francesco guccini pavana
Francesco Guccini a Pavana, accanto a Sambuca Pistoiese, nel 1981. Foto di Egizio Fabbrici/Mondadori via Getty Images.
Musica

In 'Stanze di Vita Quotidiana', Francesco Guccini è il nonno della trap

Ci sono stati un tempo e un disco in cui Guccini ha fatto musica fatta di vino, scazzo, rancore e insofferenza—come la trap ma senza gli psicofarmaci, insomma.

Questo articolo fa parte di Italian Folgorati, la serie di Demented Burrocacao che racconta gli angoli più strani, le gemme nascoste e gli artisti più scoppiati della musica italiana.

Carissimi aficionados di Italian Folgorati, ci siamo lasciati l’ultima volta con i dubbi di Tenco sul “cambiamento”. In effetti, a volte capita che la gente cambi idea, strada, discorso ma non sempre per qualcosa di edificante. Soprattutto nel cantautorato i voltafaccia sono diffusi e a volte scioccanti: pensate all’Umberto Balsamo berlusconiano. Ma c’è anche chi non cambia mai e nonostante questo è tacciato a più riprese di tradimento.

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È il caso di Francesco Guccini, ultimamente tornato alla ribalta dopo un lunghissimo silenzio con un inedito, "Natale a Pavana", contenuto in un disco tributo a lui dedicato dal nome di Note di viaggio. Sorvolando sul valore del suddetto, di Guccini si sta parlando perché, intervistato, ha ammesso candidamente "Mai stato comunista, sempre stato azionista: i miei riferimenti erano Giustizia e Libertà”. Per chi mastica poca storia della politica italiana, non parliamo di azionisti di borsa, ma di questo movimento.

Il nostro manda al mittente anche il mito che fosse anarchico, asserendo che "La locomotiva" fosse semplicemente la descrizione di un fatto storico. Non farebbe una piega, visto che gran parte degli anarchici preferivano associarsi nella lotta militare antifascista con le formazioni di Giustizia e Libertà.

Nonostante l’impegno contenuto in certe canzoni, Guccini ha sempre dato l’idea di essere uno cui non fregava un cazzo di niente se non di scrivere. Sia in letteratura che in musica, è sempre stato perso in un vissuto senza tempo in cui ci si rifugia nei classici letterari e nel recupero di quello che non esiste più. Lo dimostra la sua fissa per l’antico dialetto pavanese.

Nonostante l’impegno contenuto in certe canzoni, Guccini ha sempre dato l’idea di essere uno cui non fregava un cazzo di niente se non di scrivere.

La stessa "L’avvelenata" sembra chiara nel suo messaggio stile "Non rompetemi il cazzo”, sintetizzata negli immortali versi “Secondo voi ma a me cosa mi frega di assumermi la bega di star quassù a cantare? Godo molto di più nell'ubriacarmi oppure a masturbarmi o, al limite, a scopare. Se son d'umore nero allora scrivo frugando dentro alle nostre miserie, di solito ho da far cose più serie, costruire su macerie o mantenermi vivo." E poi via così, fino alla "voglia di bestemmiare".

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Eppure a sostenere Guccini sono sempre stati i conservatori di sinistra, nostalgici e desiderosi di avere sempre davanti a loro l'immagine del loro ideale duro e puro farsi carne. Questo implica una certa superficialità nell'analizzare il nostro schivo cantautore, che fa slalom tra i pregiudizi come un’anguilla infastidita. Proprio per questi è spesso stato sul cazzo anche ingiustamente a molti pischelli, tra cui me medesimo, almeno prima di ascoltare prove come quella che stiamo per analizzare.

Guccini sarebbe una specie di nonno dei trapper. Togliete gli psicofarmaci, metteteci il vino, una buona dose di rancore e insofferenza, e il risultato non cambia.

Nelle sue recenti esternazioni, Francesco chiarisce invece dei concetti da un certo punto di vista scandalosi ma da altri innovativi e coraggiosi. Punto primo, non ascolta più musica; il che per un cantautore è assurdo, volendo offensivo per i colleghi. Punto secondo, afferma che le uniche cose sensate oggi giorno forse le dicono solo i rapper. Punto terzo, è contento che i giovani oggi ascoltino ancora la sua musica, perché pare la ascoltino davvero.

Secondo questa ricostruzione Guccini sarebbe una specie di nonno dei trapper. Uno che in qualche modo vive il suo quotidiano in un eterno, noioso presente e che fa a meno di tutta una serie di sovrastrutture alle quali slaccia il bavaglio. Togliete gli psicofarmaci, metteteci il vino, una buona dose di rancore e insofferenza, e il risultato non cambia. E c’è un album in particolare che dimostra che Guccini era distante dalla sua generazione già mille anni fa, probabilmente profetizzando quello che viviamo ora: Stanze di vita quotidiana, probabilmente il più odiato della sua carriera.

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Stanze esce nel 1974, dopo un disco registrato parzialmente dal vivo. Se fino a quel momento Guccini poteva essere considerato serioso, Opera Buffa ne rappresentava un aspetto diametralmente opposto: quello dell’ironia, del goliardico, del grottesco. Lo faceva in modo così spiccato che quelli che mal sopportano la poetica del nostro non potranno che elevarlo a capolavoro. Basti come esempio la storia de "La Genesi", nella quale viene dipinto un Dio rincoglionito che cerca di inventare la TV e invece gli viene fuori la Terra. C'è da spezzare però una lancia per i suoi arrangiamenti pirotecnici, curati da Ettore De Carolis dei mitici Chetro & Co.

Il famoso detto "Ridi pagliaccio col cuore infranto", però, viene confermato proprio da Stanze, il disco in cui Guccini decide di abbracciare il baratro invece di girarci intorno. Giù la maschera: la vita è semplicemente una rottura di palle che si consuma giorno dopo giorno. E che fine ha fatto il Guccini barricadiero? C’è mai stato? Evidentemente no.

Giù la maschera: la vita è semplicemente una rottura di palle che si consuma giorno dopo giorno.

Guccini ricorda Stanze come uno di quelli che non avrebbe mai rifatto, nato in circostanze irritanti e in una situazione psicologica difficile, sballottato a cazzo tra Roma e Milano dal suo produttore—che poi altro non era che Pier Fabbri dell'Equipe 84, all'epoca band in piena sbandata sperimental-progressive e probabilmente in piena emulazione post-barrettiana. Pare che Ares Tavolazzi, il bass hero ex Area, se ne sia andato dalle session sbattendo la porta quando il nostro Fabbri gli chiese di eseguire un suono giallo, il che non può che rimandare alle sinestesie deliranti di Syd.

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C’è una ricchezza di arrangiamento e di suoni, in Stanze, con una predominanza di marimbe, trombe, strumenti inusitati. È psichedelico, in una maniera piuttosto borderline. Suona vecchio stile in partenza, ma in una maniera in cui anche il nuovo è già vecchio giacché nuovo. O forse, più semplicemente, suona senza età. I testi di Guccini, pregni di umore leopardiano esistenzialista, previsione delle sensibilità millennial in brodo primordiale, hanno così una controparte frizzante ed esotica.

Ecco, i testi. Sono sospesi tra euforia e disperazione, sembrano la descrizione di un trattamento terapeutico a base di antidepressivi e benzodiazepine. E in questo sono assolutamente contemporanei. Certo, c’è il discorso tecnico alla Guccini tutto endecasillabi, ottonari e perfezioni metriche, ma possiamo leggerlo come una logorrea di chi vuole svuotare la parola per—appunto—creare delle stanze vuote che vanno riempite dall’ascoltatore con il proprio bagaglio umano di malessere.

Tornando alle analogie con certe epopee trap, Guccini canta in un tono quasi monotonale, come se non avesse l’anima, come se avesse una stanchezza farmacologica appesa alla lingua. Tutto è privo di senso, in questo disco. È uno svacco assoluto, e il testo della “Canzone delle osterie di fuori porta” ne è un manifesto.

I suoi banali giri armonici sono il perfetto contraltare ad uno stato d’animo diretto: “Ora mi alzo tardi tutti i giorni, tiro sempre a far mattino / Le carte, poi il caffè della stazione per neutralizzare il vino / Ma non ho scuse da portare, non dico più d'esser poeta / Non ho utopie da realizzare, stare a letto il giorno dopo è forse l'unica mia meta.” Versi che scatenano l’applauso, soprattutto se confrontati con la roba finta-combattiera di ieri e di oggi.

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E se le osterie sono cimiteri, figurarsi la vita. Nella “Canzone della triste rinuncia” pare di sentir cantare Side Baby.

E se le osterie sono cimiteri, figurarsi la vita. Nella “Canzone della triste rinuncia” pare di sentir cantare Side Baby: “E forse sto morendo e non lo so capire / O l’ho capito e non lo voglio dire / Rimangono le cose senza falso o vero / E la rinuncia triste a quello che io ero.” Sono versi che mettono a nudo uno stato dell’essere che si frantuma contro lo spesso acciaio dei tempi moderni. L’organo che apre il pezzo è quasi un drone, nella sua piattezza. La ritmica ossessiva e spezzata potrebbe facilmente essere sostituita da una 808. Una marimba di inserisce nel flusso, e il suo scheggiarsi vitale serve solo a dare più importanza al nulla siderale, al pasticcio squagliato dell’esistenza che ti fa muovere sempre dentro a una prigione: “Non è il coraggio che ti far dir di no, è solo un’altra scusa”, canta Francesco, accompagnato da un siderale sintetizzatore Eminent e riccioli elettronici sublimi.

Chissà se da Guccini si possa passare a Gucci? A giudicare dal tono di “Canzone della vita quotidiana” mi sembra di non straparlare. La base accenna a un funky evaporato, poi ammantato dall’onnipresente sintetizzatore ma anche da organi particolarmente gelidi. Mon si salva nulla: “Le usate confidenze di malattie o di sesso dove ciascuno ascolta sol se stesso / Finzioni naturali in cui ci adoperiamo per non sembrar di esser quel che siamo / Consolati pensando che inizia e già è finita / Questa che tutti i giorni è la tua vita” Sono parole che ricordano le prese a male del Wing Klan, mentre l’epico finale sembra catturato dalla musica di un videogioco digitale.

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Ma poi ecco “Canzone per Piero”, in cui sembra tornare un po’ di “normalità Gucciniana”, anche se l’atmosfera compressa non è certo rassicurante. Se la musica è una specie di versione spappolata della Starriana “Don’t Pass Me By” dei Beatles, nel testo Guccini sembra cedere il testimone alle generazioni di oggi con un’onestà quasi insostenibile: “Chi glielo dice a chi è giovane adesso / Di quante volte si possa sbagliare / Fino al disgusto di ricominciare / Perché ogni volta è poi sempre lo stesso? / Eppure il mondo continua e va avanti con noi o senza / E ogni cosa si crea su ciò che muore / E ogni nuova idea su vecchie idee, e ogni gioia su pianti.”

Sì, ma l’amore? In Stanze ovviamente è fatto di abbandoni e di superficialità. “Canzone delle ragazze che se ne vanno” si snoda in uno strano country che a un certo punto si ibrida con percussioni di mondi lontani, tanto che vengono in mente a un certo punto i Tears For Fears di “Change”. Intanto violini e chitarre suonano in eccesso, come se ci fosse una gastrite in atto più che una musicalità diffusa, una cattiva digestione da coma alcolico. Si uniscono al coro anche vocette pitchate e prove di forza di vari strumenti, e tutti soffrono desiderando la fine di una canzone che non finisce invece MAI.

“O sera, scendi presto! O mondo nuovo, arriva! / Rivoluzione, cambia qualche cosa!"

L’ultimo brano, “Canzone delle situazioni differenti”, è un delirio. Ci sono una chitarra e un violino in delay. C’è il solito Eminent. Ci sono i fiati. Sembra di sentire un hypnagogic pop con pizzichi di Thaiboy Digital che finisce scassarsi come la qui citata “scatola meccanica per musica è esaurita” in un inutile massimalismo. Parole sante quelle di Guccini, in questo caso, che ci sentiamo di condividere: “O sera, scendi presto! O mondo nuovo, arriva! / Rivoluzione, cambia qualche cosa! Cancella il ghigno solito di questa ormai corrosa mia stanca civiltà che si trascina.”

La visione di uno scontento Guccini che legge fumetti mentre la tipa lo prende in giro vale tutto il brano. Lo immaginiamo non solo immerso nelle pubblicazioni USA, e quindi a quel tempo simbolo del capitale, ma anche nei manga. Immerso in un buco spaziotemporale evocato dalle chitarre in reverse psicolabile, nel pianoforte honky tonky nervosissimo e squagliato come una droga in una boccetta. Insomma, siamo di fronte a una sintesi di tutti gli arrangiamenti folli di Stanze. Altro che “album in cui non esiste una sola nota irrazionale,” come dichiarò all’epoca uno stizzito Guccini.

Finisce qui un’opera che forse solo oggi possiamo comprendere in pieno, dato che all’epoca fu bersaglio di critiche e venne accolta da un generalizzato rifiuto.

Finisce qui un’opera che forse solo oggi possiamo comprendere in pieno, dato che all’epoca fu bersaglio di critiche e venne accolta da un generalizzato rifiuto. Anche i sassi conoscono la storia della recensione di Enrico Bertoncelli su Gong, che oggi possiamo ribaltare con stupore: sì, perché se il giornalista voleva buttare merda sul disco invece, rileggendola dopo anni, troviamo negli aspetti per lui negativi un aspetto positivo in un’ottica postmoderna e distopica.

Non ci credete? Leggete qui: “La poesia è un pezzo di carta da consegnare al pubblico e non mai un esercizio di rabbia/purificazione intima, la musica è una vecchia stampa con cui tappezzare il salotto dell'acquirente e meno che mai la scintilla individuale del 'mi piace' o dell''io la penso così'. Francesco Guccini non appartiene più a se stesso: e finisce col ripetersi, regalando una ‘pianta topografica’ della propria anima tanto diffusa quanto vana. I suoi testi sono senza magia, nudi, freddi, con piccoli rami sfrondati dall'albero francese o dall'America anni Trenta-Cinquanta, che già sappiamo sino all'ebbrezza: noiosi, addirittura”

Non è forse la recensione che tutti vorremmo per un disco uscito nel 2019? Certamente. E se qualcuno crede che il lunatico Guccini possa essere inserito in chissà quale categoria è lui stesso a rispondere nelle note del disco, che sembrano scritte per i posteri: “Non ci sono né trascendenze, né messaggi; le canzoni sono cose semplici anche se si possono fare ugualmente con molta serietà come ancora spero o mi illudo di fare". Amen, parola di San Francesco. Demented è su Instagram e su Twitter. Segui Noisey su Instagram, Twitter e Facebook.