Ho passato un giorno a Roma fingendomi un turista


Foto di Niccolò Berretta.

Il primo novembre del 1786 Johann Wolfgang Goethe, “solo soletto, non avendo per bagaglio che un portamantelli e una valigetta,” arriva a Roma, “la capitale del mondo […] tranquillo, acquietato per tutta la vita.” “A partire dal Seicento,” scrive il giornalista Francesco Longo, “il percorso di formazione dei giovani intellettuali europei prevedeva l’incontro con rovine, cupole e vulcani, alla ricerca del senso del passato: il tutto nella speranza di toccare l’origine ancestrale dell’arte e della bellezza.”

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L’epoca di quei Grand Tour è tramontata e lo spirito che animava i pochi colti avventurieri si è ormai estinto. Viaggiare non è più una faccenda da ricchi o intellettuali: dal secondo dopoguerra, con il turismo di massa, siamo diventati tutti dei giramondo. Basta comprare un trolley Carpisa da 99,99 euro “per bagaglio” e una Lonely Planet “per l’arte e la bellezza.”

L’“homo turisticus” è una specie umana depersonalizzata: compra osceni souvenir, mangia in ristoranti tipici e carissimi, veste in modo comodo e anonimo, Reflex, K-way, foulard, pashmine e ventagli “de pora nonna.”

La differenza però che rende il turismo a Roma unico e anomalo è la straordinaria qualità delle sue attrazioni. I monumenti della città sembrano talmente famosi e universali che finiscono per non appartenere a nessuno e sono percepiti, anche dai romani, come luoghi turistici. Sulle mappe della capitale esistono zone rosse che separano la città eterna da quella mortale e visitare la prima sembra possibile soltanto nei panni di un forestiero.

All’interno di queste aree si vive soltanto di turismo. I romani che ci lavorano recitano la parte degli indigeni pittoreschi e vendono quella colorita romanità a un pubblico che secondo loro apprezza il mix coatto di epica e cafoneria. 

Quello che ancora rimane un mistero è che cosa nel 2014 il turista straniero, appena arrivato in città, si aspetti dalla “caput mundi”. È consapevole che nei ristoranti tipici sarà bastonato con conti assurdi? Apprezza davvero la romanitas dei Gladiatori davanti al Colosseo o pensa che siano una triste pecionata? Lo sa che i quartieri non si chiamano “Villa Borghese” e “Antica Roma”, come scrivono le guide turistiche? 

Per rispondere a queste domande e per capire cosa vuol dire vedere da fuori la città più famosa del mondo, che ho sempre vissuto da dentro, ho finto per un giorno di essere turista anche io. Senza un itinerario preciso, procederò lungo la strada opposta a quella che ho sempre seguito nella mia vita di romano: dritto al cuore della ZTL. 

Cominciamo il tour la mattina presto, alle otto, alla stazione Termini: il capolinea dove, come direbbe Jean Mistler, arrivano “persone che sarebbe meglio rimanessero a casa loro, in posti che sarebbero meglio senza di loro.” Prima della partenza avevo letto sulla mia guida di stare attento ai luoghi affollati, soprattutto le stazioni dei treni. Le “gangs of kids” ti distraggono chiedendoti informazioni e poi qualcuno agguanta il portafoglio o la macchina fotografica. La guida mi suggerisce nell’eventualità di gridare con “loud, angry voice: ‘Va via’!”

Alle otto di mattina la stazione è molto trafficata, così in preda all’ansia porto il mio zainetto Quechua al sicuro, uscendo di corsa su piazza dei Cinquecento. Là, parcheggiati, oltre i taxi regolari, ci sono gli abusivi, che portano a San Pietro ignari turisti con corse da 50 euro; ci sono anche i più economici double decker bus, rossi e scappellati, che fanno il tour della città in due ore no-stop, a 15. Contemplo l’idea di godermi la città in poltrona, ma poi penso al mio illustre predecessore Goethe e mi sento uno straccio.

Prima di lasciare il capolinea rubo una delle mappette. In mezzo alle miniature scontornate male dei monumenti più famosi, che sembrano tanti stronzi di piccione, scopro che esiste anche il cenotafio dell’Hard Rock Cafè. 

Su piazza dei Cinquecento salta subito all’occhio il monumento di Giovanni Paolo II di Rambaldi Rainaldi. Si intitola: “conversazioni”, e ha fatto incazzare tutti, romani e preti, suore e gatti. Credo che porti anche un po’ sfiga. Guardare negli occhi quel Karol, metà Kingpin e metà Super Papa Buono, potrebbe avere gli stessi effetti malefici e contrari di incrociare lo sguardo della Minerva alla Sapienza: riscriversi alla triennale, della LUMSA. 

Tengo gli occhi bassi e raggiungo piazza Esedra che qualche commentatore di Tripadvisor mi consiglia di evitare (vista la vicinanza con la stazione e visto lo stato di abbandono in cui riversa). La fontana delle Naiadi sta al centro della rotonda da più di un secolo, e nonostante “le merde canine,” il “McDonald’s all’angolo” e i commenti negativi su Tripadvisor, mi sembra meravigliosa e in gran forma, più in salute di noi, che ci sediamo sul bordo della sua vasca a riprendere fiato.

Lungo il marciapiede di via Nazionale insieme a negozi di abbigliamento anonimi e costosi ci sono gli antichi resti dei Grand Tour seicenteschi: chioschi organizzano visite guidate nei dintorni, intendendo Napoli, Pompei, Firenze. Siamo appena arrivati e secondo loro dovremmo già ripartire, come Leopardi, cui “la grandezza era venuta a noia già dopo il primo giorno.”

Lo stato di confusione geografica prosegue anche oltre villa Aldobrandini, a Via Magnanapoli. Fuori dai negozi di souvenir ci sono i magneti dell’Anfiteatro Flavio e quelli del cazzo di David. 

A pochi metri si possono ammirare i resti della Basilica Ulpia. Roma è un ossimoro: da una parte l’aspetto kitsch, banale e grossolano e dall’altra un’Arte che meriterebbe di essere contemplata in silenzio. Ma Roma sembra essere preparata a tutto, “a quelli che visitano per amore delle Arti superiori,” come disse Goethe: “e quelli che si divertono in altro modo.”

Al Vittoriano io e altri turisti decidiamo di salire sulle terrazze del magnifico monumento per “la miglior vista della città,” a detta di Tripadvisor, “proprio perché non si vede il Vittoriano,” a detta dei romani. Quando riscendiamo, a Piazza Venezia incrocio un centurione solitario in stato confusionale. Urla al vento: “Roman soldgeeer, pik-ceeeer pik-ceeeer, fodooo, fodoooo.” Per uno scatto di gruppo insieme ad altri due colleghi vuole 30 euro. 

Raggiungo il “noisy, colourful, much-loved market” di Campo de’ fiori, passando per largo di Torre Argentina (cfr. “Legendary Crimes” nella guida). “Al Campo,” come dicono i romani, ci stanno i classici banchetti di fiori e di pasta colorata. “Six coloooor pasta, six colooor, pasta bella, que pasa? que pasa?”

Il mercato è affollato. I commercianti sono per la maggior parte bori antichi, e le loro voci sono familiari e maliarde. Una lingua madre e puttanona.

La mania di scattare foto spinge una famiglia di ariani, giunta dal nord Europa, a mettersi in posa davanti a un cetriolo mai visto così grosso. Non ci sono soltanto romanacci a vendere l’ortofrutta. Qualche giapponese divora succo di melograno e assaggini di pecorino DOP che je spigne er Bangla.

Sono soltanto le dieci e mezzo e già cominciamo a fare cose a caso, quelle che si fanno soltanto in vacanza. Come bere una Peroni grande sotto la statua di Giordano Bruno.

Durante la mia seconda colazione, sfoglio la guida cercando di imparare l’abc dei romani. Leggo “le frasi utili da usare in viaggio” con tanto di corretta pronuncia dall’inglese. 

Che oon owt-let in zo-na?” 
“So-no kwee kon eel mee-o ma-ree-to/ra-ga-tso.”
Chee ve-dya-mo a-le say per oon a-pe-ree-tee-vo.”

Raggiungo Trastevere, desideroso di vedere i set di To Rome With LoveUn Sacco Bello, ma come spesso accade durante i viaggi all’estero, li raggiungo nell’ora sbagliata. Non c’è quasi nessuno, soltanto un’altra turista, buggerata come me. Scatta foto alla scalinata vuota, che la sera si riempie di ragazzi. A Trilussa si sta bene anche a mezzogiorno, anche se, a quest’ora, non è neanche la piazza del Mago Guarda.

Mi convinco di essere diventato ormai un turista anziano e così decido di andare dai miei simili, e visitare un luogo da grande. Vado al Vaticano. 

Via della Conciliazione, una trovata ante-litteram del sindaco Marino e del suo folle piano di ristrutturazione del centro storico è diventata, per credenti e non, una delle tante vie del passeggio romano. A differenza di Via del Corso e via Condotti lo shopping è geriatrico.

I commercianti gridano frasi sconclusionate nella lingua del turista e ci vogliono vendere di tutto: Rosari Special Price, magliette di Totti, pinocchi e statuine di Papa Francesco che se gli schiccheri la testa non smettono più di stare ferme. Nei negozi “roma eterna” si può acquistare “eau du vatican” a soli otto euro.

In balia di quel mercato selvaggio e un po’ blasfemo realizzo che in realtà San Pietro non esiste

Potrebbe essere ovunque nel mondo e non farebbe differenza. In fila per entrare nella Basilica c’è troppa gente, e l’unico modo che mi rimane di visitarla è con Lorena Bianchetti su RaiUno. Questo accresce ancora di più il mio senso di lontananza.



T’invidio turista che arrivi, t’imbevi de fori e de scavi, poi tutto d’un tratto te trovi Fontana de Trevi che è tutta pe’ te.

Oggi però a piazza di Trevi si sta stretti. Siamo un centinaio. Una fracicona che vende souvenir grida a una folla che non comprende l’idioma: “Ammazza che puzza d’ascelle.” Sfortunatamente stanno ristrutturando la Fontana più bella del mondo. Per questo come lenti bovini siamo costretti a sfilare su una passerella provvisoria sopra la vasca vuota. 

Per scattare una foto da cartolina, cercando di non riprendere gli imballaggi, tocca arrampicarsi sulla recinzione scivolosa di plastica; i più furbi comprano di corsa i selfie stick dai venditori ambulanti per 15 euro, e innalzano le loro antenne d’insetto. Le statue sono quasi interamente incartate, non c’è acqua nella vasca, è vietato lanciare monetine… perdo la pazienza: dove cazzo è la mia Dolce Vita?

Per chi come me proprio non potesse farne a meno, c’è una pozzanghera d’acqua piovana dove si possono buttare i cent ed esprimere il desiderio di ritornare. Anche lì c’è da fare la fila. Qualcuno ne fa più di una: gli uomini sono i più giocherelloni. Lanciano tutto quello che hanno in tasca e poi chiedono altri soldi alle mogli che come delle madri pazienti li riforniscono di gettoni.

Alle tre e mezzo, nell’ora in cui di solito pranzano i turisti e i barboni, decido di fermarmi al primo ristorantino tipico di Trevi. Il locale è pieno, così, senza chiedere prima all’oracolo Tripadvisor stabilisco che si mangerà bene. Sono stanco e affamato. Parto con un bel primo piatto di pasta da vero amante del carboidrato italiano, semplice e genuino, spaghetti all’amatriciana. 22 euro: fine del mio pranzo.

Al Greenwich di Roma c’è sempre il sole. Stiamo seduti sui gradini della fontana di piazza della Madonna dei Monti insieme a qualche studente, bo-bo, vecchio col cane e ragazze lattiginose con buste American Apparel. Ci andiamo a prendere un gelato dai gusti buffi a piazza degli zingari. Seduti, a mangiarlo sui gradini, il tempo vola anche non facendo niente, e non ci si sente mai in colpa.

Anche qui, come a Trastevere, è la notte che si riempie di giovani.

Il giro doveva terminare con la visita al Colosseo, ma anche stavolta non riesco a entrare; c’è troppa fila e io e un gruppo di giapponesi delusi siamo costretti a saltare l’ultimo ingresso della giornata. Loro ci riproveranno domani, e ci proveranno finché resteranno qui a Roma. Io invece vado via, mi tolgo il costume da turista e lascio “quella Roma che ci invidiano tutti, quella sempre col sole.”  

A differenza degli altri turisti però non devo prendere un aereo o un treno per tornare a casa. Mi basta qualche fermata della linea B della metro. Ma quel viaggio non è breve come sembra. Durante il tragitto penso a quante volte noi romani diciamo di essere abituati alla bellezza di Roma, ma quanto in realtà non facciamo altro che snobbarla e cercare una giustificazione alla nostra abulia.

Colpa del nostro senso di superiorità, certo, per distinguerci da tutti gli altri, specialmente dai turisti. Come se fare la fila ai musei o alla Basilica di San Pietro fosse una sconfitta, per noi che in questa città ci siamo nati. 

Ma colpa anche di chi ha gestito e continua a gestire quelle zone rosse. Chi rende cioè ancora oggi le visite al centro degradanti, approssimative e grossolane. Adatte a un gusto neutro, alla tabula rasa del turista. È quest’obbligo di sentirsi un forestiero per forza all’origine della nostra arroganza e bugiardaggine. 

Dove viviamo noi non ci sono Cesari, Gladiatori o Woody Allen, ma al massimo qualche brutto Mussolini o Pasolini. È per questo strano tipo di lontananza che al centro ci andiamo soltanto la sera, non per vedere la Grande Bellezza, ma per bere. È l’unico modo che abbiamo per non sentirci dei coglioni nel nonluogo più bello del mondo.


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