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In memoria di Lemmy

Era il 1990 o '91. Ero a Hollywood per qualche giorno, e come da sei anni a quella parte la mia amica Bea Dunmore mi stava invitando a uscire coi suoi amici.

Lemmy Kilmister e Bea Dunmore con alcuni amici. Photo dalla collezione di Keli Raven, la sorella di Bea Dunmore.

"Oh, usciamo con Lemmy!"
"Lemmy?" avevo chiesto. "Quel Lemmy?"

Era il 1990 o '91. Ero a Hollywood per qualche giorno, come capitava spesso in quel periodo, e come da sei anni a quella parte—da quando una notte d'estate, ubriachi, ci eravamo incontrati al Rainbow Bar sulla Sunset Strip—la mia amica Bea Dunmore mi stava invitando a uscire coi suoi amici. Tra loro c'erano rockstar, proprietari di locali, batteristi capelloni, produttori discografici reduci degli anni Settanta, spacciatori ebrei che si erano comprati la laurea in farmacia, ballerine da addio al celibato, modelle dei videoclip—"È il mio culo quello che vedi nei primi piani nel video di 'Eyes Without a Face' di Billy Idol," mi disse una brunetta ammiccante—e ragazze che facevano la lotta nel fango in bikini.

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Bea (o "Little Black Bea", come spesso si definiva) faceva l'attrice, ma aveva lavorato anche nei videoclip, come spogliarellista e anche come lottatrice nel fango. Era una vera regina di Hollywood. Afro-americana, ma completamente accettata e inserita nel mondo bianco dell'heavy metal, era una delle persone più vive che avessi mai incontrato.

La cosa che ci univa di più era forse l'amore per il rock'n'roll: amava la musica come la ama un musicista. E ogni volta che Bea mi invitava a uscire con lei mi era sempre difficile rifiutare.

"Lemmy?" avevo chiesto. "Quel Lemmy? Lemmy Kilmister dei Motorhead?"

"Certo," aveva risposto Bea. Eravamo seduti sul suo materasso gonfiabile, in attesa di decidere come trascorrere la giornata. "È un mio carissimo amico. Un ragazzo fantastico, lo adoro. Il re degli headbanger! Non te lo immagini, ma è pure un patito di storia! Legge sempre libri di storia. Ha anche una nuova canzone, me l'ha suonata, si chiama '1916'. Parla della Prima Guerra Mondiale o qualcosa del genere."

"Ma non vive in Inghilterra? A Londra?"

Bea scosse la sua testa facendo ondeggiare i capelli sparati. "No, si è appena trasferito. Ha detto che possiamo andare a trovarlo!"

"Uscire con Lemmy?", dissi tra me e me. Alla fine, assimilato l'invito, mi sedetti di scatto sul divano di Bea. "Cazzo, sì!"

Non erano solo i baffi, gli abiti neri da pistolero, le maniche arrotolate e—soprattutto—quelle prodigiose verruche a renderlo il simbolo per eccellenza del rock; a detta di tutti, Lemmy era così ventiquattro ore al giorno, tutti i giorni. Per capirlo bastava guardarlo sul palco, col microfono rivolto verso il basso come se stesse ululando alla luna o agli dei.

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Poi c'era la sua musica, che era una meraviglia a sé. A parte i Led Zeppelin, i cui deep cut, soprattutto in Physical Graffiti e Presence, costituivano un genere a sé, un funk scricchiolante, rumoroso ed esotico, non sopportavo il metal. Sabbath, Slayer, Priest, Metallica… era musica troppo ridondante e da ragazzini. I Motorhead erano tutt'altro discorso. Il loro sound era irresistibile, un flusso senza pietà che sapeva di MC5 sotto speed (e i 5 suonavano già come se fossero fatti di speed, quindi quella dei Motorhead era più un'overdose di speed). Con quell'irruenza, la vicinanza di Lemmy con i migliori punk inglesi era difficile da dimenticare.

I testi erano grandiosi quanto la musica, se non di più. Come le sue interviste, in cui esprimeva una visione del mondo che era per metà edonismo anni Sessanta, per metà saggezza da strada e 100 percento esilarante, i testi dei Motorhead erano sui generis—"al di sopra di ogni categoria," come direbbe Duke Ellington. Erano riusciti a prendersi gioco delle tematiche del metal trasformandole in qualcos'altro. Pensate a "Killed By Death", che con tre semplici parole spazza via tutto il fascino del metal più nero per il Mietitore. O a "Eat The Rich", in cui la lotta di classe suggerita dal titolo viene superata dalle allusioni al sesso orale. E da dove iniziare a descrivere una rima come "Sitting here in my hired tuxedo, / You want to see my bacon torpedo"?

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Non riuscivo ad ascoltare troppo i Motorhead, perché dopo cinque o sei canzoni iniziavano a sembrare un po' tutte uguali. Nonostante ciò, e anche Bea fu subito d'accordo con me, niente poteva stenderti come quei cinque o sei colpi. L'unica musica che si avvicina a quell'effetto è la parodia perfetta dei Motorhead proposta dagli Ween, " It's Gonna Be a Long Night".

Così andammo a casa di Lemmy. Sono passati 25 anni e non ricordo esattamente come ci siamo arrivati. Forse guidai io—ma non ho sempre avuto una macchina a noleggio a Los Angeles, quindi magari ci arrivammo in taxi o in autobus, o forse in autostop o a piedi (tutte cose che facevamo quando ero in città). Non mi ricordo nemmeno esattamente di cosa parlammo con Lemmy quando lo trovammo accanto alla piscina. Ma ricordo che gli chiesi informazioni sul libro che stava leggendo, una biografia tascabile di Hitler.

Ricordo altre cose di quel pomeriggio: della sorpresa alla vista dell'abbigliamento di Lemmy (uno Speedo o un costume altrettanto piccolo); dell'impressione di una sua iniziale delusione per la mia presenza (forse quando Bea gli aveva detto che avrebbe portato qualcuno sperava si trattasse di una donna); e di com'era educato e tranquillo quando abbiamo iniziato a parlare. Lontano dalla sua reputazione da bestia del rock 'n roll, era un perfetto gentleman inglese.

Ricordo anche che Bea l'aveva riempito di domande sui nuovi pezzi. Voleva ballare, e alla fine andammo a piedi verso il Rainbow. L'accoglienza del personale mi aveva fatto capire che Lemmy e Bea erano clienti abituali; quanto a me, se ero con loro non potevo essere una brutta persona. A quel punto Lemmy non aveva più il costume (ma il suo completo da rocker), e lo salutammo al secondo bicchiere di Jack Daniels.

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Lemmy nel 2009, foto di Chris Shonting per VICE

Dopo quel giorno mi è capitato spesso di ricordare quell'incontro con altri fan dei Motorhead. Non con Bea però, perché dopo quella volta ci perdemmo di vista. Era successo per caso: nel mondo pre-cellulari e pre internet non era così facile tenere i contatti con una persona che cambiava continuamente casa e, di conseguenza, anche numero di telefono. Una volta, tornato a LA, la incontrai di nuovo, ma dopo aver percepito una specie di disagio da parte sua decisi di non cercarla più, e quando poi mi pentii e provai a chiamarla il suo numero non era più attivo. Da allora, ogni volta che tornavo a Hollywood andavo al Rainbow a chiedere di lei.

"Non la vediamo da un po'," dicevano ogni volta.

Nel frattempo il mio amore per la musica di Lemmy era cresciuto. Sono andato al suo 50esimo al Whiskey, e ho riso alla vista dei Metallica tutti vestiti da Lemmy che suonavano i pezzi dei Motorhead.

Verso la fine degli anni Novanta, a Parigi, iniziai a frequentare una bella donna norvegese. Non siamo rimasti insieme ma abbiamo avuto un figlio, e oggi siamo buoni amici. Ingunn era una fan dei Motorhead, e suo fratllo Ols lo era ancora di più. Ogni volta che trovavo un articolo su Lemmy in qualche rivista, lo ritagliavo e glielo mandavo. Poi, non appena mio figlio fu abbastanza grande, iniziammo a fargli ascoltare i Motorhead. Col tempo, anche Gabriel divenne un fan di Lemmy, e quando aveva 9 o 10 anni lo portai al suo primo concerto. Era quello dei Motorhead allo Zenith—uno dei ricordi più belli che ho dell'infanzia di mio figlio è quella di noi due che balliamo come dei pazzi su "The Ace of Spades."

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Quanto a Lemmy, mi capitò di incontrarlo qualche altra volta al Rainbow durante le mie visite a LA—di solito era da solo, davanti al video poker—e di ricordagli come ci eravamo conosciuti. Non sapeva che fine avesse fatto Bea. O forse lo sapeva e voleva solo proteggere la privacy [di Bea] da un tizio di New York che aveva visto mezza volta. Di tanto in tanto cercavo il nome di Bea su internet, senza però trovare informazioni o un suo contatto.

Fino a due anni fa.

Due anni fa, googlando il suo nome, ho visto che era stata organizzata una festa in suo onore al Rainbow—dove, sennò? Più precisamente, la festa non era in suo onore ma in suo ricordo. Era morta qualche giorno prima, all'età di 50 anni.

Nonostante non avessimo più parlato per tutto quel tempo, fui terribilmente scosso dalla notizia. Perdere un amico della tua età significa ricordarti della tua mortalità; perdere un amico con cui hai provato a riallacciare i rapporti ti insegna qualcosa di diverso: di quanto può essere crudele il destino. Se solo avessi tentato prima, mi dicevo. E ora, due anni dopo la morte di Bea, Lemmy ha lasciato Hollywood e tutto il resto per il cancro, a ridosso del suo 70esimo compleanno.

Non so quanto fossero intimi Bea e Lemmy. Ma ora penso a Bea come una specie di yin per lo yang di Lemmy, il vero fan che completa l'artista con un amore sconfinato per l'arte. Quello che Lemmy sentiva nel rock'n'roll lei lo sentiva nei Motorhead. Servono sia le rockstar che i fan per far sì che la musica pulsi all'ennesima potenza. Queste due tipologie, loro due, sono necessarie per completare il circuito estetico. Mi mancheranno separatamente, la Bea che ho conosciuto bene e il Lemmy che non conoscevo affatto—e allo stesso tempo mi mancheranno come unità, e saranno insieme nella mia mancanza.