Perché mi piace così tanto Calcutta?
Foto via Bomba Dischi.

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Musica

Perché mi piace così tanto Calcutta?

Quando mi sono trovato per caso a un suo concerto sono scappato schifato, ma per i due anni successivi ho ascoltato 'Mainstream' tutti i giorni.

Venerdì 25 maggio uscirà Evergreen, il nuovo album di Calcutta su Bomba Dischi. Per l'occasione, abbiamo pensato di dedicare una serie di articoli al cantautore di Latina.

Ho degli amici che tipo cinque anni fa organizzavano o frequentavano concerti nel centro Italia, tra le Marche e l’Umbria. Quando parliamo di Calcutta mi raccontano di sto ragazzo perennemente sbronzo e con la chitarra scordata, alla ricerca di un posto letto per il dopo-concerto.

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Faccio ammenda, io Calcutta l’ho conosciuto solamente alla fine del 2015, quando era già la next big thing italiana, Mainstream era un blitzkrieg musicale che aveva invaso ogni social possibile, le radio si davano ai turnover di "Cosa mi manchi a fare" e "Frosinone", mentre io, insomma, cercavo di starci lontano. Nel 2016 ero così poco interessato alla cosa che poi mi sono trovato, senza accorgermene, a un suo concerto. In pratica ero in un parco bolognese dove in estate ci sono le bancarelle che ti danno da bere le birre e mangiare panini con la salsiccia. Tutto ha un costo abbastanza alto se sei uno che vuole sbronzarsi e ha la fame chimica, ma se la tua pancia con gli anni ha cominciato a rallentare la fase di smaltimento rifiuti allora ti puoi accontentare di una birra. Stavo lì dalle cinque del pomeriggio con un paio di amici, mi ricordo che abbiamo parlato di fughe all’estero e di lauree che non servivano a niente. I due se ne sono andati verso le 21 in preda all’ansia di incombenti appelli della sessione estiva; io mi sono ritrovato, tutto d’un tratto, con il parco pieno zeppo di non so quante migliaia di persone, per lo più ragazzi e ragazze nell’età migliore, quella che va tra i venti e venticinque.

A stretto contatto con la mia indifferenza, la loro esaltazione risaltava ancora di più. Così mi sono reso conto di essere l’unico stronzo a non sapere quello che tutti, davvero tutti, forse inclusi i paninari in fondo al parco, sapevano. Mentre cantavano "Gaetano" (e uso il plurale perché Calcutta per il chiasso a malapena si sentiva) mi è venuto uno strano spleen, una presa a male che mi ha spinto ad andar via dal concerto. Quella stessa notte ho ascoltato tutto Mainstream. Da quel momento ho passato due anni a cantarmi in testa le canzoni contenute nell’album, che sia sotto la doccia o in bici la mattina mentre tento di non farmi investire, e il pezzo che ho in testa si ferma solo quando una macchina ferma in doppia fila mi fa bestemmiare.

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Scrivere “perché ti piace X” in ambito musicale è un’arma a doppio taglio. Da una parte bisogna saper essere convincenti, ma quanto mi fa ridere cercare di esserlo in un contesto artistico - ma soprattutto popolare - dove tutto è inevitabilmente soggettivo. Sono uno di quelli che quando sente comparare due artisti basandosi sulla tecnica e sulla patetica scala del “sa suonare” mi scendono un po’.

Vero, c’è tutta la sintassi e la semantica da rispettare, che se lo fai nel modo giusto sei Mozart o diventi i Tool, bene così. Ma nel campo della musica pop(olare), paradossalmente, tutto il discorso può convergere nella dimensione privata.

L’impatto live che ho avuto con un concerto di Calcutta è la stessa cosa che descrive Farabegoli nel compianto Bastonate: “Il concerto è una roba da stadio, però in un club. […] Per due o tre pezzi è un concerto eccezionale: lui è timido e inizia (se non ricordo male) con 'Milano', e la gente è già in botta persa. Non si capisce quasi nulla di quel che dice tra un pezzo e l’altro. E poi attacca canzoni tipo "Frosinone" e tutti cantano in coro, urlano ogni parola del testo, ma sul serio, mica così per approssimazione. E in quel momento ti ci ritrovi, ti prendi bene, ti senti uno di loro. Quando dice che mangia la pizza ed è il solo sveglio in tutta la città ti ci ritrovi, in qualche modo. Calcutta e il suo gruppo sono scrausi di quello scrauso ostentato e ben suonato, con l’impianto perfetto e i volumi perfetti e nessuna sbavatura rispetto a un canovaccio tenuto asciutto a viva forza. Inizio a sentirmi come se fossi in mezzo a qualcosa di importante, come quando mi segnavo il testo di 'November Rain' in prima liceo e cercavo di tradurlo armato soltanto del poco di inglese che conoscevo. È bello sapere che la musica può ancora avere un effetto sulle persone”.

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Quando da ascoltatore accetto Calcutta nella mia vita apro gli occhi sulla quantità di coetanei che l’hanno accettato come cantautore della quotidianità; come fenomeno non è una cosa solo per ventenni ma va oltre, toccando i trentenni. E non sto parlando di una massa di ascoltatori casuali, di quelli che non gli farebbe così tanto strano andare a un concerto dei Modà senza percepire un senso di morte e disagio, ma di gente con la quale trovarsi bene e famiglie coi tatuaggi e figli biondi che si vedono nei giorni del Beaches Brew.

Da ignorante, una volta finito Mainstream, sono andato ad ascoltarmi le cose più vecchie, fatte di una certa diversità degli arrangiamenti e in generale di tutto il mood. In Forse… tutto suona meno italiano - concedetemelo, so che è brutto -, e canzoni come "Pomezia" e "I Dinosauri" mi sembrano vicine agli ascolti che Edoardo cita in un’intervista fatta da Federico Sardo su pixarthinking, cioè I Pavement, i Bright Eyes e Guided By Voices.

Mainstream ha invece delle sonorità che si affacciano di tanto a una certa storia della musica italiana; aleggiano fantasmi più o meno importanti tra le note e le urla del cantautore, che sono quelle del Battisti sgraziato ne "La compagnia" o i pacifici arrangiamenti di una canzone di Bruno Lauzi. Per molto tempo ho pensato che ci fosse una linea diretta con il primo Venditti, ma è una reazione pavloviana data da quella cadenza vocale e al dominio di un piano ad accordi secchi. Perchè diciamolo, i testi come quelli del Venditti periodo Sotto il segno dei pesci (e prima) nessuno mai. Nonostante questa italianità un po’ fantasmagorica e la sensazione di fuga indietro nel tempo, Mainstream, con i suoi intermezzi, è un album che non abbandona quella voglia di lo-fi sperimentale a là americana.

Evergreen sembra ancora più costruito sull’importanza vocale e più attento nelle composizioni. Evidentemente Edoardo ha studiato. Per dire, se Mainstream aveva per lo più tre accordi dominanti per tutte le canzoni, con le classiche entrate in Do e Sol per "Frosinone" e "Gaetano", il La minore che domina in "Limonata", allora "Pesto" si riempie di alterazioni e accordi di passaggio. Però, ecco, ascolti "Paracetamolo" e si ritorna nella terra dei tre accordi. Quindi chissene.

Le atmosfere un po’ retromaniache, per citare l’inevitabile Simon Reynolds, avallate oggi anche dai video di Francesco Lettieri, non devono trarre in inganno. Per me, per molti altri, i testi di Calcutta funzionano perché sanno di storie del presente, robe che hanno il sapore delle cose che ci sono successe l’altro giorno, di periodi della vita legati alla nostra generazione e quelle affianco. Affusolati dalle melodie pregne di saudade brasiliana, i testi di Edoardo sono semplici, parlano di cose piccole e per le quali per troppe volte si è scritto in modo inutilmente barocco. O almeno è quello che Edoardo vuole farci credere, perché dietro a una frase come “Ci sposeremo a Pomezia / Dove tutto è impersonale”, beh, se pensate che non ci sia nulla di profondo allora non so che cazzo dirvi.

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