
VICE: Vieni spesso descritto come un “fotografo di guerra". Come la vedi?
Thomas Dworzak: È un’etichetta. Che cosa ci vuoi fare? Non dico che non lo sono, perché vado spesso, e andavo molto spesso, in zone di conflitto. Ma ci sono tanti colleghi che incarnano l'idea meglio di me, da veri combattenti. Ci sono vari modi di essere coinvolti nella guerra, si potrebbero rappresentare in una scala. E io non sono in cima.Lavorare in Cecenia durante la guerra è stata diverso dalla tua esperienza in Iraq?
In Cecenia sono stato più “sul campo”. Mi muovevo in autostop, giravo da solo. Parlavi con i combattenti, ci passavi del tempo insieme, e poi se c’era un attacco arrivavi sul posto insieme a loro. Funzionava tutto in maniera molto disorganizzata e personale. Credo che quella in Cecenia sia stata una guerra molto estrema, paragonata a quello che ho visto da allora.

Basta pensare alla quantità di cose che ho visto andare in pezzi. È stata una guerra atroce. La Bosnia era molto brutale ma non c'è stata così tanta distruzione fisica, si trattava più di omidici e vendette a un livello molto personale e umano, tra vicini di casa. La Cecenia era brutale sotto ogni aspetto. La distruzione di Groznyj ha raggiunto un livello che non avevo mai visto prima, e che non ho più visto. Immagino che ora si possa trovare qualcosa di simile ad Aleppo, per esempio. Non c’era modo di accreditarsi quando lavoravo lì, niente scartoffie. Ho imparato un po' di russo in modo da poter parlare con i combattenti. Erano accoglienti, quindi stavo a diretto contatto con loro. In Iraq e in Afghanistan venivo scortato. Ti danno il tuo pezzo di carta e l’esercito deve prendersi cura di te.
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Credo ci sia uno strano genere di libertà. Un sacco di gente non lo vede positivamente, continua a dire che la scorta è “la fine della libertà di stampa” e via così, ma non penso sia vero. Non so nulla dell’Iraq; è così tanto tempo che non lo vedo al di fuori del punto di vista americano. Ma se decido di coprire l’ottica americana, allora una scorta non è un brutto modo per farlo. Perché è così istituzionalizzata da permetterti di girare, di fare molto, senza dover implorare qualcuno, senza doverti preoccupare di nulla. È un po’ più noiosa, in questo senso. Devi soltanto seguire quelli che ti stanno davanti. E non ci sono molte decisioni da prendere. Trovo che in questo l'embedded journalism sia piuttosto rilassante.Il tuo progetto M•A•S•H• IRAQ riguarda il periodo trascorso come giornalista embedded?
Sì, quasi tutto. Non voglio mettere eccessivamente in evidenza il fatto che alcune foto (solo un paio) non siano state fatte con la scorta, perché dovrebbe essere un libro che si concentra su quella condizione. Mi pare coprano un periodo di due o tre anni, qualcosa del genere. Il grosso del lavoro è stato fatto in un anno, in circa cinque o sei periodi in cui ho girato con le unità mediche.

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In realtà, quando ho avviato il progetto non sapevo di M•A•S•H•. Forse da piccolo ne avevo visto qualche spezzone, ma non faceva decisamente parte del mio background culturale. Quando ho cominciato la prima scorta un amico mi ha mandato il cofanetto coi DVD perché non mi annoiassi. Siccome passavo tutta la scorta seduto vicino a una pista d’atterraggio nell’attesa che partisse un elicottero per andare a prendere dei feriti, c'era sempre molto rumore e per facilitare l'ascolto usavo i sottotitoli. Non so esattamente perché ho cominciato a fotografare lo schermo, ma ogni tanto c’erano delle frasi incredibili di una o due righe. Era divertente vedere come 20 o 30 anni dopo ci trovassimo ancora nella stessa situazione, con gli stessi argomenti di conversazione. Alcuni dei medici avevano lo stesso humour macabro, ma in generale è tutto molto sterile. È un’armata di volontari, non si riceve la chiamata, è pulita e ovviamente non ci sono hippie.Rispetto alla tua opera sulla Cecenia e a M•A•S•H• IRAQ, il tuo lavoro sul libro fotografico Taliban si basa su foto "ritrovate", è così?
"Rubate”, probabilmente.Hai trovato le fotografie in una specie di studio fotografico di Kandahar, giusto?
Le ho trovate, e le ho comprate. Sono andato allo studio e ho detto ai proprietari “Posso comprare queste, o fotografarle, o averne delle copie o qualcosa del genere? Mi piacciono moltissimo.” Ero piuttosto entusiasta e loro, sorpresi dal mio interesse, me le hanno vendute per 20 o 40 dollari. Non gli importava. I fotografi ce l’avevano con i talebani, quindi erano contenti che qualcuno pagasse per quella roba. Non le consideravano assolutamente degli oggetti di valore. Inizialmente i talebani avevano proibito la fotografia, poi hanno fatto chiudere gli studi, poi li hanno riaperti e si sono fatti fotografare, ma non permettevano a nessun altro di farlo.
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No. Ho spedito il libro ai proprietari del negozio, nella speranza di ricevere una loro risposta, ma niente. Prima di stamparlo ho cercato di contattarli per sentire se volevano dire qualcosa. La gente parla molto di quel progetto, e lo associano a me, ma io sono solo il messaggero. Voglio soltanto far circolare quelle fotografie e assicurarmi che non vadano perse. Non si tratta di me, o della mia fotografia. In Europa ricevo un sacco di critiche, mi definiscono irrispettoso nei riguardi della cultura, come se avessi scattato io le foto. La gente era indignata, tipo “Come ti permetti, vestirli così!” Come se avessi leso la dignità dei talebani. È stato difficile farlo pubblicare a New York. Ha molto successo nel mondo gay, e in Germania è stato ripubblicato da una casa editrice specializzata in pubblicazioni per omosessuali.Scommetto che i talebani sarebbero entusiasti se lo sapessero. Qual è il posto in cui hai avuto più difficoltà a lavorare?
Ehm, la Francia? Parigi, nello specifico.Davvero? Più che in Cecenia o in altre zone di guerra?
Sì. Per il livello di diffidenza dimostrato dalla gente. Fanno un gran parlare della fotografia e hanno immagini di Cartier-Bresson a ogni angolo, ma allo stesso tempo se vuoi scattare una foto si arrabbiano. Hanno la risposta pronta, hanno già fatto pratica con tutto, su quanto siano orribili i fotografi e come sia orribile quello che fanno. È strano. Nel 2001 o 2002 abbiamo fatto un progetto di gruppo sul 18esimo Arrondissement a Parigi. Era una cosa tipo “18 Fotografi Magnum Fotografano il 18esimo”. L’idea era che tutti avrebbero avuto una storia diversa. Io ero il più giovane quindi ho ricevuto una specie di incarico da matricola, che consisteva nell’occuparmi dell’abuso di crack a Chateau Rouge, una fermata della metropolitana. Quindi ho documentato tutto, dagli assistenti sociali ai tossicodipendenti, e tutti avevano molto da dire a proposito di quanto siano orribili i fotografi.
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Sono tornato nel Caucaso. Mi sto concentrando sulla Georgia moderna, quella contemporanea. In passato mi sono occupato più di una visione romantica del Caucaso, che si è trasformata in un libro, Kavkaz. Era incentrato sull’interazione tra la letteratura russa e il tipico immaginario dell'area. Ora sono andato all’estremo opposto, questa nuova opera è a colori e si concentra sugli aspetti moderni della regione, con un focus sulle pompe di benzina—che sono molto più interessanti!Andate avanti per vedere altre foto diThomas Dworzak.







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