Un mesetto fa è andata in onda The Midnight Gospel, serie animata a reti unificate su Netflix. Molti di voi l’avranno vista, probabilmente discussa e in fretta accantonata in favore dell’ultimo nuovo prodotto seriale sulla catena di montaggio dell’immaginazione contemporanea.
Ad alcuni, invece, è rimasta sul proverbiale groppone. La trama vede il protagonista come uno space-casters, un tizio stranito che vive la sua vita intervistando personaggi bizzarri all’interno di multiversi simulati da un’intelligenza artificiale—l’incrocio perfetto tra il nerd, il geek e il dissociato con manie giornalistiche.
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L’amena premessa si rivela da subito tanto una solenne presa per il culo del formato podcast quanto la messa in scena animata di una vera puntata: tutto in contemporanea. Lo si deve in parte all’autore principale, ovvero Duncan Trussell, un doppiatore, attore e stand-up comedian, noto soprattutto per The Duncan Trussell Family Hour, cioè esattamente un podcast.
Ma soprattutto lo dobbiamo alla giusta dose di follia e incoscienza portata da Pendleton Ward, meglio conosciuto come il creatore di Adventure Time, altra serie d’animazione e caposaldo della cultura contemporanea per grandi e piccini. Il tipo di cartone animato che ribalta l’industria e il pubblico sul suo asse, rovesciando il mondo.
Il protagonista è l’incrocio perfetto tra il nerd, il geek e il dissociato con manie giornalistiche.
La storia vuole che Ward si sia innamorato del programma di Trussell in tempi non sospetti, mentre era ancora alla prese con le avventure di Jake e Finn, ben contento di aver trovato qualcuno in grado di discettare di filosofia e rendere tutto piacevole, leggero e ascoltabile. Il passo dall’innamoramento alla realizzazione di The Midnight Gospel, però, si è rivelato ben complesso e ha richiesto 7 anni, duecento persone circa, e persino un esperto d’occultismo e una strega bianca.
Dal primo contatto in data 2012 alla messa in onda, il mondo nel frattempo è cambiato drasticamente. Una delle differenze più interessanti sta proprio nel formato scelto dai due per essere distorto, manipolato ed elevato a una forma nuova e inedita.
Quel che allora era il podcast si è trasformato oggi in un oggetto mediale al tempo stesso semplicissimo e inafferrabile, e ha ormai raggiunto un qual certo grado di fortuna critica e di affezionati persino qui da noi, nonostante forse non abbia ancora sfondato presso il grande pubblico generalista. In The Midnight Gospel, però, il passo è stato ulteriore e radicale.
I due partner in crime hanno infatti scelto di estrapolare alcuni stralci dal podcast originale di Trussell per trasfigurarli del tutto, affiancando loro una narrazione animata e psichedelica, in sincronia e al tempo stesso in controtendenza rispetto ai dialoghi originari. Per intenderci, se nella prima puntata si discetta di una visione più adulta e con meno pregiudizi sulla droga, quello che vedremo sullo schermo sarà in realtà un’apocalisse zombie virulenta, sanguinosa e delirante.
Nella prima puntata si discetta di una visione più adulta e con meno pregiudizi sulla droga, ma noi vediamo sullo schermo un’apocalisse zombie virulenta, sanguinosa e delirante.
È, insomma, una di quelle idee che hanno l’aria di sbucare fuori quando si è decisamente troppo fatti, per poi perdere di senso il mattino dopo. L’effetto del tutto è però a dir poco vincente proprio perché straniante, nel senso che poteva darne un uomo di teatro come Brecht.
Vedere questa serie porta infatti a sentimenti contrastanti, a trovare qualcosa di estraneo e perturbante, ma al contempo scoprirci dentro elementi del tutto chiari e persino già noti. Proprio come il teatro del drammaturgo tedesco, The Midnight Gospel investe sulla sua funzione civile e sociale, e vuole suscitare un approccio analitico e critico a quanto viene rappresentato e raccontato, tentando di mettere a nudo le complessità e riflettendo su tematiche definibili come spirituali.
Soltanto che il tutto è imbevuto a fondo nell’acido lisergico e in tonnellate di peyote, e passa per la visione di un tizio il cui più grande successo creativo è la storia di un bambino e del suo cane parlante stritolata attraverso qualche decennio di fumetti e immaginario underground. Il risultato è quindi spiazzante e ha creato opinioni piuttosto discordanti.
C’è chi lo ha accusato di aver saccheggiato l’immaginario weird, annacquando tutto con elucubrazioni fintamente profonde da hippy borghese e fuori tempo massimo, e chi l’ha salutato come una novità di rottura rispetto a tutto il resto. In realtà, è probabile che entrambe le parti abbiano ragione e che si annullino a vicenda.
Tutto è imbevuto a fondo nell’acido lisergico e in tonnellate di peyote, e passa per la visione di un tizio il cui più grande successo creativo è la storia di un bambino e del suo cane parlante.
Se è vero che un prodotto simile è cannibalizzato dall’industria (leggi: Netflix), è anche vero che non è certo cosa di tutti i giorni venga prodotta una serie animata apocalittica e metalinguistica con nomi forti del panorama weird a fumetti (un nome su tutti: l’art director Jesse Moynihan; ma dentro c’è anche tanto Masaaki Yuasa e Æon Flux di Peter Chung), costruita intorno a uno pseudo dialogo radiofonico (il podcast), per parlare di magia, droga, gnosi e paura della morte.
A prescindere da chi abbia ragione, quasi tutti hanno accantonato e sottovalutato uno degli aspetti più importanti di questo lavoro: il suo suono. Quell’elemento che è in realtà la sostanza della messa in scena e permette davvero di mostrare tutta la potenza disturbante e perturbante contenuta in The Midnight Gospel.
Senza le voci, il sound design apparentemente grezzo e la sua musica, la serie finirebbe per essere davvero troppo scollata nelle sue componenti fondamentali. Ad occuparsene, quindi, ci voleva una persona particolare: uno strano figuro che risponde al nome di Joe Wong.
Il nome non dirà niente a nessuno, eppure Wong è un piccolo prodigio. Lui stesso è un podcaster—con The Trap Set, dedicato interamente a musicisti e in particolare ai batteristi, ha ospitato gli addetti al drum kit di Fugazi, Police, Violent Femmes, Interpol, Slayer e moltissimi altri—, un polistrumentista ed è stato il batterista dei Parts&Labor, che suonavano tra il punk e la psichedelia, un po’ come degli Oneida particolarmente dritti.
Il suono è la sostanza della messa in scena di The Midnight Gospel e gli permette di mostrare tutta la sua potenza disturbante e perturbante.
In ultimo, è compositore e arrangiatore di soundtrack, tra le quali quelle di due piccole chicche di culto come Russian Doll e Master of None. In questa veste, ha partecipato anche a The Midnight Gospel, e noi lo abbiamo intervistato.
Noisey: Come sei arrivato a lavorare su The Midnight Gospel?
Joe Wong: Pendleton Ward è un mio buon amico, tra i primi ad esserlo diventato quando mi sono trasferito a Los Angeles nel 2012. Peraltro, entrambi abbiamo già avuto modo di fare diverse cose in ambito creativo e la comunicazione tra noi due funziona quindi al meglio. Duncan invece l’ho incontrato da poco, quando abbiamo cominciato a lavorare allo show, ma sembra davvero che ci conosciamo da sempre.
Cosa c’è di diverso nel lavoro che hai fatto per questa serie, rispetto ad altre soundtrack che hai composto?
La parte più importante dell’essere un compositore per film, tv, serie o altro è l’abilità di comunicare con gli autori e vedere il mondo narrato attraverso i loro occhi. In questo senso, ogni progetto è diverso. Si tratta di unirsi a una famiglia differente ogni tot mesi. Ovviamente io ho i miei punti di riferimento musicale, ma quando mi limito alla musica che ascolto non riesco a separare la musica da film dal pop, i concerti dalla contemporanea.
Hai guardato a qualche modello per creare la musica di questo show?
Non ho preso a riferimento nessun modello diretto, ma a livello di tessitura sonora mi sono ispirato molto ai compositori minimalisti del secolo scorso—ripassati però attraverso alcune tastiere modificate con il circuit bending. Lo scopo è sempre stato quello di creare un vero e proprio mondo sonoro che potesse servire anche ad esprimere i bisogni emotivi della storia. Detto questo, ammetto di adorare Jerry Goldsmith e le sue colonne sonore. E le collaborazioni da percussionista con Mica Levi e Jon Brian mi hanno ispirato a lungo.
“Fare colonne sonore è come unirsi a una famiglia differente ogni tot mesi.”
Come hai lavorato in pratica, qual è stato il processo produttivo?
In sostanza, ricevevo le animazioni per poi confrontarmi rispetto a ogni singola scena con gli autori, registi e supervisori, come Mike Mayfield, per determinare se inserire o meno la musica, oltre alla funzione emotiva da esprimere. Sotto il profilo strettamente sonoro, mi piaceva l’idea di creare qualcosa che suonasse lo-fi, vista la presenza del simulatore. Come se quest’ultimo fosse dotato di un chipset limitato, un vecchio gioco a 8-bit del NES: ogni mondo circoscritto dalla sua libreria di suoni ed elementi visivi pre-esistenti.
Hai lavorato anche a stretto contatto con Duncan e Pendleton?
Ogni tanto sono venuti a trovarmi per discutere, ma nella maggior parte dei casi mi hanno dato fiducia totale. Una condizione ideale, devo dirlo. Penso che la maggior parte delle persone faccia un grande lavoro quando viene data loro la giusta fiducia e libertà.
Ti sei mai trovato in difficoltà?
In realtà mi sono sentito bloccato come artista per moltissimi anni. Volevo fare un album tutto mio, ma non avevo la giusta dose di sicurezza. Avevo la competenza tecnica, certo, ma non la capacità di collegarmi ai miei stessi sentimenti. Ero completamente disconnesso dalla mia voce creativa.
E come ne sei uscito?
Ho superato questa paura solo utilizzando gli strumenti appresi con i podcast e le colonne sonore. E in particolare forzandomi a rispettare delle deadline precise. Paradossalmente, mi ha portato a superare la mia parte più critica e ricollegarmi con la mia mente emotiva. L’album che ne è uscito fuori è Nite Creatures (pubblicato da Decca Records, nda), il mio primo da solista e un lavoro del tutto in continuità con lo spirito di The Midnight Gospel. Il tema principale dell’album è la perdita progressiva di una persona cara, in linea con lo show sia dal punto di vista della profondità emotiva che nell’approccio estetico.
“Fare il mio podcast, The Trap Set, all’inizio è stato terrificante e mi ha messo in una condizione di vulnerabilità.”
E questo si ricollega ad altre parti del tuo lavoro e carriera? Altre soluzioni?
Di sicuro tutto ciò che riguarda la batteria è sicuramente il campo dove mi trovo più a mio agio, e lo stesso vale per le colonne sonore. Entrambe queste discipline sono intrinsecamente collaborative, il che significa che l’onere creativo non sta solo sulle mie spalle. Sono lì per aiutare a facilitare la visione di qualcun’altro.
E The Trap Set?
Quello all’inizio invece è stato terrificante. È vero che esiste principalmente per sostenere gli altri artisti, ma mi ha messo in una condizione di vulnerabilità quando ho cominciato. Dopo 300 episodi, però, posso dire ora di sentirmi totalmente a mio agio. Per molti versi, come dicevo, il podcast è stato il ponte che mi ha permesso di passare dall’essere un batterista e compositore al diventare un autore vero e proprio: mi ha aiutato ad abituarmi al suono della mia stessa voce, letteralmente e figurativamente. In più, mi ha messo in una condizione di responsabilità nei confronti del pubblico, e mi ha aiutato immensamente a intrattenere conversazioni profonde con così tanti brillanti eroi musicali.
C’è qualche intervista di cui sei particolarmente fiero, o qualche rimpianto?
La mia “balena bianca” è stata a lungo Phil Collins, mentre una persona con la quale avrei davvero voluto parlare è Jaki Liebezeit. Stavamo organizzando la cosa poco prima della sua morte, purtroppo. Ora che stiamo allargando il campo a ogni tipo di musicista, mi piacerebbe avere come ospite Kate Bush.
L’intervista è stata editata per brevità e chiarezza.
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