Hamilton Harris (a destra) con Harold Hunter (centro) e lo skater Jeff Pang ai tempi delle riprese di Kids. Foto di Gunars Elmuts
Hamilton Harris è il ragazzo di Kids che ha insegnato a ogni adolescente di periferia che abbia visto il debutto cinematografico di Larry Clark a girarsi una canna. È anche l’uomo dietro The Kids, un documentario che racconta le vite delle persone comparse nel film. Che, per chi non lo sapesse, è una storia di fantasia su droga, sesso, giovani, e AIDS negli anni Novanta di New York, ispirato e interpretato da un gruppo di ragazzini di Manhattan le cui vite non erano molto lontane da quelle dei personaggi.
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È questa distinzione che ha ispirato il documentario di Harris. Mentre alcuni dei protagonisti sono diventati famosi, altri membri del cast non erano soddisfatti dell’immagine che il film offriva del loro gruppo, e molti si sono sentiti tanto emarginati quanto lo erano prima che i turisti li fermassero per chiedergli foto e autografi davanti a un negozio Supreme. Ho chiamato Harris, che ora vive in Olanda, per parlare dell’eredità di Kids.
Harris (al centro, con la camicia aperta) e altri durante le riprese di Kids.
VICE: Nel comunicato stampa del film parli di come crescendo abbiate creato la vostra realtà. Nella recensione di Kids, Roger Ebert dice che quella realtà era un mondo in cui “gli adulti non esistevano e basta.” Che ne dici?
Hamilton Harris: No, io non la penso così. Forse è perché tra quattro giorni avrò 40 anni, ma sto arrivando alla conclusione che ci sono un sacco di punti di incontro tra bambini e adulti: alcuni bambini possono essere psicologicamente ed emotivamente maturi quanto un adulto, e viceversa.
Quindi qual era questa realtà?
[ride] … per quanto cruda, è stata un’esperienza divertente. E per quanto divertente, ci sono stati un sacco di dolore e traumi. Sai, crescendo in America—vale per tutto il mondo, ma dico America perché è lì che ero negli anni Novanta—conosci roba come il crack, l’AIDS, e il razzismo. Siamo cresciuti in questo ambiente, ma essendo un gruppo di individui con diversi background razziali, etnici e sociali (anche se a casa avevamo tutti le stesse situazioni traumatiche) la nostra esperienza ha superato i confini della razza e delle origini.
E pare che lo skate abbia contribuito a questo superamento.
Sì, è vero. La cosa bella dell’andare in skate è che sei sempre in movimento. E quando sei sulla tavola, anche se sei in gruppo, rimane un’attività individuale: dipende tutto da te. Quando cadi, sta a te rialzarti e gestirtela. Ti dà un senso di responsabilità.
Ma vi ha dato anche un’identità collettiva.
Sì, ed è questo quello che Larry ha colto nel film. Non mi importa di quanto abbia rimaneggiato storia—noi che ce la prendiamo coi gay e via dicendo. Erano la storia e la visione di Larry, nient’altro. Ma è riuscito a cogliere quell’essenza primordiale della realtà che stavamo vivendo, l’energia, che è una cosa spirituale.
È stato anche un momento abbastanza cruciale nello skate di strada.
Kids ha portato la sottocultura skater nella cultura pop. Prima che il film uscisse lo skate a New York era una cosa tutt’altro che popolare. Essendo cresciuti nelle case popolari, dove vivevano solo neri, portoricani, e magari le famiglie bianche povere, andare in skate non veniva vista come una cosa figa. E all’interno del nostro gruppo—di bianchi, spagnoli, indiani, cinesi, albanesi, musulmani, cristiani, atei—lo skate era un elemento di unione.
Chi ha continuato ad andare in skate, a parte te? Harold Hunter, Justin Pierce e Javier Nunez?
Quando uno pensa a Kids pensa a Justin, Harold e pure a Leo Fitzpatrick, e a Rosario [Dawson] e Chloë [Sevigny], ovviamente. Kids si basava sulla cultura skate, ma questo aspetto non viene esplorato nel film, perché non è quello che la storia voleva raccontare.
E cosa è successo dopo?
Dopo il film alcune persone che non avevano fatto parte del cast, ma che erano nel gruppo, non sopportavano bene questa intrusione nella nostra vita e il fatto che la gente ci facesse dei soldi, mentre noi stavamo ancora lottando, mentre cercavamo il nostro posto nel mondo. Non è stato uno sbaglio dei registi, quelli che comparivano hanno dato il loro consenso. Ma ci sono stati un sacco di problemi sia prima che dopo l’uscita: persone che sono passate da questa piccola sottocultura a una cultura pop più grande. È ancora un argomento molto delicato, ci sono un sacco di risentimenti. Quindi questo documentario è una bella responsabilità.
Cosa ti ha spinto a fare il documentario?
È iniziato nel 2006, qualche mese dopo la morte di Harold. All’epoca erano usciti libri e documentari sulla nostra vita. Era bello, ma erano storie che venivano raccontate da altri. Avevamo ancora a che fare con le conseguenze dei traumi mentali ed emotivi legati al film, poi Harold è morto, però l’idea di fare qualcosa continuava a stuzzicarmi. Ne ho parlato con uno dei produttori, Peter Welch. È stato nel 2008, dopo anni di insicurezza e paura di assumersi questa responsabilità. Fino ad allora non ho iniziato per davvero.
Perché c’erano ancora temi che non volevi affrontare?
Sto ancora fuggendo da me stesso. Ma nel 2010 abbiamo girato un po’ con Tobin Yelland, che è uno dei fotografi di punta nella scena skate. Ne avevo parlato anche con Chloë, quindi abbiamo girato delle interviste con lei e altri skater, ma non avevamo ancora messo insieme il tutto. Poi, nel 2013, abbiamo coinvolto Caroline Rothstein, che è anche produttrice del film e ha scritto questo articolo [sull’eredità di Kids]. è stata seguita da Harold Hunter membro del Consiglio di fondazione e la sorella di Harold Forsyth Jessica, e poi dallo skater nativo di NYC-Peter Bici. E ‘stato coinvolto forse un mese e mezzo fa, perché avevo bisogno di qualcuno che fosse cresciuto con la scena di pattinaggio di New York, che avesse attraversato una certa evoluzione. Questo senza togliere a tutti gli altri e le loro esperienze, naturalmente.
Harold Hunter
Ho presente quell’articolo. C’è una parte in cui si parla di come Kids abbia dato una determinata immagine degli skater senza indagare troppo su ciò che ci stava dietro. Il documentario affronta anche quest’aspetto?
Sì, perché è da lì che viene quell’energia, la lotta interiore. Non avrebbe senso non parlarne.
Concordo. Avete coinvolto anche Larry Clark ora, giusto?
Sì, ad aprile sono andato a trovarlo a New York, ed è stato un incontro molto soddisfacente. Sono riuscito a parlargli liberamente dei risentimenti miei e degli altri.
Justin Pierce (sinistra) e altri durante le riprese di Kids.
Risentimento per l’immagine del gruppo offerta da Kids?
Per come siamo stati ritratti, ma anche perché la gente faceva soldi sulle nostre vite… sono riuscito a dirlo con molta libertà. E Larry mi diceva cose che pensavo si sarebbe portato con sé nella tomba. Devo raccontartelo, perché è divertente e vero. Non fumo più erba, no? Ma avevo un mal di denti terribile, e un amico mi disse, “Dai, ti porto un po’ d’erba.” Me la sarei fumata prima di prendere un Percocet.
Ah, i rimedi naturali.
Già. E quindi ero a casa di Larry e aveva ricominciato a farmi male il dente, e avevo dietro la bustina che mi aveva procurato il mio amico. Così feci a Larry, “Larry, ho un mal di denti assurdo, avrei bisogno di fumare un po’.” Mi ritrovai alla sua finestra, a fumare e a dirci quelle cose. Era quel momento in cui non sei ancora fattissimo, e ti senti molto consapevole.
Sì, ho presente.
E stare lì con Larry, e parlare in modo così sincero—io, quello che aveva mostrato al mondo come rollarsi una canna al suo debutto cinematografico, e dopo 23 anni che lo conoscevo, avevamo chiuso il cerchio. È allora che ho capito: era il momento giusto per fare il film. Per fare un po’ di luce su quel gruppo di persone e la sottocultura dietro al film, un film che ha avuto un impatto enorme in un’epoca ben precisa. E spiegare come ciò che abbiamo passato non ha solo influenzato, ma anche dato forma a buona parte della società così come la conosciamo oggi.
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