Cultura

Storie di suore che si comportavano male nell’Italia del Seicento

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Quando un titolo funziona, non c’è bisogno di aggiungere molto: Suore che si comportano male. Storie di magia, sesso e incendi nei conventi medievali è il libro edito dal Saggiatore a fine 2022 che parla esattamente di quello che ti aspetti. L’autore è Craig A. Monson, professore emerito alla Washington University di St. Louis (tra gli altri posti dove ha insegnato ci sono Yale University e Amherst College). Le sue materie di ricerca sono principalmente la musica rinascimentale, barocca e nativa americana, nonché questioni di musica e genere

Questo è importante perché è proprio la ricerca sulla musica, e in particolare sul rapporto che le suore avevano con essa, che dà le mosse al libro. Negli anni Ottanta, Monson scoprì a Firenze uno spartito seicentesco che pur provenendo da un convento bolognese di monache di estrazione aristocratica era pieno di canzonette molto esplicite. Fu l’inizio di una ricerca più ampia che mise lo studioso davanti a ogni sorta di malefatte: frugando tra i registri e le lettere che gli alti gradi ecclesiastici si scambiavano esasperati (chiedendo spesso l’intervento dell’Inquisizione, ricordiamoci il contesto), trovò notizie di suore che bruciavano il proprio monastero per poterne uscire, di suore che si innamoravano dentro e fuori il convento, di suore che preparavano filtri magici. 

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Con l’aiuto del suo editore italiano abbiamo fatto un po’ di domande via email a Monson per approfondire l’argomento.

L’intervista è stata editata per questioni di spazio e chiarezza.

VICE: Com’è successo che la sua ricerca musicale l’abbia portata a occuparsi di suore che si comportano male?  
Craig A. Monson:
È stato un felice incidente. Nel 1986, mi sono imbattuto in uno spartito rinascimentale dimenticato, splendidamente copiato e rilegato al Museo Bardini di Firenze. Ne ho seguite le tracce fino a un [ricco] convento bolognese. Ciò che mi incuriosiva di più—a quel punto non sapevo nulla di conventi—era tutta la musica profana contenuta nel manoscritto. Alcuni componimenti erano davvero osceni (per esempio uno diceva: “Un giorno Guillot era con Barbeau e le mostrò la sua diabolica, grande cosa: anche lei svelò i suoi inferi incantesimi, più rossi e più cremisi di una rosa…”). Non ci volle molto per scoprire che la musica conventuale era apprezzata dalle cantanti del convento e dal loro pubblico, ma deplorata dalla gerarchia ecclesiastica.

Perché la musica era così problematica per la Chiesa?
In teoria, le suore dovevano essere “morte per il mondo”, non potevano essere viste né sentite. Ma la musica delle suore attirava il pubblico nelle loro chiese, incoraggiando così il contatto con gli estranei. Inoltre, le cantanti di talento avrebbero potuto sentirsi delle dive all’interno di una società, quella conventuale, basata sull’uguaglianza e il vivere in comune. 

Ma il canto femminile per sua stessa natura era considerato problematico. Fare musica e fare l’amore, in quanto esperienze sensuali, sembravano pericolosamente interconnesse. Tutti sapevano che il sesso e il canto femminile erano anatomicamente correlati, facendo uso di alcune medesime parti del corpo: la bocca, la lingua, la gola. Il canto femminile andava dalla gola all’orecchio, e “solleticando l’orecchio” faceva perdere il controllo agli uomini, imprigionandone la ragione.

A parte la musica, quali sono i motivi principali per cui le suore finivano nel mirino dell’Inquisizione?
La maggior parte dei miei documenti deriva dalla Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari del Vaticano, istituita per sovrintendere al clero secolare e ai membri maschi e femmine degli Ordini religiosi.

La Congregazione si occupava di infrazioni musicali e non musicali della disciplina monastica (bruciare il convento, per esempio). I comportamenti scorretti nei conventi comparivano così spesso nei registri della Congregazione che ogni volta che ridacchiavo lo studioso seduto accanto a me chiedeva: “Ok, e ora cosa hai trovato?”

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Il parlatorio delle monache di San Zaccaria, Francesco Guardi. Foto via Wikimedia Commons, CC BY-SA 4.0.

Ovviamente, un altro motivo comune per cui le suore finivano nei guai erano presunte relazioni sessuali con altre suore.
La mia impressione è che il sesso avvenisse più nelle menti degli estranei che all’interno delle mura del convento. E anche le “storie d’amore” con uomini fuori dal convento tendevano a essere non fisiche: magari le suore cucinavano prelibatezze per i gentiluomini, facevano per loro il bucato, si passavano lettere, si scambiavano piccoli doni. È significativo che le indagini sulla relazione di Christina Cavazza [suora scoperta dalle consorelle a uscire ripetutamente dal convento per andare a teatro, NdR] con Antonio Giacomelli, che l’accompagnava nelle sue escursioni segrete all’opera non abbiano rivelato nulla di salace. Tuttavia, la Chiesa considerava questi “crimini” scandalosi.

Il problema che veniva contestato alle “particolari amicizie” [tra consorelle] era che violavano lo spirito di comunità e di uguaglianza della vita di convento. Ma tali preoccupazioni politiche nascondevano anche una certa preoccupazione—mai menzionata esplicitamente—riguardo ad altri pericoli impliciti del “dormire insieme”. Nel 1633, ad esempio, l’arcivescovo Colonna di Bologna scoprì che una suora del convento di San Guglielmo aveva preso il nome di Suor Lesbia Ildebranda. Sua Eminenza le impose di cambiare nome, mutandolo in Suor Maria Teresa.

Nel libro lei fa notare che non tutte le suore nel Seicento erano in convento perché molto pie. Può spiegarci ulteriormente il contesto sociale in cui queste storie avvenivano?
Ovviamente il loro mondo non era il nostro, che attribuisce grande importanza alla libertà personale e al “seguire il proprio sogno”. Tali nozioni avrebbero disorientato le mie eroine del convento. Le alternative di vita delle donne del Seicento erano il convento, il matrimonio (che consentiva loro di far nascere e poi perdere un figlio dopo l’altro, mentre padri, fratelli e mariti decidevano per loro praticamente tutto), o la prostituzione. Le cosiddette monache professe provenivano da famiglie con una ricchezza sufficiente per pagare doti sostanziose, tuttavia le doti per il convento erano molto più modeste di quanto richiederebbe un marito: perciò il convento era attraente per i padri a corto di soldi, “gravati da diverse figlie femmine” (come disse un padre).

C’erano molti altri motivi, però: se una ragazza entrava in convento prima di sperimentare altre opzioni di vita e magari aveva una zia in clausura a cui era molto vicina, diventare suora poteva sembrarle “naturale” e attraente. Essere suora significava anche godere di un certo prestigio, dato il ruolo che i conventi avevano nella società del Sedicesimo e Diciassettesimo secolo. E poi, le monache avevano altrettante—e probabilmente più—opportunità di autodeterminazione rispetto alle donne sposate. 

I monasteri che lei racconta erano anche abbastanza permeabili: le suore, pur essendo in clausura, trovavano spesso il modo di entrarne e uscirne in modo spettacolare. 
Sì, ma farlo comportava la scomunica automatica. Vale la pena ricordare che le suore però erano diventate esperte nello scoprire modi per superare il muro del convento senza attraversare quel confine. Una suora intraprendente del convento di Santa Cristina a Bologna, ad esempio, organizzò una sontuosa cena, utilizzando un tavolo molto lungo, che si estendeva attraverso il portale del convento: le suore sedevano in fondo all’interno del recinto monastico mentre i loro parenti sedevano lungo il lato oltre il confine, fuori, nel mondo. In un esempio particolarmente toccante, la gerarchia ecclesiastica proibì alle suore di Ancona di indossare “occhiali lunghi”, perché pare che le suore salissero sul campanile per guardare fuori e osservare il mondo esterno.

La musica era un mezzo particolarmente efficace per rendere permeabile il muro del convento. Significativamente, le monache cantanti di Santa Cristina a Bologna cantavano spesso da una cappella “privata”. Ma questo spazio aveva tre grandi finestre che si affacciavano sulla pubblica via. Anche se cantavano “privatamente”, solo per sé stesse, le loro voci si propagavano ancora oltre il muro del convento, in modo che gli uomini e le donne per strada potessero sentirle.

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Santa rosa tentada por el demonio, Cristóbal de Villalpando. Via Wikimedia Commons, pubblico dominio.

Qual è la sua storia preferita, tra quelle che ha raccolto nel libro?
Questa è una domanda a cui non saprei rispondere—le trovo tutte interessanti in modi diversi. Scelgo quella delle suore incendiarie di Reggio Calabria [nel Diciottesimo secolo le suore domenicane di San Niccolò di Strozzi diedero fuoco al proprio convento, appiccando l’incendio dalla coltura di bachi da seta che allevavano nelle soffitte, per avere una scusa per scappare dal convento, NdR] perché è l’unico racconto in cui le suore sono effettivamente riuscite a fuggire dal convento.

E poi ci sono molti altri elementi che rendono diversa la storia di Reggio Calabria: tutte le suore provenivano da un’unica famiglia; i loro parenti maschi le trasformarono da laiche non sposate in suore da un giorno all’altro trasformando un palazzo di famiglia in un convento e rinchiudendole all’interno. Ma ormai loro sapevano già qualcosa del mondo esterno. Si può capire la disperazione di queste monache e non si può che ammirare l’assoluta audacia della loro decisione.

Dalle storie che lei ha raccolto, si è fatto un’idea più sfaccettata della vita che le donne in generale, nei conventi e non, vivevano nell’Italia di quei secoli?
All’interno dei conventi, le donne costruivano vite per sé stesse come meglio potevano. Non potevano lasciare il convento, naturalmente, ma vale la pena ricordare che anche l’andirivieni delle loro sorelle nel mondo esterno era limitato. Alcuni fattori incoraggiarono la loro creatività e una certa indipendenza, tra cui ovviamente il fatto che non dovessero dare eredi alla famiglia. La cultura del convento presentava non solo una costante esposizione ad alcune delle migliori opere letterarie e musicali-religiose, ma anche sfide che potevano incoraggiare la loro immaginazione, inventiva e ambizione: posizioni come priora, sottopriora, economa, maestra delle novizie, maestra del coro.

Il convento concedeva loro inoltre un po’ di spazio di manovra, perché il muro che teneva dentro loro, teneva conteporaneamente fuori anche padri, zii e fratelli. Il che potrebbe aiutare a spiegare parte delle loro malefatte: se prendi un gruppo di donne ben educate e istruite, le chiudi dietro spesse mura, dai loro la possibilità di decidere all’interno delle loro comunità e alcune responsabilità che mettono alla prova la loro intraprendenza e creatività, non puoi poi sorprenderti quando sviluppano una mentalità indipendente. E se contemporaneamente insisti che si conformino a un sistema ecclesiastico ideato e imposto loro dai superiori religiosi maschi, non puoi aspettarti che questo mix altamente volatile, a un certo punto, non esploda.