Ok, quindi come funziona davvero l’”approvazione” della Crusca?

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Ogni volta che in Italia scoppia un ‘caso’ linguistico—dalla polemica sul “petaloso” all’ancora irrisolta questione dei nomi femminili, ai Ferragnez, alla recente epopea dei verbi intransitivi usati transitivamente—c’è solo un account di cui tutti aspettano il tweet: quello dell’Accademia della Crusca, la pluricentenaria istituzione di filologi e linguisti che studia la lingua italiana.

A gestire con eroica pazienza questo profilo c’è dal 2012 la sociolinguista Vera Gheno, dottoressa di ricerca in linguistica e autrice di diversi libri sui risvolti contemporanei della lingua, social inclusi. Gheno insegna presso l’Università di Firenze, lavora nella redazione di consulenza linguistica dell’Accademia della Crusca e collabora con Zanichelli su iniziative relative al vocabolario Zingarelli.

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In attesa del prossimo scandalo linguistico-mediatico, l’ho contattata per sapere come funziona davvero l’”approvazione” della Crusca, come nasce un neologismo, e cosa è necessario sapere prima di barricarsi sulla posizione del “così non si dice.”

VICE: Ogni volta che scoppia un caso linguistico in cui è coinvolta l’Accademia, qualcuno parla di “approvazione” della Crusca. Ma la Crusca può approvare una parola o inserirla nel dizionario?
Vera Gheno: Bisogna chiarire un concetto: la lingua la fanno i parlanti e non esiste nessun ente in grado di “rovinarla”. L’Accademia della Crusca studia l’evoluzione della lingua italiana e ne promuove la conoscenza attraverso diversi canali. Non ha, però, un ruolo prescrittivo, bensì descrittivo. Ciò significa che non può imporre nessuna regola ai parlanti né approvare termini: prende atto delle norme che regolano la lingua, così come dei suoi cambiamenti, e spiega come utilizzarle al meglio. Perché? Quando parlando e scrivendo commettiamo un errore, non offendiamo nessuna Dea Grammatica, ma ci esponiamo a uno stigma sociale. Se sbaglio i congiuntivi non faccio del male a nessuno, se non a me stessa, dato che chi mi ascolta probabilmente pensa che io sia una buzzurra.

Per quanto riguarda il dizionario, il primo Vocabolario degli Accademici della Crusca fu stampato a Venezia nel 1612; da allora sono seguite altre tre edizioni, per arrivare poi alla quinta e ultima, la cui stesura è stata interrotta in epoca fascista nel 1923 alla lettera O, per la precisione alla parola “Ozono”. Non ha senso, dunque, dire che la Crusca ha inserito una parola nel suo dizionario, dal momento che non ne esiste uno attuale.

Di recente, alcuni giornali hanno riportato la notizia secondo cui la Treccani avrebbe inserito nel proprio dizionario la parola “Ferragnez”. Come sono andate davvero le cose?
Si tratta di un’incomprensione, come è accaduto per l’uso di “uscire” e “scendere” con valore transitivo. In quest’ultimo caso, un giornalista ha letto forse un po’ frettolosamente una scheda di consulenza pubblicata sul nostro sito in cui si spiega che ci sono molti verbi intransitivi in italiano che in molti italiani regionali e in contesti popolari diventano transitivi. Non è il via libera per usarli in maniera transitiva in qualunque contesto, ma semplicemente un’analisi della situazione: tradizionalmente, in diverse regioni incontreremo frasi come “esci il cane” o “scendi la valigia,” e in quel contesto sono perfettamente lecite. In un tema a scuola… no.

Per quanto riguarda Ferragnez, il termine è stato inserito nel Libro dell’anno 2018, la pubblicazione collaterale di Treccani dove si ripercorrono i fatti più significativi dell’anno e dove compaiono le parole “tormentone” dei 12 mesi appena passati. Questo libro, ancora una volta, non avalla proprio niente. “Ferragnez” è sicuramente stato un tormentone nel 2018, ciononostante, dubito che riuscirà, perlomeno in breve tempo, a diventare un neologismo vero e proprio.

Perché? Come funziona un neologismo?
Una parola viene inserita in un dizionario se è entrata nell’uso corrente dei parlanti. Nello specifico, per meritarsi il titolo di neologismo una parola deve solitamente soddisfare tre criteri. In primis la longevità, ovvero deve durare nel tempo. Oggi non useremmo “Ferragnez” per descrivere un matrimonio particolarmente sontuoso, come aggettivo: lo usiamo solo il riferimento alla coppia formata da Chiara Ferragni e Fedez. Poi, certo, fare previsioni è sempre difficile.

Il secondo criterio è la sua diffusione: non basta che il termine venga utilizzato da un numero ristretto di parlanti per entrare nei dizionari.

Infine, deve preferibilmente ricorrere in contesti differenziati. Ciò succede spesso quando una parola finisce in un film, in una serie o in un libro che ha particolare successo. Prendete il termine “sciuscià”, che nasce come la deformazione napoletana dell’inglese shoe-shine, lucido per scarpe. Se non fosse il titolo del famosissimo film di Vittorio De Sica del 1946, probabilmente non sarebbe mai entrata nel dizionario.

Per stabilire questi parametri i linguisti si basano sulla statistica. Eseguono carotaggi linguistici su corpora di testo vastissimi, ovvero raccolte di testi orali, scritti e trasmessi che permettono di analizzare l’uso effettivo della lingua, valutandone le tendenze.

E le parole straniere usate nell’italiano?
Sui forestierismi apriamo il vaso di Pandora. Innanzitutto va ricordato che le lingue sono da sempre sottoposte a continui influssi reciproci, quindi ogni lingua contiene una percentuale di parole straniere o derivate.

Il problema del forestierismo non è il forestierismo in sé, ma la mentalità che gli sta dietro. La questione non è dunque l’utilizzo di parole straniere in contesti ristretti, quanto la convinzione che usarle ci renda più fighi. È da lì che deriva il pullulare inutile di anglismi a caso, come l’abusatissimo “know-how”. In Lezione di italiano, Sabatini diceva che un forestierismo ha senso se lo pronunci e usi bene e se non ha un corrispondente italiano in uso. Se non soddisfi queste condizioni, o sei in cattiva fede (vedi i vari anglismi in politica o nel settore bancario, usati spesso per confondere le idee), o utilizzi la famosa antilingua di Calvino, cadendo nel ridicolo.

Ha senso diventare “grammar nazi”?
Un grammar nazi non è uno che conosce bene la sua lingua, ma un maestrino pedante che applica le regole in modo decontestualizzato per il semplice il gusto di sentirsi superiore rispetto agli altri. Quando sento o leggo “Così non si dice” mi viene un brividino: non è che se non lo dice la norma non si può dire a priori.

Faccio un esempio: l’altro giorno ero ospite a un programma televisivo della Rai. A un certo punto in diretta TV ho detto: “Mi sono letta tutti i testi di Sanremo.” Apriti cielo: dopo qualche minuto su Twitter qualcuno mi ha dato dell’ignorante e incompetente, perché “mi sono letta” non si dice. In realtà è un riflessivo affettivo, come “mangiarsi una pizza” o “fumarsi una sigaretta”: in un contesto informale ci sta. Come sempre, bisogna considerare il testo, sì, ma assieme al suo contesto.

Questo atteggiamento di superiorità può spingerci a concentrarci su elementi secondari e perderci i grandi cambiamenti che la lingua sta affrontando?
Per me queste ondate di indignazione sono molto interessanti, non credo che siano secondarie. Ho vissuto in prima persona la questione di “petaloso” e penso che sia molto significativa del rapporto nuovo degli italiani con la loro lingua, con tutta la potenza di un discorso pubblico allargato. Ovviamente si è scatenata una bufera, ma del resto quand’è che ti insegnano come funziona un neologismo? A scuola praticamente mai. Oggi si parla molto più di lingua, ed è una cosa buona. Ciò che manca, secondo me, è una riflessione metalinguistica, che è fondamentale per aiutarci a essere più elastici e rispondere con più competenza alle variazioni di registro. Non dobbiamo mai dimenticarci che la lingua ci appartiene.

Come si può, secondo te, sviluppare un rapporto sano nei confronti della lingua, prendendosene cura senza cadere in estremismi?
Occorrerebbe leggere tanto e tanti tipi di testo diversi: non solo classici, ma anche fumetti, canzoni, libretti di istruzioni, cartelli stradali, etichette dello shampoo, confezioni della carta igienica. Dobbiamo diventare delle spugne linguistiche. Parlare come un libro stampato al supermercato non serve a niente, anzi, mi farebbe sembrare un po’ inquietante, alla Hannibal Lecter. Bisogna imparare a rivolgersi in modo appropriato al funzionario pubblico, al cassiere o all’amico su WhatsApp.

Non dimentichiamo che parlare bene una lingua ci offre un potere non indifferente: quello di muoverci in modo sicuro nel mondo che ci circonda e di essere in grado di far valere i nostri diritti. Italofilo, ovvero una persona che la lingua non solo la parla, ma la ama, è chi è riuscito a costruirsi un guardaroba lessicale ricco, capace di non farlo sfigurare in nessuna situazione: uno che può indossare le infradito in spiaggia, ma anche un bel paio di décolleté luccicanti alla Prima della Scala.

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