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Abbiamo chiesto agli autisti milanesi di Uber com'è lavorare per Uber

Da quando Uber è sbarcata in Italia, le battaglie legali e non tra l'azienda e i tassisti sono diventate molto frequenti. Ho parlato con alcuni driver Uber per cercare di capire la situazione in vista della sentenza su Uber Pop del tribunale di Milano.
Foto via Flickr/Joakim Formo.

Aggiornamento del 26 maggio 2015: Il Tribunale di Milano ha bloccato il servizio UberPop dopo la denuncia di concorrenza sleale dei tassisti.

Gli umani sono abituati alle lotte eterne tra gli opposti: bene e male, Sprite e Coca Cola, religione e scienza, tassisti e Uber. Da quando l'app è sbarcata anche in Italia, infatti, le battaglie legali e non tra i tassisti e la multinazionale sono diventate piuttosto frequenti.

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L'ultima della lista—dopo la prima sentenza italiana a favore di Uber, la protesta nazionale dei tassisti a Torino e l'esposto del movimento consumatori—è quella in corso a Milano, dove le cooperative di tassisti hanno presentato ricorso per il blocco di Uber Pop, uno dei servizi messi a disposizione dall'app e accusato di concorrenza sleale.

Pur non rientrando nella categoria taxi, a livello generale Uber in Italia non infrangerebbe la normativa dei Ncc (noleggio con conducente). Il problema è che non tutti gli autisti hanno la corrispettiva licenza. Siamo dunque in una zona grigia, perché nella legge n.21 del 1992, poi modificata nel 2008, non c'è scritto un bel niente su un'app che mette in contatto un utente che vuole un servizio e un altro che lo può fornire chiedendo una commissione. Nessuno se lo poteva immaginare all'epoca, ma cercare di applicare una legge che non tiene conto di alcuni dei cambiamenti radicali nel modo di intendere la comunicazione, la connettività e il lavoro, sembra una cosa assurda.

Se Uber non ha una delle situazioni legali più chiare, si contrappone anche a una delle "caste" più odiate dagli italiani: i tassisti. Questi ultimi sono raggruppati in organizzazioni che sanno far valere la loro influenza, e in pratica detengono il monopolio dei trasporti pubblici non di linea. Ma attenzione: il loro avversario non è solo un'idea brillante, o il bene assoluto, un modo di vivere la città tutto nuovo, la nuova essenza della condivisione e del volemose bene. È una multinazionale da 40 miliardi di dollari che punta anch'essa ad avere il monopolio del settore.

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In realtà, Uber e i tassisti hanno molte cose in comune: entrambi vorrebbero avere il monopolio, entrambi si impegnano attivamente nel sabotare gli avversari, a entrambi interessa il proprio tornaconto. Nel bel mezzo di questa guerra, al momento, ci sono i driver di Uber Pop.

Sebbene a livello di prezzi il diretto concorrente dei taxi sia Uber Black, infatti, è questo servizio di fascia inferiore—in cui chiunque può registrarsi come autista Uber e usare la propria auto per trasportare clienti—a essere finito in tribunale. Un anno fa, l'ex ministro dei trasporti Maurizio Lupi aveva definito il servizio "totalmente illegale," e di parere concorde è anche il comandante dei vigili di Milano: "Chi sale a bordo di Uber Pop, lo fa a suo rischio." A marzo, sempre a Milano, le auto sequestrate a conducenti convenzionati con UberPop erano 62.

Per cercare di capire meglio la situazione in vista della sentenza del tribunale di Milano ho incontrato diversi driver di Uber per parlare della loro esperienza, di come si sono approcciati a Uber e di come vedono il futuro di questo modello di lavoro

Il primo con cui ho parlato è Domenico [i nomi sono stati cambiati su richiesta degli intervistati], che non si è fidato di incontrarmi la sera stessa in cui gli ho telefonato ma mi ha dato appuntamento per il giorno dopo. Quando ci siamo visti mi ha detto che aveva paura si trattasse di un trabocchetto dei tassisti, che chiamano i driver di Uber Pop per tender loro degli agguati, insultandoli e minacciandoli oppure chiamando la polizia municipale per fargli sequestrare la macchina. "Lo hanno già fatto a diversi altri autisti di Uber," mi dice mentre entriamo in casa sua, "e poi non sai mai chi puoi incontrare."

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Perché allora optare per questa professione e prendersi il rischio? Chiaro, per soldi—e infatti sono i soldi la principale motivazione che ha spinto a lavorare con Uber i driver con cui ho parlato, attirati dall'opportunità di guadagnare senza doversi comprare una licenza o attendere un concorso comunale.

Quando gli faccio notare che uno dei punti più contestati dai tassisti è proprio il fatto che i driver di Uber non abbiano bisogno della licenza per poter circolare, Domenico non sembra molto d'accordo. "Sì, ma non è che noi mandiamo a casa i tassisti, possiamo lavorare assieme. C'è spazio per tutti," prosegue, "se i tassisti pensano che i soldi che hanno speso per la licenza siano andati, che posso dire, sono i rischi della vita imprenditoriale."

Se le esigenze dei cittadini cambiano è naturale che cambi anche il mondo dei servizi che si occupa di soddisfarle. Ma quindi, i tassisti dovrebbero essere aiutati o dovrebbero semplicemente arrendersi alla sharing economy?

Grab

via

Simone, un altro driver con cui ho parlato, sembra propendere per la seconda opzione. "Se la liberalizzazione del mercato è stata applicata a praticamente tutti i campi," mi ha detto, "perché non si può applicare anche a questo?" In effetti, quasi tutti i driver con cui ho parlato lo sono diventati dopo aver perso il lavoro per via della crisi, nata in paesi dove liberalizzazione e privatizzazione sono la parola d'ordine. Dal loro punto di vista, è assurdo che lo stesso tipo di concetto che ha creato il danno e che ora rappresenta una soluzione—seppure momentanea—venga ostacolato.

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"Io non mi sento come uno che infrange la legge", mi spiega Domenico a proposito del dibattuto sulla zona grigia in cui si muove l'azienda. "Anche al colloquio Uber ci avevano detto che saremmo andati incontro a dei rischi, ma a me sembra una cosa giusta, che aiuta non solo me, ma anche chi non può permettersi un taxi."

La paura di essere sanzionati, però, è sempre dietro l'angolo. Come mi dice Domenico, "Alla fine investo su me stesso. E non sono tutelato, dipende tutto da me. Come mi può penalizzare lo stato? Io sono disoccupato, ho trovato un modo di rendermi utile, di far girare qualche soldo." Secondo lui, l'intero settore andrebbe regolamentato per tutelare sia autisti che utenti—"Se fosse poi una cosa davvero illegale, allora perché gli utenti non sono perseguiti? Perché se la prendono solo con noi autisti?"

Quando poi chiedo a Federico, un altro autista, se non teme che gli possa succedere qualcosa in macchina, mi risponde: "Sia noi che gli utenti siamo completamente rintracciabili." Mi spiega poi il processo di selezione di Uber: "Prima di tutto ho dovuto portare un certificato che attestasse che non avevo precedenti, né processi pendenti, poi ho dovuto dimostrare che la macchina era intestata a me, che non mi avevano mai sospeso la patente, che avevo una macchina non più vecchia di cinque anni, e poi ho sostenuto un colloquio orale."

Stando a casi recenti, però, l'alternativa lavorativa proposta da Uber non è sempre così perfetta come sembra. Negli Stati Uniti, infatti, Uber è sotto accusa per sfruttamento, e in Europa moltissimi dei suoi autisti si lamentano delle decisioni arbitrarie che l'azienda può prendere e che danneggiano sensibilmente la vita e il portafoglio dei suoi dipendenti. Certo, Uber mette subito le cose in chiaro, ma molte persone fanno fatica ad abituarsi ad avere a che fare con un capo che non è il loro capo, che non garantisce né tutela per niente i propri dipendenti e a cui interessa solo una percentuale sui guadagni. Insomma: io ti do i contatti, il resto fatti tuoi.

Questa mentalità è il fulcro della sharing-economy—meno diritti, lavoro più elastico. Se è difficile da assimilare negli Stati Uniti, figuriamoci qui in Italia.

"Forse si può parlare di sfruttamento, per fare solo 50 euro sono tante corse, se poi conti benzina e tutto. I tassisti prendono molto di più, e spesso non fanno fatture o altro. Ma a me va bene perché do da mangiare alla mia famiglia," conclude Simone.

La sensazione che si ha è che quindi Uber rappresenti un'opportunità concreta per persone a cui non importa degli interessi delle corporazioni dei tassisti o di quelle della multinazionale con cui lavorano, ma solo di portare a casa qualche soldo in più. Dall'altro lato, però, di fatto si rinuncia volontariamente a diritti e tutele lavorative conquistate con grande fatica. E seppure, almeno formalmente, non si è davanti al vecchio sistema capo/dipendente, è Uber a decidere le tariffe e a poter sospendere i piloti a sua discrezione.

"Io lavoro con Uber, non per Uber," dice Federico. Ma quando chiedo a Domenico cosa pensa della dicotomia "più padrone di me stesso/meno sicurezze sul lavoro," mi risponde, "so che rischio, come rischio che mi sequestrino la macchina, ma la mia necessità ora è superiore al rischio che corro."