Quelle tre volte l’anno che torno a casa dei miei per le vacanze, provo sentimenti contrastanti appena poche ore dopo esser sceso dall’aereo. È come se ogni volta l’archivio congelato che tengo nella mia testa ci esplodesse inevitabilmente all’interno—ricordandomi che, oltre quelle quattro mura che mi hanno visto crescere, c’è una fauna urbana qualsiasi che solo qualche anno fa pensavo fortemente non avrei mai saputo affrontare a causa di alcuni coetanei. Qualche anno fa ero nel pieno dell’adolescenza e quei coetanei nel gergo comune li chiameremmo bulli.
Non so se abbia contribuito davvero, ma ogni volta che discutiamo del mio caso, mia madre se ne esce sempre con una frase che suona più o meno così: “È che ti ho cresciuto fin troppo corretto ed educato, quando invece avrei dovuto insegnarti fin da bambino le maleparole e a darle.” Come qualunque figlio nella media tendo a non dar mai ragione ai miei, però in questo caso credo che un fondo di verità ci sia.
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Ora: la consapevolezza che la mia adolescenza non sarebbe stata facile è sopraggiunta esattamente all’età di 12 anni, quando cinque ragazzi mi immobilizzarono per trascinarmi in un punto del piazzale della scuola che nei giorni di pioggia e per la settimana successiva era tale e quale a una palude. Dimenarmi servì a ben poco: mi ritrovai dentro una pozza piena di lerciume e carte di merendine prima che potessi rendermene veramente conto.
Successe tutto troppo in fretta. Ma una cosa la ricordo bene: la vergogna che pompava al rallentatore, mentre cercavo di rialzarmi di fronte a una coltre di studenti che era rimasta semplicemente a guardare la scena. Perché dei ragazzi che conoscevo a malapena avevano deciso a caso di umiliarmi in mezzo a tutti? Probabilmente perché le merendine di cui ti ingozzi strabordano dai pantaloni, mi dicevo. È per quello? Bravo. Perché sei disinvolto come un bradipo cecato? Si vede. Perché forse sei semplicemente sbagliato? Sì.
Provenendo da un’infanzia piuttosto serena, tutte quelle domande piombate come quei ragazzi, lo spaesamento subitaneo e la vergogna mai provata prima si tramutarono in poco tempo in un senso di inadeguatezza costante che mi sarei trascinato per anni. Come chiunque, avrei passato un’adolescenza ossessionata dall’autoanalisi, perché in quegli anni tutte le emozioni, brutte o belle che siano, sono stupidamente amplificate—solo che io l’avevo appena scoperto così, e nel frattempo tanta gente avrebbe pensato a ricordarmelo.
Se ho deciso di scriverne proprio adesso, all’età di 25 anni, è per due ragioni principali. La prima riguarda la diffusione del fenomeno: secondo l’indagine Invalsi 2014-2015, al secondo anno delle superiori circa un adolescente su due ammette di aver subito saltuariamente atti di bullismo. Uno su dieci, ripetutamente. La seconda ragione, invece, è l’interesse cresciuto attorno alla serie tv Tredici, uscita su Netlifx il 31 marzo scorso, che tratta il tema del bullismo e le sue derive, basandosi sulla figura retorica del climax per scopi meramente narrativi.
Per chi ancora non l’avesse vista, Tredici ruota attorno al personaggio di Hannah Baker, una ragazza di 17 anni che decide di farla finita per una serie di motivi—via via sempre più complessi—raccontati nelle sette audiocassette che lascia “in eredità” a chi i motivi li ha plasmati col suo operato.
Sebbene a me e a molti la serie sia piaciuta, comprendo perfettamente perché possa esser piaciuta molto meno ad altri. Intendiamoci: non mi sognerei mai di indicare Tredici come un manuale per capire chi soffre di bullismo e depressione, visto che ogni dettaglio è sempre troppo accorto nell’essere “banale” e che l’aspetto psicologico di Hannah non viene proprio approfondito. Tuttavia quello che mi sento di dire—obiezione che ho posto a chiunque criticasse la serie—è che avendo vissuto episodi di bullismo intravedo in Tredici il pregio d’aver evidenziato quanto la percezione di se stessi possa mutare irreparabilmente in negativo a seconda degli stimoli che giungono dall’esterno in una fase cruciale come l’adolescenza. Per chi ci si è trovato dentro svariate volte, sembra un ottimo spunto di riflessione da cui partire.
Per quanto mi riguarda, a 17 anni ero diventato più slanciato, avevo un lungo lessico di maleparole dalla mia e portavo sempre un berretto con la visiera il più abbassata possibile. Inoltre, in conseguenza alla pozza lercia ed episodi simili, si era progressivamente cementata nella mia testa l’idea che avrei interagito solo con chi di mio gradimento, evitando il più possibile situazioni di disagio e di parlare con sconosciuti di cui diffidavo.
Nel frattempo nella mia nuova scuola—in una città più grossa, che raggiungevo in treno dal mio paesino, scegliendo accuratamente il vagone giusto per evitare beghe inutili—erano cambiate le facce, ma la sostanza era rimasta la stessa.
A proposito del berretto: di rado mi capitava anche di non metterlo. Come quel sabato sera in cui ero in pizzeria con gli amici, e qualcuno aveva deciso di prendermi di mira lanciandomi addosso patatine piene di maionese. Il tutto era partito da due tavoli più in là, dal palmo di quei classici ragazzi che nei teen drama sono tanto popolari quanto dotati di una mira infallibile. In pratica: stronzi.
Come me, anche gli amici con cui ero seduto erano un po’ personaggi alla Clay (quello della serie) di Tredici. E nella nostra sfiga, ci supportavamo a vicenda—un aspetto fondamentale quando la gente ti rode l’autostima mentre vorresti solo che si facesse gli affari suoi—anche se spesso poi il supporto era degno di un ciclo verghiano: dicevamo in continuazione che avremmo voluto cambiare la nostra condizione, ma poi procrastinavamo sempre dentro un multisala del centro commerciale più vicino, per stare in pace tra noi.
Per capire più in generale quanto amici e altri elementi in gioco possano essere sostanziali, basta dare un occhio all’ultimo report di Telefono Azzurro, nel quale viene specificato che “oltre a bulli e a vittime il fenomeno coinvolge spesso una terza categoria di attori: gli spettatori.” Ne esistono di tre tipi. In primo luogo gli “osservatori silenziosi,” come nel caso degli studenti che rimasero impassibili mentre il morale mi cadeva in una pozza. Poi i “difensori della vittima,” anche se alle volte possono essere tardivi o poco efficaci negli interventi. E infine “i sostenitori del bullo,” definizione un po’ edulcorata per chi patteggia senza assumersi grosse responsabilità.
Se quest’ultimo può essere in un certo senso fluido—non per niente uno dei sostenitori dei “lanciatori di patatine” col tempo è diventato una delle persone che chiamo quando ho un problema, un amico—il ruolo che dovrebbe rimanere fisso è il difensore, anche se la storia di Hannah illustra come possa venir meno o dissolversi. Per me il difensore è stato indispensabile. È il personaggio che per il resto del tempo assomiglia più a un aiutante da schema di Propp, in grado di tirarti fuori dall’impasse emotiva che non avresti scelto mai. Può incarnarsi in un genitore discreto che ti sveglia dicendoti che il letto è più comodo del pavimento, in un professore che non sminuisce subito tutto come “cose di ragazzi”, in un coetaneo che ti passa un libro, in un’amica che ti minaccia di farti male davvero quando non vuoi mostrarle cosa nascondi sotto ai polsini.
Ora, non voglio soffermarmi sulla questione del suicidio in versione da vendetta o ricatto che moltissimi hanno rintracciato in Tredici: non ho le conoscenze per affrontare il tema, e soprattutto non rientra nel mio vissuto. Sono qui perché, conoscendo alcuni aspetti del resto, penso davvero che questa serie tv—nonostante tutti i difetti e binge watching provocatomi—sia riuscita a far centro su almeno due questioni. Una su quanto la definizione di bullo possa essere ampia: quando Hannah dice, “Nessuno sa per certo l’impatto che ha sulla vita degli altri,” è come se specificasse che non solo chi è palesemente stronzo rientra nella categoria. L’altra è ricordare a chiunque quanto, dall’altro lato della barricata, sia fondamentale non rimanere passivi come un bersaglio inchiodato, ma reagire.
Quella è una parola—e un verbo, e come qualsiasi verbo prevede un’azione—che in un certo senso durante l’adolescenza, nascondendosi e palesandosi a momenti alterni nella mia testa, mi spinse a non perdermi mai definitivamente nello sconforto: devi reagire, devi reagire, devi reagire, mi ripetevo spesso. Questo perché credo che la voglia di contrastare azioni non richieste nei miei confronti sia stata fin da subito sempre più forte degli insulti che ricevevo.
Come il pomeriggio in cui trovai il mio motorino sopra la cisterna della piazza che dava sulla Chiesa: non potei che mettermi a ridere forte e ad applaudire da solo a quella che alla Biennale di Venezia spaccerebbero probabilmente come una rivisitazione contemporanea del ready-made. Subito dopo andai senza pensare davvero alle possibili conseguenze dai realizzatori dell’opera chiedendo loro, “Ragazzi ho parcheggiato in maniera un po’ scomoda, potreste aiutarmi a mettere giù il motorino?”
Lo fecero.