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Canne terapeutiche contro la psicosi

Ho iniziato a fumare seriamente marijuana in seguito alla prima diagnosi di bipolarismo, e dopo dieci anni è giunta l'ora di tirare le somme.

Il primo psichiatra che mi ha diagnosticato un disturbo bipolare e suggerito una terapia a base di litio si è trovato a dover fronteggiare la collera di mia madre, una vera maestra dell’arte passivo-aggressiva. “Le ha chiesto quante volte a settimana fa esercizio fisico? Quanto è sana la sua dieta?” (Faceva queste domande occhieggiando il menu convenienza del McDonald's sulla scrivania del dottore.) “Quanta erba fuma?” Il dottore ci accompagnò fuori, a mani vuote.

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Ero confusa. Avevo quindici anni. Ero sicura che mi avrebbero prescritto dei farmaci. Chiesi a mia madre cosa diavolo stesse succedendo. “Quella roba ti farà diventare un robot, uno zombi,” mi disse. “Non farai la terapia con i sali di litio—sei una creativa.”

“Ottimo,” risposi cercando di trasmettere un tono da ultimatum, come se le mie parole avessero un peso. “Allora continuerò a fumare erba.”

“Continua,” mi disse. Per i nove anni successivi, mi curai con la cannabis.

La medicina è divisa sui meriti di tale tipo di trattamento. Alcuni sostengono che la sativa sia in grado alleviare disturbi dell’umore come quello bipolare. Dall'altra parte, i recettori dei cannabinoidi del cervello sono collocati nelle stesse aree che influenzano il pensiero critico e la percezione, quindi chi può dire se la marijuana non finisca col compromettere ulteriormente queste facoltà? A ogni modo, le statistiche riportano che una persona su tre affetta da disturbo bipolare dice di aver tentato almeno una volta il suicidio. Ma ero disperata, e volevo trovare un rimedio immediato, o quantomeno un sostegno. Che si rivelò essere proprio l’erba.

Prima del consulto psichiatrico non fumavo spesso. Solo occasionalmente, durante i fine settimana, nei boschi e con i miei amici, quando ci ritrovavamo a casa di qualcuno a guardare Half Baked.

Subito dopo la diagnosi e il periodo trascorso in clinica (dove i teenager ricoverati ascoltavano Marilyn Manson, parlavano dei loro genitori mentre si strappavano le unghie con una pinza o sperimentavano spaventose allucinazioni di zombi mangia-scalpi), la mia relazione con la marijuana passò da occasionale a fissa.

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Tanto per citare Nelly: Every four hours, like a prescription, I smoked.

Scoprii che non far trapelare la mia dipendenza sarebbe stato più facile che nascondere la cicatrice piena di pus responsabile della mia prima "vacanza" in clinica.

Una volta al college non smisi di fumare. Ero fatta per la maggio parte del tempo, eppure me la cavavo: andavo a lezione, leggevo qualche libro, facevo un paio di “attività extracurricolari”, mangiavo cereali, ridevo per cose che in realtà non erano nemmeno così divertenti… tutto lì.

Di tanto in tanto smettevo di fumare per “rimanere concentrata sul lavoro” e scrivere saggi, studiare e fare tutte quelle cose di cui non mi sarei mai interessata quando ero sballata.
Dopo le prime 24 irritanti ore di sobrietà, una stupenda, gloriosa enfasi—che poi ho scoperto chiamarsi mania—avrebbe preso il sopravvento. Non c’è altro modo per descrivere quella sensazione: divina. Creatività allo stato puro, un'energia apparentemente inesauribile.

In quei periodi le mie interminabili conversazioni con gli sconosciuti sembravano sempre “importanti” e piene di significati. La mia mente era invasa da un tonnellate di “idee grandiose” e non riuscivo a fermarmi un attimo.
C'è un motivo per cui in quegli anni riuscii ad entrare in diverse associazioni, frequentare due corsi di specializzazione e fare tre o quattro lavori pagati—e non era ancora abbastanza.

Si potrebbe pensare che tutte queste attività e responsabilità fossero manifestazioni salutari di un’esplosione di creatività, di energia (anche se parlare di energia trasmette subito un'accezione positiva). Nonostante la soddisfazione per la quantità di lavoro portato a termine e la sensazione di estrema sicurezza, si trattava di una situazione incredibilmente stressante, accompagnata da insonnia e bruxismo, proprio come un vero tossico.

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In quei momenti di euforia uscivo, facevo amicizia con sconosciuti, bevevo, bevevo, bevevo e bevevo ancora. Poi mi ritrovavo la lingua in bocca a un ragazzo che non era il mio fidanzato, o con le cosce doloranti per essere rimaste avvinghiate a una motocicletta che sfrecciava a 190 km/h, o ancora in una tenda su una spiaggia australiana, senza ricordarmi come ci fossi finita, in che città mi trovassi o anche semplici cose come la mia età e il mio nome.

Sebbene parlassi con tutti, e lo facessi con una certa strafottenza, in fondo mi sentivo sola. Tutti capivano quando era il momento di andare a casa e dormire, mentre io non ci riuscivo. Arrivavo a convincermi che quella sensazione non sarebbe mai finita, che tutti mi avrebbero odiato e non sarei mai riuscita a condurre una vita “normale”. Tutto questo accadeva nel mio periodo autodistruttivo, suicida (odio quella parola). A volte la cosa sfociava nell'autolesionismo o nell'overdose. Sono finita in ospedale un paio di volte, un'inezia rispetto a tutte le occasioni in cui rischiai veramente la pelle.

Di recente alcuni casi di comportamento maniacale hanno destato l’attenzione dei media: un tizio ha perso la testa durante una fiera espositiva e ha speso 20 milioni di dollari in cuscini e articoli per la casa prima di recarsi autonomamente in un ospedale psichiatrico; un ragazzo di Orange County, creduto disperso, è stato ritrovato mentre rubava in un ristorante della catena Subway; un uomo a Detroit ha tentato senza riuscirci di strangolare il figliastro, ma era talmente fuori che pensava di averlo ucciso. Queste storie possono sembrare divertenti, ma io so come ci si sente a dimenticare che le azioni portano a conseguenze. A volte, in quei momenti, mi capita di voler scopare con qualcuno o allo stesso tempo di voler uccidere. Mi sento un animale selvatico. Voglio affondare i miei denti nella carne di un essere vivente, e sentirlo dimenarsi e morire per poi affondare nel sangue con le mani e succhiarne le ossa.

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Non ho mai fatto del male a nessuno, solo a me stessa. Mi procuro dei tagli sulle braccia. Una volta, però, una ragazza in un bar si prese gioco della mia cadenza e io le risposi che avrei ucciso lei e tutta la sua famiglia. Era turbata, e non gliene faccio una colpa, anzi. Non mi sarei mai messa a cercare lei o i suoi parenti, è che durante gli episodi ossessivi sento di avere un enorme potere, o faccio credere al mondo di averlo.

Ho una specie di relazione di amore-odio con gli episodi maniacali, perché se da una parte so che spaventare gli sconosciuti con minacce a vuoto è una brutta cosa, dall’altra amo profondamente la sensazione di ebbrezza che mi provoca e vorrei poterla conservare in una bottiglia per poterla bere quando ne ho voglia. Il mio dottore dice che la maggior parte delle persone affette da disturbo bipolare è restia alle cure. Perché sono in grado di arginare la depressione, certo, ma contemporaneamente attenuano gli effetti del particolare tipo di umore a cui tanti non vogliono rinunciare.

Quando avvertivo il bisogno di rilassarmi, fumavo un po’ d’erba e finalmente mi addormentavo. Rimanevo a letto per un paio di giorni e mangiavo una tonnellata di patatine fritte. Non so se ero depressa o in down, ma so per certo che non ho mai avuto il desiderio tagliarmi le mani o la gola quando ero strafatta. Non sono più così produttiva, anche se riesco a consumare gelati su gelati a una velocità impressionante. Ma credo che l’impulso autodistruttivo risieda ancora in me.

Di recente ho passato una piacevole nottata presso l’ospedale psichiatrico di New York, stracolmo di detenuti, prostitute e un’ottantenne tutta sudata e con i capelli arruffati che in piena esperienza alla Requiem for a Dream ripeteva “Papà mi ha detto di non andare in cucina." Uscita, mi sono resa conto che avrei dovuto espormi e prendere atto di determinate cose.

Il secondo dottore che mi ha diagnosticato un disturbo bipolare—un probabile disturbo bipolare, che potrà essere accertato solo quando mi “ripulirò” dalle sostanze che alterano l’umore—ha dovuto far fronte alla mia ira, quella tipica di una tossicodipendente (atteggiamento sulla difensiva, rabbia, negazione). Ma io non sono una tossicodipendente. Voglio semplicemente continuare a fumare la mia erba. Dopo aver passato anni a giustificare il mio stato, il solo pensiero che la marijuana potrebbe avere delle ricadute sulla mia persona mi faceva vacillare. A quel punto ho capito. Dovevo dare un taglio a quel ciclo continuo, cambiare alcune abitudini. Così, per il bene della scienza, e solo temporaneamente, ho deciso smettere di fumare.

Ho difficoltà a dormire, il cibo non ha sapore e ho iniziato a sgranocchiare aspirine come fossero merendine. La mia creatività non è più un leggero ronzio, ma una voce distinta, udibile, e la mia energia è aumentata—così come lo stress e l’ansia. Sono spaventata, ho paura di fare qualche cazzata e rovinare tutto, così me ne sto in casa. Sto soffocando.

Il mio nuovo psichiatra, che non mi ha ancora dato dei farmaci, dice che per arginare quest'ansia potrebbe darmi uno stabilizzante dell’umore “simile all’erba” (parole sue). Se è davvero così, perché non fumare direttamente un po’ d’erba? Non sono già abbastanza gli americani che, nonostante le cure a base di psicofarmaci, sono ancora depressi? Inoltre, dubito che i loro farmaci possano rendere Adventure Time i 30 minuti di intrattenimento più rilassanti della storia, o almeno dare la soddisfazione di citare Nelly.