.” Il tono di voce cambia, sembra addolorato. “Non possiamo fare di più; usiamo il sacco della spazzatura perché è quello che ci danno. Non abbiamo altro. Una volta liberate le rotaie diamo il via per la ripresa del servizio.”

Poco a poco il piccolo appartamento di Joel si riempie dell’odore di olio e mais fritto. Bevo un sorso di birra per dissimulare il mio appetito.

“Quanto tempo passa? Dipende. Io sono molto veloce,” dice con un gesto di soddisfazione di chi sa che non ha rivali. “Per esempio, dall’ufficio nei pressi della stazione di Cuauhtémoc (vicino al centro città), a Rosario (all’estremo nord del Distretto Federale), ci mettiamo sette minuti. Tempo che scendiamo, recuperiamo il corpo e tutto, ci vorranno altri dieci minuti; in 25 minuti la stazione è già libera. Però ci sono colleghi che ci mettono di più: non gli piace fare le cose in fretta, ci sono volte in cui ci vuole più di un’ora per riaprire.”

Sul tavolo c’è una radio, che è praticamente diventata un’estensione del corpo di Joel. Non se ne separa mai, e quando è in famiglia la spegne solo perché lo obbliga sua moglie. Però, anche così, se la porta sempre dietro.

“Sì, come no, mi ricordo della mia prima emergenza. Fu tre anni fa più o meno, a Revolución. Era di sesso maschile (non un uomo, di sesso maschile, così come si utilizza nel gergo degli addetti alla sicurezza). C’erano anche i pompieri, perché lì vicino c’è la caserma. Ero emozionato, e allo stesso tempo pensavo ‘La mia prima vittima… Come mi comporterò?’ Quando arrivai i pompieri avevano quasi finito di raccogliere i resti. Mi toccò ricevere il corpo. Quando salii sulla banchina chiesi: ‘Avete già terminato, colleghi?’, e quelli: ‘Sì’. Poi mi passarono una borsa piena di resti [fa un gesto per darmi un’idea della dimensione]. Io non volli né aprirla né niente. Così come me la diedero io la consegnai a chi di dovere. Mentre il mio primo schiacciato, voglio dire quello per cui toccò a me scendere e raccogliere i pezzi, fu a Insurgentes, due anni e mezzo fa, forse un po’ di più. Due donne si erano buttate nello stesso momento; poi scoprimmo che erano madre e figlia. Erano state fatte a pezzi. Toccava a me scendere, e toccò sempre a me estrarre i pezzi e portarli su. Feci la stessa operazione per due volte, mettere il corpo in barella, raccogliere i pezzi e portarli via. E quello stesso giorno, arrivato a casa, stavo per mettermi a tavola… è vero? [guarda la moglie, che annuisce] e mi chiamano alla radio: ‘Vieni che qui a Lomas Estrella c’è un’altra che si è buttata’. Quando arrivai l’avevano già tirata fuori. In un giorno me ne toccarono tre. E tre donne, per di più. Furono le prime persone che recuperai, e da lì in poi, uno dopo l’altro.” Dal suo tono di voce traspare soddisfazione per il lavoro compiuto.

Joel fa un sorso di birra. Tanto parlare gli ha messo sete. Sua moglie comincia a servire la cena. Prima ai figli, un po’ inquieti, sopratutto il più piccolo che stasera straordinariamente cenerà in sala.

“Sì, sì mi è capitato un bambino,” continua Joel. La sua espressione cambia. Si accomoda sulla sua sedia, si sporge in avanti, come chi sta per raccontare un segreto. “Il 24 dicembre dell’anno scorso. Eravamo di guardia, ormai stavamo per andarcene. In realtà mi stavano aspettando loro a casa di mia madre [fa un cenno verso la famiglia]. Alle nove di sera, più o meno, ci chiamano al telefono. Poi sentiamo per radio di un’emergenza nella stazione di Ciudad Azteca, sulla linea B. Però non ci dicevano che cos’era, e noi sollecitavamo l’operatore perché ci spiegasse. Poi il capo ci mandò un messaggio: ‘Ehi, che succede a Ciudad Azteca, perché chiedono rinforzi?’ Nessuno diceva niente, così partimmo. Il problema è che in quella zona non può scendere nessuno finché non arrivano le autorità. Nel Distretto Federale non è così, quando qualcuno si butta in metro la protezione civile ha l’autorizzazione a scendere, recuperare la persona, viva o morta, e liberare la via così che la circolazione possa continuare. Lì invece deve arrivare prima un funzionario, fare delle foto per il perito e dare quindi l’autorizzazione a rimuovere il corpo.”

“Arrivammo là e sì, c’era un bambino di cinque anni.” Sembra dubbioso sull’età, ma poi conferma. “Cinque anni. Ci dissero che stava camminando con la madre e con il fratellino. Stavano scendendo le scale, e il treno stava chiudendo le porte, così si erano messi a correre. La madre riuscì a salire e quando si voltò si rese conto che mancava uno dei due bambini. Dopo un mese o due mi ritrovai di nuovo in zona per un’emergenza, e una poliziotta mi disse che la madre aveva picchiato il fratellino perché diceva che lo aveva spinto lui, per gioco. Però la colpa non è dei figli, ma dei genitori. E per la cronaca, per me fu una cosa molto brutta da vivere, perché, come vedi, anche io ho un figlio piccolo.”

Joel guarda il figlio che mangia le sue enchiladas mentre fa finta di seguire la partita, poi guarda la moglie, che gli sta di fronte pronta a correggere qualsiasi sbaglio nella storia del marito. Conosce tutti i dettagli del suo lavoro. Stanno insieme da più di 15 anni.

“Lei mi chiedeva: ‘A che ora torni?, hai visto che ore sono?’ Non sapeva niente. Erano le nove, me lo ricordo perché ci stavamo preparando per andare a cena. L’unico che sarebbe rimasto era il nostro capo, e dato che non ci sta molto simpatico dicevamo: ‘Dai, che stasera se le becca tutte lui, il coglione’. E poi vedi, ci toccò a noi occuparcene. Tornammo a casa alle 11. A mia moglie avevo detto che avevamo avuto un’emergenza. Quando arrivai a casa di mia madre stavo male. Non avevo voglia di festeggiare. Vedere un bambino di cinque anni in quello stato… quando venne data corrente al treno per muoversi, il corpo era ancora sotto. Venne su un sacco di fumo. E quell’odore, di carne bruciata. Ce andammo zitti, con la camionetta. Di solito facciamo casino quando siamo in camionetta. Quella volta no. Quel giorno eravamo tutti zitti. Fu una notte molto brutta. Non riuscimmo a riuscimmo a restare distaccati.”

Di nuovo gli lancio uno sguardo dubbioso. Come ci si può distaccare da una cosa del genere?

“Sarò sincero. Quando si buttano e li tiriamo fuori, diciamo: ‘Povero diavolo’. Mia moglie mi chiede ‘Perché lo fai?’ Perché riesco a distaccarmi. Se iniziassi a pensare che è una persona passerei tutti i miei giorni in lacrime. Smetterei di mangiare. Ho dei colleghi che si rifiutano di scendere o anche solo di entrare in stazione. Non gli piace. Io cerco di distaccarmi.”

“Il quattro marzo del 2014 il giornale El Universal ha scritto che, stando ai dati del Sistema di Trasporto Autobus e della Segreteria di Sicurezza Pubblica del Distretto Federale, nel 2010 nelle strutture della metro avevano perso la vita 28 persone; nel 2011, 58; nel 2012, 62, e nel 2013 80. Le cause vanno dall’incidente ai suicidi, alle morti naturali, agli omicidi. Il mio capo mi fece fare una ricerca su quanti morti sotto i treni ci fossero ogni anno, nei vari paesi. È incredibile, in Giappone ce n’erano quasi 80. Anche in Colombia ci fu un anno con gli stessi numeri. E qui ce ne sono dalle 30 alle 45 l’anno”.

“Immaginati, quasi uno alla settimana,” ci interrompe sua moglie, “e la gente quasi non se ne accorge.”

La maggior parte sono suicidi, altri omicidi e altri ancora incidenti: qualcuno che inciampa, qualcuno che sta camminando mentre parla al cellulare, qualcun altro che spinge gli altri senza neanche accorgersene…”

All’improvviso Joel si ricorda qualcosa. Anche se lo ha superato, sembra inquietarlo ancora.

“Una volta mi hanno mandato a Tasqueña perché c’era un cavo della corrente che stava causando un corto. Non mi piace che le persone si avvicinino alle rotaie, e mentre eravamo lì notai una ragazzina di 18 o 19 anni. Aveva appena pianto, si capiva dal trucco. Si mise proprio al limite della banchina. La prima cosa che faccio sempre quando vedo una cosa del genere è dire ‘Dietro la linea gialla, per favore’. E di solito la gente dice ‘Non mi rompere i coglioni’ o ‘Lasciami stare, è la mia vita’. Io di solito mi giro e dico: ‘Il fatto è che poi devo scendere io a recuperarti’. Quindi, le dissi: ‘Signorina, dietro la linea gialla per favore’. Non fece caso a me. Di nuovo: ‘Signorina, dietro la linea gialla, per favore’. Niente. Feci segno al collega e gli dissi: ‘Stai pronto’. Ci mettemmo dietro di lei, non se ne rese neanche conto. Vidi che stava arrivando il treno, e mentre si avvicinava la ragazza fece per buttarsi. La afferrammo al volo e la fermammo. Lei non voleva saperne, e quando si aprirono le porte salì a bordo della carrozza. Ovviamente la seguimmo, per poi scendere alla stazione successiva sempre con lei.”

“Noi, essendo uomini, se tocchiamo una donna, chiunque sia e in qualunque circostanza, lei può poi accusarci di molestie ed è un problema. Da quel punto di vista eravamo spaventati. E alla stazione successiva dovemmo chiamare una poliziotta, una donna. Non potevamo trattenerla perché la gente, che non sapeva niente, iniziava ad avvicinarsi e a dirci di lasciarla andare. Usciti da lì venimmo a sapere che questa ragazza era in giro con degli amici. Dovevano averle fatto qualcosa. Forse le erano saltati addosso, perché era traumatizzata e non ripeteva altro che: ‘Io me ne voglio andare, io me ne voglio andare’. Finii il giorno di lavoro e lo raccontai a mia moglie. Quando le dissi ‘È successa questa cosa’ già non riuscivo più a parlare”.

All’improvviso gli occhi di Joel si arrossano e si fanno lucidi. Però non piange, rimane così, con questo suo sguardo.

“Anche adesso se mi ricordo mi sento…”

Cerca di coprire l’emozione, ma non ci riesce.

“Questa cosa lo ha colpito molto,” dice la moglie.

“Sì, più che vedere i corpi fatti a pezzi. Ogni volta che me ne ricordo, te lo giuro, ricordo e mi sento male. Come può qualcuno volersi buttare, volersi suicidare?”

Poi guarda la figlia, che ha appena 15 anni. Guarda anche sua moglie e suo figlio.

“A me è sempre piaciuto farlo. Esserci sempre, per tutti. Ci sono colleghi che no, colleghi che non vanno mai e che fanno il meno possibile, non gli piace immischiarsi, non gli piace il lavoro, lo fanno solo per lo stipendio.”

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