Essere di successo non vuol dire essere turistici. Abbiamo successo sui social e siamo sempre pieni, è vero… Non siamo un posto per soli local. Rispetto ai posti che puntano tutto sulla location, noi abbiamo fatto un percorso inverso…
Partiamo da una premessa: per andare al Trabucco da Mimì di Peschici, devi volerlo intensamente. Per due motivi: è difficilissimo prenotare, soprattutto d’estate (è aperto da maggio a settembre solitamente); dovrai fare tante curve, evitare qualche buca, e procedere lentamente dietro a qualche Ape Car nell’unica strada che costeggia il promontorio Gargano.
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“Al Trabucco da Mimì” è oggi uno dei luoghi immancabili della Puglia gastronomica. Ogni settimana viene assalito non solo dai turisti stranieri presenti in zona, ma anche da tanti pugliesi che si sobbarcano almeno 2 ore di macchina per raggiungerlo. E se “trabucco” e “successo” – recentemente ha trionfato in una puntata di 4 Ristoranti – potrebbero farvi pensare ad un posto turistico, di quelli che puntano tutto sulla location, beh, vi ricrederete.
Su questo ci metto la mano sul fuoco, ma a confermarmi la loro visione, con un piglio tipicamente garganico (un po’ diffidente, un po’ scazzato), sono i gemelli trentenni Domenico e Vincenzo Ottaviano, che hanno ereditato l’onere e onore di portare avanti l’azienda di famiglia.
Appena arrivo gli chiedo perché questo non è il solito Trabucco turistico, e i due non si scompongono. Inizia Vincenzo: “essere di successo non vuol dire essere turistici. Abbiamo successo sui social e siamo sempre pieni, è vero. Questo vuol dire che sei un posto importante per i turisti, ma non deve necessariamente caratterizzarti come posto turistico… Non siamo un posto per soli local. Rispetto ai posti che puntano tutto sulla location, noi abbiamo fatto un percorso inverso. Ai tempi di mia nonna e mio nonno c’era una cucina più semplice. C’erano dieci melanzane ripiene per cui la gente faceva la fila. Poi la fila è diventata lunga, le melanzane finivano alle 8 e la gente ha cominciato ad arrabbiasi. Mi ricordo che alle 9 la gente finiva a mangiare bruschetta e pane e pomodoro. Non c’erano regole legate alla ristorazione classica.”
I Trabucchi si sono sviluppati da Chioggia in giù. Non è una peculiarità garganica. Nessuno sa dire chi l’abbia inventato veramente: ci sono poche fonti storiche prima del ‘900, e sono tutte del nord Italia. I trabucchi della costa marchigiana, emiliano-romagnola e veneta si sono evoluti verso il metallo. I nostri sono rimasti di legno, com’erano lì agli inizi del ‘900
Oggi è diverso. “Lo scontrino è più alto, il servizio è migliorato, anche se ogni tanto mi viene nostalgia per la tovaglietta e la caraffa di vino. Credo che non possiamo fermare questa evoluzione, sarebbe deleterio. È nato anche un dibattito interno alla famiglia e la cucina ha deciso di migliorare, avere una carta vini, fare gli aperitivi.”
E, in effetti, oggi la cucina ha una sua idea molto definita. Quella di Domenico, che dopo aver seguito le orme della sua famiglia -prima sul trabucco a pescare, poi in sala, oggi in cucina-, ha deciso di far evolvere il Trabucco oltre gli stereotipi della cucina di mare.
“La cucina tradizionale di mare non esiste, ma si è un po’ omologata su alcuni piatti. In Gargano abbiamo una cucina più agricola: formaggi freschi, carne da pascolo. Il mare è solo una piccola parte. E il trabucco è uno dei pochi esempi di pesca in questa zona. Nella mia cucina, infatti, utilizzo molto pesce azzurro e cefali, che sono i pesci del trabucco. Per le polpette uso il lanzardo che è uno sgombro molto più buono del classico, che in pochi conoscono. È più grasso e meno stucchevole. Utilizziamo la salpa, lo sparaglione (sbarrone) che è un sarago che si prende tipicamente nei mesi estivi, buonissimo per la frittura. Sarde e cannocchie per la bisque; gamberi bianchi dell’Adriatico, un prodotto locale, rispetto ai più usati gamberi siciliani e di Gallipoli. Utilizzo i frutti di mare classici come cozze pelose e noci. Per i carpacci uso il cefalo quando è di stagione.”
In effetti, quello che mi ha subito colpito del Trabucco, ancor prima della location, è il menu. I piatti sono realizzati con ingredienti meno conosciuti, come le lagane al ragù di cefalo, un tipo di pasta poco famoso abbinato ad un pesce solitamente mal visto dal grande pubblico, o la salicornia, un asparago di mare che cresce sugli scogli e viene coltivato nei laghi di Lesina e Varano, servita con olio e limone. È un approccio che mi piace, anche se Domenico – con sincerità – precisa che “in alta stagione è più difficile, perché d’estate il pesce è poco e la gente è tanta. Lì allora ci arrangiamo col fresco d’importazione e anche il surgelato di qualità, come i crostacei abbattuti a bordo appena pescati che sono di gran lunga migliori dello scampo che si rovina mentre arriva a terra. Ovviamente lo scrivo in menu. La seppia ad agosto non può non essere congelata e sarebbe disonesto dire il contrario.”
Una volta è arrivato un cliente da Catania che gira i ristoranti che vincono il programma di Alessandro Borghese. È stato una notte ed è andato via. Devo dire che ho visto un miglioramento nella clientela, e penso che sia merito anche della tv.
“Sono pesci meno considerati perché il mercato richiede i pesci di allevamento. Manca cultura del pesce” aggiunge Vincenzo.
Mentre il maestrale sferza fortissimo (qui è spesso così), chiedo a Domenico che effetto ha avuto il programma di Alessandro Borghese su questo posto che era già famosissimo.
“Gli ho scritto ‘Mortacci tua!’ su Whatsapp, perché eravamo già conosciuti, ma ora ancora di più. Una volta è arrivato un cliente da Catania che gira i ristoranti che vincono il programma. È stato una notte ed è andato via. Devo dire che ho visto un miglioramento nella clientela, e penso che sia merito anche di Borghese” e poi aggiunge che “oggi la nostra zuppa di pesce fai da te non è più un tabù.
Anch’io sono una di quelle persone che la zuppa di pesce l’ha sempre scansata. Perché ti sembra un piatto troppo povero da ordinare in un ristorante di pesce. E, invece, questa volta decido di provarla, memore anche dei miei viaggi in Giappone. È proprio nel Sol Levante che è nata l’ispirazione, quando Domenico, che d’inverno viaggia molto, è rimasto colpito dallo shabu shabu, la versione nipponica dell’hot pot.
“La zuppa fai da te nasce al culmine di un percorso di collaborazione con Hiroto Akama, uno chef giapponese. Negli anni abbiamo creato il Trabucco Okonomyaki, la zuppa di cefalo al miso, l’anguilla laccata al mosto di fichi su pane raffermo che richiama l’unadon giapponese. Una serie di piatti che uniscono due culture. La zuppa fai da te è l’emblema di questa unione: la zuppa tradizionale di pesce cotta con la tecnica shabu shabu. È un piatto italiano con pesce e sugo, ma cambia il modo di consumarlo, che passa dalla cucina alla tavola. Una cultura che deriva dalla cerimonia del té. Infatti, lo shabu shabu è nato per mantenere il cibo caldo durante queste lunghe cerimonie.“
Domenico reinterpreta la tecnica, utilizzando un brodo già saporito con le teste dei pesci sfilettati, rispetto a quello dello shabu shabu dove solitamente il brodo è neutro.
L’esperienza è straniante per un ristorante italiano di mare: a tavola arriva un fornelletto, un piatto con filetti, crostacei e verdure, delle bacchette e delle pinze di metallo. La temperatura del brodo è così alta che il pesce cuoce in pochi secondi. Non fatico a capire il successo di questo piatto che, come mi dice Domenico, va in totale controtendenza rispetto alla tradizionale zuppa di pesce che “invece si farebbe fatica a vendere.”
Un piccolo cappello lo meritano anche i dolci, come la pigna che “nasce perché volevo omaggiare una coltivazione che si sta perdendo. Il dolce al pino d’Aleppo è una pigna cremosa a base di infusione di semi di pino d’aleppo. Un sentore di rustico, di resinosità, di abbrustolito. È un dolce non dolce, anche perché ci metto mandorle, cacao e polvere di té matcha e soia (come nei mochi mochi giapponese).” E il dolce alle carrube, anche questa una coltivazione che è sempre più dimenticata.
Il garganico è un terrazzano; non nasce pescatore, ma agricoltore e pastore. Il mare lo spaventava, e per tutelarsi ha costruito i trabucchi. Uno strumento a terra che ti permette di tornare a casa la sera.
Comunque, non sono venuto qui solo per mangiare e parlare di cucina, ma per capire di più di questa macchina fatta di legno. Faccio un giro sul trabucco con i fratelli che mi raccontano il senso del trabucco. Domenico, che per la tutela dei trabucchi ha anche contribuito a scrivere una legge della Regione Puglia, mi spiega che “si sono sviluppati da Chioggia in giù. Non è una peculiarità garganica (a Peschici ce ne sono tre: il loro, e quelli delle famiglie Ranieri e Fasanella NdR). Dicono a malo modo che siano stati i saraceni, ma non ha senso, visto che erano pirati e venivano a fare razzia. Nessuno sa dire chi l’abbia inventato veramente: ci sono poche fonti storiche prima del ‘900, e sono tutte del nord Italia. I trabucchi della costa marchigiana, emiliana-romagnola e veneta si sono evoluti verso il metallo. I nostri sono rimasti di legno, com’erano lì agli inizi del ‘900. ”
Vincenzo prova a interpretarne il senso: “il garganico è un terrazzano; non nasce pescatore, ma agricoltore e pastore. Il mare lo spaventava, e per tutelarsi ha costruito i trabucchi. Uno strumento a terra che ti permette di tornare a casa la sera. Essenzialmente è una bilancia con quattro antenne, due lunghe e due corte, due argani e una rete rettangolare di circa 300 mq e quattro cime che collegano la rete agli argani. Con gli argani puoi alzare e abbassare la rete”.
Quindi trabucco significa “trabocchetto”? Così come la sua origine, anche l’etimologia non è chiara: secondo Domenico, “dovrebbe venire da “trappola”, il “trabocchetto” che tendi ai pesci”. Alcune fonti lo fanno derivare dal dialetto abruzzese “travocche”, che forse deriva dal latino “trabs”, ovvero trave; per altri significa “tra i buchi”, come i pali che vengono conficcati negli scogli o nel mare; per altri ancora deriverebbe dal francese “trabone”, una catapulta medievale.
“La pesca al trabucco è a vista. Una vedetta sale sull’antenna e quando vede una preda, attirata anche da un’esca di legno, grida “Via” e gli altri pescatori, solitamente due, girano gli argani per tirare su la rete”.
Nel frattempo, Vincenzo decide di mostrarmi le sue capacità acrobatiche salendo sull’antenna di vedetta. “La pesca al trabucco è a vista. Una vedetta sale sull’antenna e quando vede una preda, attirata anche da un’esca di legno, grida “Via” e gli altri pescatori, solitamente due, girano gli argani per tirare su la rete”. Vincenzo e Domenico mi assicurano di non essere mai caduti giù in più di quindici anni di pesca, e sinceramente gli credo.
Da uomo di campagna quale sono, ero convinto che la grande pesca si potesse fare solo in alto mare, ma a quanto pare mi sbagliavo. “È una pesca di pesce da migrazione o di pesci che scappano dai predatori” – mi racconta Vincenzo – “Il cefalo migra da sud a nord, e viceversa. Questo trabucco prende il pesce che migra da nord a sud, perché è posizionato a maestro. Poi ci sono trabucchi posti a levante che pescano i pesci che migrano da sud a nord. I banchi di sardine invece scappano dai delfini.”
Ed è un lavoro duro e paziente, tanto che il trabucco è stato spostato quattro volte prima di trovare la posizione giusta. Domenico mi spiega che “da noi puoi ancora vedere i vecchi montanti, fatti di pino d’Aleppo (a cui ha dedicato un dolce del menu NdR) che veniva portato via mare. Mentre le antenne sono fatte di abete, che è più flessibile. Penso che la prima posizione non andasse bene perché la baia era troppo stretta e i pesci non circolavano. Poi l’hanno spostato in un posto che forse era troppo esposto alle mareggiate. Un altro tentativo ancora e poi hanno trovato la posizione definitiva, che è quella di oggi.” Il trabucco di Mimì è costruito sugli scogli, mentre sull’Adriatico ci sono anche esempi più simili a delle tradizionali palafitte.
Arriva il momento di parlare di Mimì, il nonno che è scomparso 4 anni fa e che da il nome a questo posto. “Nonno era prima di tutto un falegname. Suo nonno era un falegname, e così anche suo padre. Al trabucco pescava sempre lui, poi negli anni ’90 la ristorazione ha iniziato a crescere e ha smesso di fare il falegname per dedicarsi al ristorante a tempo pieno. Il trabucco era un hobby che ha trasformato in un lavoro. Comunque, non è mai stata una fonte di guadagno: c’era tanto pesce, ma la pesca era molto stentata, il pesce si faceva aspettare. Infatti, c’è una canzone che dice “Questa è la vita del trabucchista, un giorno allegro e cento triste”. Il trabucchista è malinconico.”
Chiedo se ne vale ancora la pena, e la risposta è molto sincera, nello spirito della famiglia Ottaviano: “Se pensi al profitto, no. Non fai margine, non vendi. Lo facciamo per il ristorante e per mantenere viva la tradizione.”
Ma quindi che tipo era Mimì? Mentre lo chiedo, vengo attratto da un uomo che sta puntellando la struttura di legno appoggiata sugli scogli che ospita il ristorante. Carlo, il padre dei due gemelli, figlio di Mimì lavora nell’oscuro con la moglie Rossella, e come tutti quelli che lavorano nell’oscuro, porta avanti la baracca. Mi racconta che è Mimì ad avergli inculcato la cultura del lavoro. “Sono nato con questo posto, e sono sempre stato qui senza mai fare vacanze. Non mi stancavo mai. Finivo la sera e andavo in spiaggia, in campeggio.” Com’è nato il Trabucco quindi? “Papà era tornato da poco dal Canada, dove era stato una decina d’anni, per lavorare come manutentore per il campeggio. E proprio il campeggio è stato il nostro primo bacino d’utenza. Ai tempi arrivavano anche 3000 persone, la gente si avvicinava alla casetta e cominciava a chiedere da mangiare. Così abbiamo iniziato: si mangiavano melanzane ripiene e pane e pomodoro. L’idea di aprire l’aveva avuta mia madre. Facevamo anche i panzerotti con sua sorella, i taralli con lo zucchero, la pasta fritta. Poi qualche cliente ci ha chiesto il pesce… e ci siamo complicati la vita.”
Gli chiedo come mai abbia deciso di lasciare subito spazio ai figli: “Sono felice che i miei figli abbiano tante responsabilità. Quello che dovevo fare l’ho fatto, ho iniziato quando avevo 11 anni. È stata un’infanzia dura, mia madre lavava perfino i bicchieri di plastica.”
Mentre parlo con Carlo, cattura la mia attenzione un altro uomo con una barba lunga . L’avevo già incontrato e fotografato l’anno scorso, quando ero venuto qui per la prima volta. È Peppino.
Tutti lo conoscono e lo cercano qui, forse anche per l’aspetto da vichingo. Peppino, invece, è peschiciano doc – come tradiscono l’atteggiamento e la tipica inflessione, e non è un trabucchista maliconico (in realtà nasce muratore). Ha un rapporto molto onesto col mare: accetta “quello che ti dà, e quello che non ti dà”. Gli chiedo cosa ricorda di Mimì, che ha conosciuto quando aveva 14 anni (oggi ne ha 64): “L’ho sempre aiutato a pescare. A lui interessava più quello che il ristorante. È stato una vita sul trabucco e ha sofferto molto la distanza quando si è trasferito in Canada. Mimì mi ha insegnato tanto della vita. Non abbiamo mai litigato, i nostri caratteri si legavano bene, come marito e moglie.”
Gli chiedo la pescata più epica: “Quando abbiamo pescato 25 quintali di garza d’oro, un cefalo, a settembre. L’abbiamo venduto tutto, anche se a Mimì non interessava vendere.”
Peppino oggi è una figura iconica: se andate al lago di Varano, nei pressi di Ischitella, potrete vedere il tempio che il fotografo e artista Alessandro Tricarico gli ha dedicato.
Lo lascio rilassarsi, col vento che accarezza la sua folta barba.
Chiedo ai gemelli se possono farmi vedere come si pesca. La risposta è no, perché il mare è in tempesta e “i pesci sono pigri.”
È quasi ora di pranzo. Ho il tempo per rubargli l’ultima risposta. Per quanto tempo ancora andrà avanti il Trabucco?
“Da qui non si scappa. È un’eredità forte. Non puoi dire ‘Domani vado a fare altro’, non puoi abbandonare la tradizione di famiglia. Sei legato a questi scogli, a questa storia, a questo impegno. Puoi decidere di fare altro altro, far crescere l’azienda, ma è solo qui che ci vediamo in futuro”.
Ora hai capito perché questo non è un trabucco turistico?
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