Karina Vold è una ricercatrice del Leverhulme Centre for the Future of Intelligence all’Università di Cambridge.
A novembre 2017, un uomo armato si è introdotto in una chiesa di Sutherland Springs, in Texas, uccidendo 26 persone e ferendone 20. È fuggito sulla sua auto, con la polizia e i locali alle calcagna, per poi perdere il controllo del veicolo e ribaltarsi in un fosso. Quando la polizia lo ha raggiunto, era ormai morto. L’episodio sarebbe già abbastanza orribile senza il suo epilogo: nel corso delle indagini, l’FBI ha premuto il dito dell’uomo sul lettore di impronta digitale del suo iPhone, nel tentativo di sbloccarlo. A prescindere da chi o come, è inquietante immaginare la polizia che usa un cadavere per penetrare nell’aldilà digitale di qualcuno.
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La maggior parte delle costituzioni democratiche proteggono i nostri corpi e i nostri cervelli da intrusioni indesiderate. Sanciscono, inoltre, il nostro diritto alla libertà di pensiero e alla privacy mentale. Ecco perché le sostanze neurochimiche che interferiscono con le funzioni cognitive non possono essere somministrate contro la volontà di un individuo, al netto di una chiara giustificazione medica. Similmente, secondo opinioni erudite, gli agenti di polizia americani non possono costringere una persona a sottoporsi a un test della verità, perché sarebbe un’invasione della privacy e una violazione del diritto a rimanere in silenzio.
Ma in questa era di tecnologia ubiqua, i filosofi cominciano a chiedersi se l’identità di qualcuno sia circoscritta alla sua anatomia biologica. Considerato il ruolo che giocano nelle nostre vite, i dispositivi che possediamo non meritano forse le stesse protezioni che garantiamo al nostro cervello e al nostro corpo?
Smartphone o notepad sono essenziali alla nostra cognizione tanto quanto le sinapsi che ci esplodono nella testa
Dopo tutto, il tuo smartphone è molto più che un semplice telefono. Sa più cose intime su di te del tuo migliore amico. Nessun pezzo di hardware nella storia, neanche il tuo cervello, ha mai contenuto informazioni paragonabili per qualità o quantità rispetto al tuo telefono: ‘sa’ con chi parli, quando ci parli, cosa dici, dove sei stato, cosa compri, conosce foto, dati biometrici e persino le note che scrivi per te stesso — tutto questo per anni.
Nel 2014, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha impiegato questa osservazione per giustificare l’obbligo per la polizia di richiedere un mandato prima di poter frugare in uno smartphone. Questi dispositivi “sono una parte pervasiva e insistente del nostro quotidiano al punto che i proverbiali visitatori da Marte potrebbero pensare che siano una parte integrante dell’anatomia umana,” per dirlo con le parole del presidente della Corte Suprema John Roberts.
Roberts probabilmente non intendeva buttarla sul metafisico — ma i filosofi Andy Clark e David Chalmers sì, quando hanno spiegato nel saggio The Extended Mind (1998) che la tecnologia fa parte di noi. Stando alla scienza cognitiva tradizionale, ‘pensare’ è un processo di manipolazione simbolica o calcolo neurale, che viene condotto dal cervello. Clark e Chalmers accettano per sommi capi questa teoria della mente computazionale, ma sostengono che alcuni strumenti possano diventare perfettamente integrati nel nostro metodo di pensiero. Oggetti come smartphone o notepad sono spesso essenziali alla nostra cognizione tanto quanto le sinapsi che ci esplodono nella testa. Aumentano ed estendono le nostre menti incrementando il nostro potere cognitivo e liberando risorse interne.
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Se prendiamo per valida la tesi della mente estesa, l’assunto culturale sulla natura inviolata del pensiero — che sta alla base della maggior parte delle nostre norme sociali e legali — appare seriamente minacciato. Come la Corte Suprema degli USA ha dichiarato nel 1942: ‘la libertà di pensiero è assoluta per sua stessa natura; neanche il più tirannico dei governi ha controllo sui funzionamenti interni della mente.’ Questa visione trova origine in pensatori come John Locke e René Descartes, secondo cui l’animo umano è imprigionato in un corpo fisico, mentre i pensieri esistono in un mondo immateriale, inaccessibile all’altro. La vita interiore di un individuo, dunque, deve essere protetta solo quando esternalizzata, come attraverso la parola. Molti ricercatori che si occupano di scienze cognitive sono ancora legati a questa concezione cartesiana — benché, ora, il reame privato del pensiero coincida con l’attività nel cervello.
Ma le istituzioni legislative odierne lottano contro questo concetto limitato della mente. Stanno cercando di fare i conti con come la tecnologia stia cambiando il significato stesso di essere umani, e di sviluppare nuovi confini normativi per gestire questa realtà. Magari il giudice Roberts non conosceva la teoria della mente estesa, benché vada a supportare le sue parole su come gli smartphone siano diventati parte del nostro corpo. Se le nostre menti comprendono i nostri telefoni, siamo essenzialmente cyborg: in parte biologia, in parte tecnologia. Considerato che gli smartphone sono subentrati in quelle che prima erano funzioni del cervello — ricordare date, numeri di telefono, indirizzi — forse i dati che contengono dovrebbero essere trattati alla pari delle informazioni che conserviamo nella testa. Perciò, se la legge mira a proteggere la privacy mentale, i suoi confini devono essere estesi per conferire alla nostra anatomia cyborg la stessa protezione garantita al cervello.
Se il tuo smartphone è parte di ciò che sei, allora andrebbe trattato più come un cadavere che un divano
Questo ragionamento sfocia in conclusioni potenzialmente radicali. Alcuni filosofi hanno ipotizzato che, quando moriamo, i nostri dispositivi digitali dovrebbero essere gestiti come reliquie: se il tuo smartphone è parte di ciò che sei, allora andrebbe trattato più come un cadavere che un divano. Similmente, si potrebbe dire che gettare lo smartphone di qualcuno sia interpretabile come una forma di aggressione ‘estesa,’ equivalente a un danno cerebrale, piuttosto che al mero danneggiamento di proprietà personale. Se i tuoi ricordi sono cancellati perché qualcuno ti attacca con una mazza, un tribunale non avrebbe dubbi: si tratta di un incidente violento. Per cui, se qualcuno penetra nel tuo telefono e cancella ciò che contiene, dovrebbe essere punito come se avesse causato un trauma cranico.
La tesi della mente estesa mette inoltre alla prova il ruolo della legge nel proteggere tanto il contenuto quanto i mezzi del pensiero — sarebbe a dire, tutelare cosa e come pensiamo da condizionamenti indebiti. Le leggi vietano qualsiasi cosa interferisca senza previo consenso con la nostra neurochimica (le droghe, per esempio), perché modifica il contenuto della mente. Ma se la cognizione incorpora i dispositivi tecnologici, allora dovrebbero valere le stesse proibizioni. Forse, alcune delle tecniche usate dal mondo della pubblicità per dirottare la nostra attenzione online, forzare le nostre decisioni o manipolare i risultati di ricerca, dovrebbero contare come intrusioni nel nostro processo cognitivo. Similmente, in aree dove la legge protegge i mezzi di pensiero, dovrebbe essere garantito l’accesso a strumenti come gli smartphone — esattamente come la libertà di espressione protegge il diritto delle persone non solo di scrivere o parlare, ma anche di usare i computer e disseminare il proprio discorso in internet.
I tribunali sono ancora lontani dal giungere a decisioni del genere. Oltre ai casi da prima pagina di chi compie omicidi di massa, ci sono migliaia di esempi ogni anno in cui le autorità di polizia cercano di avere accesso a dispositivi criptati. Nonostante il Quinto Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti sancisca il diritto dell’individuo a restare in silenzio (e dunque a non consegnare la propria password), i giudici di diversi stati hanno permesso alla polizia di usare le impronte di una persona per sbloccare il suo telefono, anche con la forza. (Con il nuovo riconoscimento facciale dell’iPhone X, per la polizia potrebbe essere sufficiente costringere un sospettato a guardare il proprio telefono.) Queste decisioni riflettono il concetto tradizionale per cui i diritti e le libertà di un individuo terminano dove termina la sua pelle.
Ma la nozione di diritti e libertà personali che guida le nostre istituzioni legislative è obsoleta. È costruita sul modello di un individuo libero che gode della propria, intoccabile, vita interiore. Ora, i nostri pensieri possono essere invasi prima ancora che siano pienamente sviluppati — e, in un certo modo, forse non è neanche una novità. Il fisico Richard Feynman, vincitore del Premio Nobel, diceva di pensare con il proprio taccuino. Senza carta e penna, un sacco di riflessioni e analisi complesse non sarebbero mai state possibili. Se la visione della mente estesa è corretta, allora anche tecnologie più rudimentali come queste dovrebbero essere riconosciute e protette come parti essenziali degli strumenti della mente.
Questo articolo è apparso originariamente su Aeon e ripubblicato sotto Creative Commons su Motherboard US.