C’è stato un periodo in cui l’indie rock britannico dominava il mercato musicale europeo. Non è passato neanche troppo tempo da allora, una decina d’anni—qua in Italia uscivamo matti perché non potevamo comprare i numeri nuovi dell’NME, facevamo la fila fuori dai palazzetti per adorare Alex Turner ed era una gara a chi scovava prima di tutti la next big thing del Regno Unito. Erano gli anni della rubrica “HYPE” di Deer Waves, gli anni in cui si ballavano i Joy Division e si celebrava l’ironia, gli anni delle immense compagnie, gli anni a stringersi le cosce nei Cheap Monday.
Tutto questo, a un certo punto, ha cominciato a ibridarsi con l’elettronica. Venne fuori il nu rave dei Klaxons e dei Late Of The Pier, venne fuori Intimacy dei Bloc Party e In This Light And On This Evening degli Editors, vennero fuori i Test Icicles di Dev Hynes (che poi sarebbe diventato Blood Orange). È una storia—che ho raccontato qua—finita relativamente male, con un sacco di band che sembravano promettere gli sfaceli e invece sono rimaste cristallizzate nelle poche, splendide cose dei loro esordi.
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La più grande eccezione viene da Bangor, nell’Irlanda del Nord, e si chiama Two Door Cinema Club. Venne fuori con un singolo intitolato “I Can Talk”, un missile di chitarrine e risvoltini che fece innamorare mezzo mondo—compreso Kanye West, che ne pubblicò il video sul suo epico blog dell’epoca, quando era tutto polos and backpacks. Uscì su Kitsuné, piccola casa di moda ed etichetta francese che mise il suo nome proprio su questo momento di incontro tra indie e club pubblicando compilation e singoli su cui comparivano nomi come Crystal Fighters, La Roux, Is Tropical e, appunto, i Two Door.
Invece di fare un album di debutto della madonna e poi svanire di disco in disco, i nostri amici del club del cinema a due porte hanno avuto la classica carriera da rock band che ce la fa. Cioè sono andati in tour senza mai fermarsi per sei anni, pubblicando di mezzo un secondo album più che onesto, hanno scazzato male finendo in rehab, si sono ritrovati e hanno continuato a fare quello che facevano prima—tra cui altri due album, di cui uno appena uscito, False Alarm—ma in modo più adulto, sano e pacato. Ed è probabilmente per questo che Alex Trimble, il loro cantante, si prende un bel bicchierone d’acqua gasata invece che una birra nel pub di Londra Nord in cui lo incontro.
Abbiamo quasi la stessa età, io e Alex. Una cosa che ci accomuna, mentre parliamo, è che ci sentiamo benedetti per quello che la vita ci ha messo di fronte: una carriera nel campo che più ci appassiona. Un’altra è lo stress causato dal fatto che per farla, questa cosa qua, dobbiamo stare attaccati a internet. Io ci sto lo stesso, e ci scrivo, pure adesso. Lui invece si è staccato e lo ha usato come punto di partenza per scrivere i testi di questo nuovo disco—che è quello dei trent’anni, e quindi anche della maturità, ma pure delle incertezze. Però suona felice, tutto anni Ottanta. Perché il punto è la gratitudine per essere sopravvissuti al tritacarne della fama e delle mode nell’era contemporanea, mica altro.
Noisey: Ricordo ancora l’emozione che provai quando trovai il video di “I Can Talk”, non mi ricordo dove. Pensai “Oh mio dio, devo assolutamente farli sentire ai miei amici”. All’epoca eravate ancora su Kitsuné, no?
Alex Trimble: Sì, quello fu il primo video che facemmo per loro. Ci aiutò un sacco e Megaforce, la compagnia che lo curò, all’epoca era ancora piccola. Abbastanza da potercela permettere.
Ah! Lo stesso studio che ha fatto “The Greeks” degli Is Tropical, anche loro all’epoca su Kitsuné. Quel video spettacolare coi bambini che si ammazzano!
Sì! Essendo anche loro francesi fu Kitsuné, che ha un sacco di agganci, a metterci in contatto. Ma a quel video successe una cosa importante: Gilles, il ragazzo che gestiva l’etichetta, si appassionò alla musica quando conobbe i Daft Punk negli anni Novanta. E gli fece vedere “I Can Talk”, e loro lo fecero vedere a Kanye West, che lo postò sul suo blog.
Quando ancora Kanye aveva un blog!
Sì! E così arrivò a un sacco di gente. All’epoca ci eravamo trasferiti a Londra da un paio di anni, avevamo appena mollato la scuola, avremo avuto 20, 21 anni. Eravamo cresciuti in una piccolissima cittadina in Irlanda del Nord e all’improvviso ci trovavamo tra la mani un singolo che passava in radio e un video super visto. E così cominciammo ad andare in tour, a girare in Europa. Poi ci chiamarono negli Stati Uniti, sarà stato il 2009.
Le chitarre erano iper melodiche, il pezzo era catchy.
Sì, ascoltavamo un sacco i Bloc Party da ragazzini. Silent Alarm è uscito quando avevamo 16 anni e l’anno dopo avevamo formato una band.
Ci sta di dire che nella vostra generazione di band siete tra quelli che hanno resistito di più e meglio al passare degli anni? Ci sono un sacco di gruppi che sono semplicemente svaniti.
Non so cosa sia successo, ma mi piace pensare a quanto sia bello che diverse delle band a cui venimmo affiancati all’epoca stanno uscendo con nuovo materiale quest’anno: i Bombay Bicycle Club, i Foals, i Vampire Weekend. Il fatto che è il 2019 e siamo ancora qua è piuttosto forte. E devo dire che forse siamo stati un po’ fortunati con il primo album.
Come mai?
All’epoca non avevamo un batterista, e quindi decidemmo di usare una drum machine. E firmammo con Kitsuné, un’etichetta che pubblicava più elettronica che altro, proprio nel momento in cui l’elettronica stava cominciando a diventare più popolare delle chitarre.
Penso che quegli anni siano stati definiti proprio dall’ibridazione tra indie ed elettronica. Una coda lunga del nu rave, l’ascesa della blog house.
Certo, ascoltavamo I Klaxons o i Late of the Pier, ma in realtà la questione era che non avevamo un batterista! Non avevamo altra scelta… e così cominciammo con una drum machine, che gestivo con un portatile. Poi scoprimmo i sintetizzatori, e Kev si mise a suonarci le linee di basso, e cominciammo a collegarci la chitarra. All’inizio ci sembrava ci mancasse un membro del gruppo, ma con il passare del tempo ci siamo resi conto di quanto ci ha liberati. Oggi comunque abbiamo un batterista, che è con noi da più di dieci anni.
Prima dei Two Door vi chiamavate Life Without Rory. Sono andato a cercare i vostri pezzi su Myspace e mi sono reso conto che non ci sono più, finiti anche loro perduti nel passaggio di server che ha ucciso un sacco di musica di quei tempi.
C’è ancora qualcosa su YouTube, credo! Non avevamo nemmeno così tanti pezzi, all’epoca stavamo ancora imparando a scrivere. Una sera dovevamo suonare a Belfast, ci chiesero di suonare per ultimi… e avevamo solo quattro canzoni. In qualche modo riuscimmo a farle durare un quarto d’ora, e alla fine non importò niente perché c’erano dieci persone a vederci. Eravamo MOLTO lenti. Ma riuscimmo a tirare fuori un EP e da quel gruppo ci portiamo dietro la consapevolezza che fare musica era quello che volevamo fare per vivere.
Quando sceglieste di mollare la scuola eravate coscienti di quali sarebbero state le conseguenze?
All’epoca ci pensavo, sì. Tutti a scuola me lo ricordavano ed entrambi i miei genitori sono insegnanti. Insomma, come ti dicevo venivamo da una piccola cittadina in una piccola nazione. Le probabilità che tutto questo sarebbe successo erano davvero poche, Ad ogni modo, provammo tutti a iscriverci all’università. A me non presero! Mi bocciarono all’esame…
Forse era il destino a dirti che andare a scuola non era cosa tua!
Non avevo le idee chiare. Volevo studiare arte, dipingevo e scattavo foto, ma quello che volevo davvero fare era suonare in una band. Quindi pensai di iscrivermi a un corso di musica, magari diventare un produttore, un ingegnere del suono. Ma per farlo serve studiare matematica e fisica, che non sono roba mia. Mi bocciarono a entrambi, e finì lì, mentre Ken e Sam vennero presi. Ad ogni modo, il piano era di prenderci un anno, e se le cose non fossero andate loro avevano comunque il loro posto in università, e io mi sarei iscritto ad arte. Non so se eravamo davvero convinti o se lo avevamo fatto per tranquillizzare i nostri genitori… Kev era fortunato, ha un fratello maggiore che fa il musicista, e quindi la sua famiglia lo ha sempre supportato.
Quale fu il momento in cui vi rendeste conto che in effetti le cose stavano andando bene?
È stato un processo lento, ma molte cose sono successe molto velocemente all’inizio. Nell’estate del 2007, a liceo finito, cominciammo a metterci tutto. Scrivevamo canzoni ogni settimana, le registravamo e le caricavamo su internet. Contattavamo chiunque. Mandavamo mail ad agenti ed etichette e uno, Dave Wallace, ci contattò. Aveva appena cominciato a lavorare per Primary Talent, l’agenzia con cui lavoriamo ancora oggi. Noi, super felici, accettammo e lui ci organizzò un tour per settembre. Partimmo con questa band, gli Iglu and Hartley, che avevano una sola hit, “In This City”. Fu il nostro primo tour, comprammo un furgone, e da lì piano piano è successo tutto. Nei mesi successivi conoscemmo Kitsuné, suonammo all’estero per la prima volta, in Francia e Germania. Sei mesi dopo eravamo in uno studio a Londra Ovest a registrare il nostro primo album. Poi, una volta uscito quello, non è successo niente per sei mesi, un anno! Eravamo una piccola band, su una piccola etichetta, con un piccolo management e pochi soldi.
In Italia c’era comunque hype per quello che facevate. Blog che coprivano quello che succedeva negli Stati Uniti, piccole sacche d’interesse che condividevano link su Rapidshare. Ed era un po’ l’ultimo periodo in cui si poteva ancora scoprire nuovi gruppi in quel modo.
I blog sono stati un sacco importanti per i nostri inizi. Non c’era hype attorno a noi nell’industria musicale.
Esatto, perché l’hype veniva dalla gente che vi ascoltava.
Sì! Non passavamo in radio, le riviste non ci cagavano, i social media non esistevano veramente. E quindi c’erano i blog! Persino l’idea stessa dei blog era nuova. Ricordo che quando suonammo in Germania e ci trovavamo di fronte gente che sapeva i nostri pezzi, un centinaio, rimanemmo… affascinati.
Se riascolti Tourist History oggi, che cosa ti passa in testa?
Mi è capitato da poco, dato che stiamo mettendo insieme il nostro nuovo live. Era da tanto che non lo ascoltavo. E suoniamo spesso dal vivo quei pezzi, ma è diverso, dato che ogni volta che li esegui fai qualcosa di diverso. L’impressione che ho avuto è che tutto suonava davvero giovane. La mia voce, il modo in cui cantavo, i testi che scrivevo… cose che non noto quando suono dal vivo, perché suonare una cosa così tante volte te la rende naturale, istintiva. Ma lo erano, perché avevo 17 anni quando le ho scritte, e quest’anno ne ho fatti 30. È passato un sacco di tempo. Ma da qualche parte nella mia testa questo tempo non è mai passato.
C’è questa storia che si ripete spesso per cui i primi dischi sono il frutto di anni di lavoro, mentre i secondi nascono in periodi di tempi molto stretti. Fu così anche per Beacon, giusto?
Oh, certo. Tourist History non andò poi così bene nel primo anno dopo l’uscita, e dopo un anno di tour decidemmo di fermarci per scrivere il secondo. E proprio in quel momento ci nominarono per un award di MTV America. Ed era una roba enorme, perché si trattava di ragazzi della nostra età che ci ascoltavano e votavano per noi. Andammo alla cerimonia ad Austin, Texas, suonammo un pezzo e vincemmo. Così cominciarono a chiamarci, e quel tour che si sarebbe dovuto fermare andò avanti per un altro anno e mezzo. Poi arrivò il momento di scrivere il secondo album, ma non avevamo il tempo che credevamo di poter avere. E non avevamo soldi! Quindi ci trasferimmo tutti in una casa a Glasgow, dove costruii uno studio nel seminterrato. Avevamo tre mesi e ogni giorno vivevamo insieme. Stavo sveglio fino a tardi a scrivere in camera mia, registravamo demo ogni giorno fino ad avere dieci, undici canzoni. E poi conoscemmo Jacknife Lee.
Ecco, Jacknife Lee è stato una persona fondamentale per la vostra carriera. Come lo conosceste?
Fu una persona del nostro management a presentarcelo, che conosceva il suo manager.
Come ci si sente a delegare a qualcun altro il controllo di una cosa che sta andando così bene?
Bé, è quello il punto. Io non avrei mai delegato niente a nessuno, quindi dovevo incontrare una persona che avrebbe lavorato CON noi. La prima volta ci sentimmo su Skype e una delle prime cose che ci disse fu “Voglio fare quello che voi volete fare. Non ho un mio sound che vi voglio imporre.” Ed è vero, perché ha registrato dischi epici con gli Snow Patrol, roba più d’avanguardia, roba elettronica. Era in un gruppo punk, i Compulsion. Ha fatto roba basata su campionamenti. Ed era irlandese come noi. Ci invitò a Los Angeles e registrare con lui fu davvero semplice.
Dopo anni passati a lavorare con producer così grandi, che cosa ti resta del fai-da-te? Perché in fondo è da lì che avete iniziato ed è così che oggi, il 99% delle volte, si comincia a fare musica.
È un modo di fare che adoro. Insomma, all’inizio registravo in soffitta in casa dei miei. Lo stesso vale per Jacknife… e poi il suo studio è quasi come una grande cameretta. Lo ha tirato su in una piccola casetta accanto alla sua, e quindi ti trovi a registrare la batteria in cucina, dove la mattina ti fai il caffè. C’è uno stanzone con un computer, ok, ma a parte quello è una casetta piena di dischi e strumenti. Non è uno studio professionale.
Avete parlato un sacco della pausa che vi siete presi dopo la fine del tour di Beacon e dei problemi personali che avete affrontato. A forza di discutere della questione, non è un po’ diventata una storiella che vi raccontate? O parlarne così tanto vi ha aiutato ulteriormente?
Abbiamo fatto il nostro ultimo concerto a dicembre 2013. Non abbiamo parlato fino all’inizio del 2015. Io e Kev ci siamo trasferiti negli Stati Uniti, Sam a Londra. Ne avevamo bisogno, perché erano anni che vivevamo insieme 24 ore al giorno. Quando ci siamo ribeccati abbiamo dovuto conoscerci di nuovo e, bevendo una cosa, ci siamo resi conto che avevamo dei problemi, cose che non ci piacevano l’uno dell’altro. Rabbia. Abbiamo fatto delle sessioni di terapia di gruppo. E intanto sia io che Kev stavamo gestendo i nostri problemi personali con la droga e l’alcool. Ci stavamo già facendo aiutare da dei professionisti e ci rendevamo conto che stava funzionando.
Quando siamo arrivati a dover fare nuovi gire di interviste ne abbiamo dovuto parlare ancora, ed ancora. Permettere a quel dialogo di proseguire ci ha aiutato molto, capita di ricevere nuovi spunti e interpretazioni. Ma oggi come oggi nemmeno ci pensiamo, è parte della nostra storia e tutto quello che abbiamo passato… sono felice che sia successo. La prima parte è stata orribile, ma oggi non saremmo amici altrimenti. Non siamo più vicini come quando avevamo quindici anni, ma da quando siamo nella band il nostro rapporto è il migliore di sempre. E tutti sono felici delle loro singole vite. Sam e Kev si sono sposati, io convivo con la mia partner a Londra.
Ho trovato un’intervista del Guardian che vi descrive come personaggi: “l’edonista ansioso”, “il casalingo sotto pressione”, “l’aspirante artista erudito”. E insomma, mi ha fatto strano.
Io ci sono abituato. Penso che molti giornalisti vogliono riassumere una band per spiegarla al lettore, ma vogliono anche qualcosa che suoni bene. Non mi ritrovo sempre in quello che scrivono di me, in passato leggevo un sacco le interviste o le recensioni. Non lo faccio più. È come stare sui social: c’è del bello e del brutto, ma non credo che ti faccia bene. Nemmeno il bello. Ti senti bene per un secondo, ma finisce lì.
Se sul vostro terzo album Gameshow scrivevi molto, ironicamente, delle vostre esperienze tra amici sul nuovo disco parli molto di gioventù che se ne va: “Se non dovessi sentirmi più giovane di così, fammi vedere la porta”. Stai cominciando a sentire il passare del tempo?
Mentre scrivevo pensavo soprattutto a un passaggio generazionale, che percepivo più intensamente di quanto mi fosse mai successo. I teenager e i ventenni stanno dominando il mondo ora, specialmente all’interno della cultura pop… è il classico discorso del passaggio di responsabilità dall’alto al basso: sono i consumatori a decidere quello che è popolare, in ogni ambito e più che mai. I giovani stanno ereditando il mondo in un senso più tangibile che mai, e io sto venendo a patti con questo shift, non mi sento vecchio ma mi sento anche di non capire molte delle cose che stanno succedendo. Capisco la tecnologia, la uso per lavoro! Ma a differenza di molte persone della mia generazione non uso i social, e quindi mi sento un po’ ignaro di tutto quello che sta succedendo a livello di cultura pop ora come ora. Uno dei discorsi principali di questo disco è: mi sento giovane, ma il mondo sta lavorando per farmi sentire più vecchio di quello che sono.
In “Break” dici “Potrei dare forma al rock and roll / Ma tutto quello che mi torna indietro è un eco ancora più forte”. Che cosa volevi dire?
Quel pezzo durava quattro minuti, quando l’ho scritto. L’ho fatto sentire a Jackinfe, con cui c’è un patto di fiducia per cui può essere completamente onesto, e mi ha detto che effettivamente era una cosa che avevo già fatto in passato. Quindi ci siamo messi a rilavorarlo, lui l’ha fatto a pezzi, e io quindi a riscrivere il testo… e ho cominciato a scrivere proprio del fatto che stavamo facendo questa cosa. L’eco sono io che provo a ripetere me stesso. E un altro pensiero che stavo facendo in quel periodo era che anche noi avevamo, in fondo, ispirato qualcuno. Ci sono in giro band che suonano come i Two Door, come Tourist History. Mi stavo rendendo conto che siamo in giro da dieci anni e abbiamo giocato il nostro ruolo, per quanto piccolo, e cambiato qualcosa nella musica pop. Anche se non sento di meritarmelo. Non mi sembra vero.
“Nice To See You” è un pezzo piuttosto triste, e anche lì torna l’idea del passare del tempo, ma attraverso l’incontro con una persona che non vedi da tempo.
Molto di questo disco parla di come internet ha cambiato le nostre vite. Incontrare qualcuno dopo tanto tempo, una volta, poteva essere come conoscere una persona completamente nuova. C’era tutta una serie di cose da scoprire, condividere e raccontarsi. E ora non più, dato che puoi seguire chiunque. È come se il non-vedersi non abbia un vero valore, che tanto ci si followa. E poi, mi capita spesso di incontrare persone che sanno chi sono, e io non conosco. Lo noto specialmente quando torno in Irlanda e vedo amici con cui andavo a scuola… sanno tutto della mia vita. Che siano sui social o no, lo sanno. Perché magari mi hanno visto in TV, comprato un disco, letto su un giornale. Sapere che la mia vita è così esposta, che io lo voglia o no, è strano. Ma sta diventando meno… eccezionale. Perché tutti vivono all’aperto.
E così ci viene voglia di prenderci una pausa dai social media, se non di abbandonarli completamente. È una cosa che sta succedendo, sia tra i millennial che tra i ragazzi della Generazione Z.
È una cosa che tutti dovrebbero provare. Non ho niente contro i social di per sé, ma devi usarli se ti fanno stare bene. È lì il punto, ci fissiamo con le novità ma non tutti i progressi sono necessariamente “reali”. I social stanno rendendo la tua vita migliore? Risponditi e poi decidi cosa fare.
Il vostro rapporto con i social ha influito sulle dinamiche che hanno portato al disfacimento della band?
Non tanto, perché se suoni in una band sei in una bolla. Non è necessariamente bello… è che non senti niente. Noi avevamo un calendario e degli impegni. Succedevano cose incredibili, ma era come se non riuscissi a rendermene conto e apprezzarle. Facevamo concerti, vendevamo dischi, giravamo il mondo, ma non so se l’ho fatto davvero. Stavo solo seguendo un’agenda. Quando ci siamo fermati mi è caduto addosso tutto, nel bene e nel male. Un momento pensavo “Cazzo, abbiamo suonato davanti a 20.000 persone!” E poi “Cazzo, ma non siamo più amici!” Era un saliscendi, e poi mi sono schiantato. I social mi fanno la stessa cosa. Li ho usati per qualche anno, mi sono preso una pausa, stavo bene. Poi avevo ricominciato per pura FOMO, ma poi ho ricominciato a usarli sempre meno. Non ho chiuso i miei account, sono ancora lì, ma sarà un anno che non li uso. E faccio più cose che mai. Esco di più. Vado al cinema. Vado ai musei. Leggo libri. E mi sento come se stessi migliorando a personal relationships. Vedo più gente, perché ho BISOGNO di vederla.
Su “Nice To See You” c’è pure Open Mike Eagle, un rapper underground della madonna che sinceramente non mi sarei mai aspettato di sentire su un vostro disco.
Nemmeno io! Allora, Jacknife ha una collezione di dischi assurda. È un’ossessione, ma ci sta dato che in fondo farli è il suo lavoro. Ogni giorno prima di metterci a scrivere ci svegliavamo, facevamo un caffè e passavamo qualche ora a parlare e ascoltare dischi. Così è venuto fuori Open Mike… non ascolto molto hip-hop, ma lui ha qualcosa di diverso, è tutto tranne che simile a quello che c’è in giro adesso, sia a livello musicale che tematico. E la stessa cosa è successa con i Mookomba, una band dello Zimbabwe che avevamo ascoltato e deciso di campionare. Quando li ho cercati su Google per trovare un contatto a cui chiedere il permesso ho visto che sarebbero arrivati a Los Angeles la settimana successiva. Quindi gli ho mandato una mail chiedendogli di venire in studio, era la prima volta che facevo qualcosa del genere… e hanno accettato. Quindi, tutto preso bene, ho fatto la stessa cosa con Mike Eagle. E ha accettato. Insomma, è stato semplice. Bastava chiedere!
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