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Quella che tu chiami depressione, io la chiamo verità

La verità ti rende libero o ti rovina? Me lo sto chiedendo spesso, da quando ho iniziato a pensare che la depressione non significhi altro che maggiore consapevolezza della vita.
Illustrazioni di Joel Benjamin

La verità ti rende libero o ti rovina? È quello che mi chiedo in questo periodo, mentre con il mio psichiatra continuiamo a cambiare terapia in cerca della combinazione giusta di farmaci che evita che l'angoscia esistenziale mi schiacci. Nel frattempo, sto lavorando con un terapista comportamentale sul "significato" che do a questi sentimenti. Sta cercando di aiutarmi ad averne meno paura.

Io ho paura lo stesso. Ma comincio a pensare che questi sentimenti stiano cercando di comunicarmi qualcosa di puro e vero—un messaggio dalla mia anima sul modo in cui vivo la vita e la natura stessa dell'esistenza. Prima di tutto, mi stanno dicendo che il modo in cui ho vissuto finora non va più bene.

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Si dice che le cose a cui opponiamo più resistenza sono quelle che durano più a lungo, e io è da tutta la vita che cerco di sopprimere questi sentimenti. Solo di recente ho cominciato a cercare di capire davvero cosa sono—ho cominciato a osservare uno dopo l'altro tutti quegli strati sovrapposti che costituiscono quello che il metafisico norvegese Peter Wessl Zapffe chiamava "panico cosmico." Adesso mi sembra di non poter più ignorare quello che una parte di me ha sempre saputo: che la vita è assurda e terrificante. Forse dovremmo tutti averne paura.

Nel suo saggio The Last Messiah, scritto 1933, Zapffe descrive la depressione come un'eccessiva evoluzione della mente. Paragona la mente della persona ansiosa o depressa a un certo tipo di cervo vissuto nella preistoria, che si ritiene si sia estinto dopo aver sviluppato delle corna troppo pesanti.

"Nel caso della depressione," scrive, "la mente può essere vista come queste corna, che con la loro maestosità schiacciano a terra l'animale che le porta."

Inoltre, ipotizza che le menti delle persone ansiose o depresse siano più sveglie, che abbiano accesso a una comprensione più profonda rispetto a quelle delle altre persone.

"La depressione, 'la paura della vita,' il rifiuto di nutrirsi e così via, sono considerate delle malattie e trattate di conseguenza," scrive. "Spesso, tuttavia, questi fenomeni sono messaggi provenienti da una dimensione più profonda di esistenza, frutti amari di una maggiore capacità di pensare o sentire. Non è l'anima che si ammala, è la sua protezione che comincia a cedere, o che viene rifiutata perché considerata—in modo corretto—come un tradimento nei confronti del vero potenziale dell'io."

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Allora perché non soffriamo tutti di depressione? Cosa è questa "protezione" che io, come tante altre persone, sono riuscita a mettere insieme nel corso della mia vita? E cosa spinge una persona a spogliarsene all'improvviso?

Nella descrizione che ne dà Wassel, questa protezione è composta da quattro meccanismi di difesa: l'isolamento, l'ancoraggio, la distrazione, e la sublimazione.

Secondo la teoria di Wassel, l'isolamento non è la solitudine fisica, di cui mi intendo molto. Piuttosto, è la pratica di allontanare tutti i pensieri angosciosi sulla natura dell'esistenza, sulla sua insensatezza, sulla libertà e sulla morte. Una cosa che forse prima mi riusciva meglio. O forse ero più brava a fingere, specie pensando a quello che Wessel chiama il codice generale del "silenzio reciproco" che ci porta a non esternare pensieri angosciosi nelle interazioni superficiali quotidiane con gli altri.

Scrivendo poesie, ho sempre potuto relegare l'esplorazione di questi pensieri e sentimenti all'ambito della mia arte. Ma negli ultimi tempi ho trovato sempre più difficile indossare la mia maschera sociale durante le interazioni mondane. Adesso interagire a questo livello, intrattenere conversazioni "piacevoli" ma superficiali con un'altra persona mi fa fisicamente male, perché continuo a chiedermi: perché anche tu non sei consumato da questi pensieri e questi sentimenti? Non sei divorato dalla paura? Se non è così, il problema sono io? Ma se invece è così, perché parliamo di cazzate facendo finta che questa paura non esista? Mi sembra che dovremmo tutti abbracciarci e piangere, o qualcosa del genere.

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Il secondo meccanismo di difesa, l'ancoraggio, serve a identificare se stessi con il proprio costrutto sociale: il proprio ruolo all'interno della famiglia, il proprio lavoro, la propria religione, la propria moralità, la propria posizione sociale, il proprio corpo, i propri obiettivi. Ancorandoci a queste identità esterne riusciamo a costruire "delle mura attorno alla confusione liquida della coscienza." In questo caso, le crisi esistenziali scoppiano se due idee sulla nostra identità sono in contrapposizione, o se le perdiamo—se perdiamo il lavoro, una persona cara o un altro degli elementi esterni che ci aiutano a definire la nostra identità.

Una cosa che ho perso di recente è il desiderio di impressionare certa gente, di sedurla con i miei successi. Forse è una cosa positiva. Ma mi ha lasciato con una sensazione di insensatezza.

In termini di obiettivi, ultimamente ho ottenuto parecchi successi. Ma adesso mi chiedo perché dovrei dare importanza a queste cose. Mi sento come se la persona per cui avevo una cotta sia stata bannata da Facebook e non possa più vedere i miei successi. Quindi a che scopo rincorrere i miei obiettivi?

Riuscirò mai a voler raggiungere questi obiettivi solo per me stessa? Mi vergogno di confessare che per il momento la risposta sembra proprio essere un no. Questi successi mi sembrano effimeri e inutili. Di fronte alla morte, lo sono di certo. Persino le cose che faccio per aiutare gli altri—la ragazza a cui faccio da tutor e il cane che ho salvato—mi sembrano non valere nulla. La mia nuova ossessione è che tutte le persone e gli animali mangiano carne, per cui alleviando le loro sofferenze gli permetto di causarne altre ad altri esseri viventi. Quindi, sto solo causando altra sofferenza. In più, a volte mangio anche da McDonald's.

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Non trovo sollievo nemmeno nelle distrazioni che una volta mi proteggevano dall'angoscia. C'erano diverse cose in cui mi immergevo in modo compulsivo per non pormi domande importanti. Sono stata ossessionata dal mio aspetto fisico, dall'amore, dai miei obiettivi. Mi sono fatta la ceretta ovunque, ho fatto cazzate con la mia dieta, ho aspettato messaggi notturni. Guardare la televisione non mi ha mai aiutata molto, ma adesso la sola idea di accenderla mi fa stare fisicamente male. È come se una qualche forza invisibile mi avesse strappato via tutte queste tattiche che usavo prima.

Forse è questo che intendono i vari test per diagnosticare la depressione quando ti chiedono, "Hai perso interesse in attività che prima ti piacevano?" Dicono che questa perdita di interesse non sia una cosa positiva. Ma se la verità fosse che tutte queste attività in realtà sono stupide, senza senso e distruttive? Se mi stessi semplicemente avvicinando a una verità più profonda?

La cosa che mi fa andare avanti è la sublimazione: canalizzare tutte queste esperienze in questa rubrica. Scrivere dà un senso a questi pensieri e a questi sentimenti angoscianti. Li fa sembrare un po' meno senza fondo. Ma se la verità fosse che in realtà sono davvero senza fondo? Perché la realtà mi spaventa così facilmente?

Qualcosa dentro di me mi dice che dovrei scappare più velocemente che posso dalla consapevolezza dell'insensatezza dell'esistenza, dal pensare alla morte, dal continuo porsi domande. Un'altra parte di me mi dice di no: dovrei andare avanti su questa strada fino alla distruzione di ogni mia certezza. Dall'altra parte ci dovrà essere per forza qualcosa di più.

So Sad Today è una crisi esistenziale perenne che si sviluppa in 140 caratteri. L'autrice lotta da tempo con la sua coscienza. Lo fa da ancora prima di Twitter, ma ora le sue ansie hanno trovato uno spazio.