‘È vita questa?’ – Le vere condizioni dei migranti a Roma

Nel parcheggio abbandonato poco distante dal piazzale est della stazione Tiburtina di Roma è una domenica pomeriggio come tante altre. Alcuni ragazzi sono stesi su delle stuoie e cercano di ripararsi quanto possibile dal sole cocente con dei teloni, altri chiacchierano davanti alle tende da campeggio. Nel frattempo, due volontari sistemano casse d’acqua e cibo all’ombra.

Sono le 15 e 30 e fa un caldo micidiale quando entro in questo slargo in mezzo ad asfalto e sterpaglie ribattezzato “Piazzale Maslax,” dal nome di un ragazzo somalo morto suicida a Pomezia. Da qualche tempo l’ex parcheggio è sede del nuovo presidio del Baobab Experience, il gruppo di volontari che dal 2015 si occupa dell’accoglienza di centinaia di migranti che arrivano a Roma. Una distesa di cemento ai piedi dell’ex Hotel Africa, un vecchio magazzino delle Ferrovie dello Stato che è stato occupato da centinaia di profughi fino al 2004, quando è stato sgomberato dalla giunta Veltroni.

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“In questi giorni dormono qui più o meno cento persone, che altrimenti non avrebbero letteralmente dove stare. Queste 30 tende che vedi sono arrivate con una donazione da Milano, perché il 6 giugno c’è stato l’ennesimo sgombero,” mi spiega Roberto Viviani, coordinatore dei volontari. Inizialmente il presidio del Baobab si trovava nell’omonimo centro di via Cupa, una traversa di via Tiburtina nei pressi del cimitero del Verano, divenuto il fulcro dell’emergenza transitanti (ovvero migranti che si fermano in Italia solo qualche giorno, come tappa di un viaggio più lungo) dopo lo smantellamento della baraccopoli di Ponte Mammolo e lo sbarramento delle frontiere per il G7 nel maggio del 2015.

Piazzale Maslax, dopo uno sgombero avvenuto lo scorso lunedì.

Quando la struttura è stata chiusa a dicembre dello stesso anno, il Baobab si è trasformato in una tendopoli. Si sono succedute numerose operazioni di polizia, tra identificazioni e veri e propri sgomberi—i volontari ne contano una ventina in tutto—mentre le interlocuzioni con l’amministrazione comunale sono via via fallite e le promesse cadute nel vuoto. Il presidio ha cambiato sede più volte, piantando le tende in diversi punti adiacenti alla stazione Tiburtina, fino ad arrivare a piazzale Maslax. Anche nell’ex parcheggio lo scorso 6 giugno è arrivata la celere, e la tendopoli è stata smantellata. Quel giorno, mi racconta Roberto, “hanno portato i ragazzi in Questura e nel frattempo hanno buttato tutto: donazioni della cittadinanza, effetti personali dei migranti.”

La gestione del presidio—dal cibo ad attrezzatura varia—è interamente su base volontaria. Mentre parlo con Roberto arriva al campo una coppia con alcune buste della spesa. “Sono due anni che la cittadinanza continua a partecipare,” mi spiega Roberto mentre sistema le donazioni. “Qui tra l’altro non diamo fastidio, non c’è niente intorno. Quando eravamo a via Cupa ogni tanto qualche residente si lamentava, e posso anche capirlo, non è bello avere una tendopoli sotto casa. La verità è che le tendopoli non sono belle per nessuno, ma al momento non mi pare esista un’altra soluzione.” Soprattutto se si considera che il vicino centro comunale per transitanti di via del Frantoio gestito dalla Croce Rossa rischia di chiudere il 30 giugno.

Piazzale Spadolini durante uno sgombero avvenuto lo scorso inverno.

Mi avvicino ai migranti davanti alle tende e incontro Mamadou, che ha 25 anni e viene dal Mali. È arrivato in Italia tre anni fa, ad Augusta, dopo un viaggio in macchina fino in Libia. È stato per un po’ in un campo nelle Marche prima di spostarsi a Roma, dove fino a tre settimane fa dormiva alla stazione Termini. Mi racconta che avendo lavorato tre mesi si era messo qualcosa da parte. “Poi con lo sgombero mi hanno buttato via tutto, le valigie e anche i soldi che avevo. Mi hanno portato in Questura, e quando sono tornato non c’era più niente. Ora come ora possiedo solo questo,” dice indicando il pallet su cui è seduto.

Come il caso di Mamadou dimostra, la popolazione del Baobab non è più solo di transitanti. Anzi, c’è parecchia gente che si trova lì con la prospettiva di restare. “Molti sono qui perché non hanno avuto accesso alle pratiche d’asilo perché la questura di Roma funziona malissimo e magari c’è gente che sta attendendo l’appuntamento per chiedere la protezione internazionale. Poi ci sono i diniegati che aspettano l’appello, persone che sono rimaste fuori dai percorsi ufficiali d’accoglienza o chi è stato già nei centri ma è uscito perché il progetto è finito e non c’è stato un inserimento. E soprattutto ci sono i cosiddetti ‘dublinanti‘, cioè chi era già arrivato in altri paesi del nord ed è stato rimandato qui perché aveva lasciato le impronte. Sono i casi più critici,” mi spiega Roberto.

Poco lontano da noi, volontari e migranti stanno cercando di mettere in funzione un generatore di elettricità. L’indomani, infatti, è previsto un piccolo concerto al piazzale. Mi fermo a parlare con Ibrahim, del Gambia, che mi racconta di essere arrivato in Sicilia e di aver successivamente lavorato nei campi di Rosarno, in Calabria, e Foggia per 3 euro e 50 l’ora. “Ho i documenti, ho la protezione internazionale. Ma non ho un posto dove stare e non ho scelta se non stare qui,” spiega. La sua famiglia è rimasta in Gambia, “anche se ho sentito che mio fratello è in Italia, a Torino. Ma non ci siamo mai incontrati.”

Ibrahim, come molti altri che vivono al Baobab, durante il giorno frequenta una scuola di italiano a Casetta Rossa, uno spazio sociale nel quartiere Garbatella dove si svolgono anche altre iniziative. Le attività in cui sono impegnati i migranti sono tutte organizzate dai volontari. “Almeno una volta al mese facciamo un’uscita al centro di Roma o in un museo insieme ai ragazzi di un centro diurno psichiatrico. È una collaborazione di cui andiamo particolarmente fieri perché è un esperimento di doppia integrazione, nonché uno schiaffo a tutti i pregiudizi su immigrazione e sanità mentale. Il sabato pomeriggio organizziamo una partita di calcetto, ogni due settimane un laboratorio di fotografia itinerante e occasionalmente incontri nelle scuole,” mi spiega Roberto.

Il resto del tempo i migranti lo trascorrono al presidio, e aiutano nella gestione del campo: pulizie, tenuta in ordine, distribuzione dei pasti. “Anche se molti di loro perdono spesso giornate intere all’ufficio immigrazione, dove devono tornare più volte per riprovare a presentare la richiesta d’asilo. Il tempo medio di attesa registrato prima di riuscire a inoltrare la domanda è di un mese e mezzo. Ed è un mese e mezzo fatto di sveglie notturne, file interminabili e viaggi a vuoto,” avverte Roberto. Al di là di questo, i volontari cercano di organizzare “cose piacevoli. Qui è difficile, ma tutto sommato si riesce ad andare avanti. È al palazzo di via Di Vannina che la situazione è veramente terribile.”

Un migrante nel capannone di via Di Vannina.

L’occupazione a cui si riferisce è un ex capannone fatiscente nella zona industriale di via Tiburtina, all’altezza di Tor Cervara. Nello stabile e in quello accanto vivevano circa 500 migranti, tra cui anche famiglie con bambini. I numeri sono incerti, perché le persone non erano prese in carico né da associazioni, né da istituzioni. L’8 giugno la polizia ha sgomberato uno dei due edifici, al civico 72, che era stato richiesto dal proprietario che l’aveva acquisito dopo sette anni di abbandono con una procedura fallimentare. Lo stabile è stato chiuso, e gli occupanti sono rimasti per strada o si sono riversati nel capannone accanto, dove il lunedì successivo c’è stata un’altra operazione delle forze dell’ordine, stavolta più violenta. Al termine i migranti sono riusciti a rientrare, ma molti hanno raccontato di essere stati picchiati dalla polizia—e alcuni di loro ne portano i segni.

Quando arrivo a via Di Vannina, nel tardo pomeriggio di domenica, la zona è completamente invasa da fumo e cenere: delle sterpaglie poco più in là hanno preso fuoco, rendendo se possibile ancora più apocalittico lo scenario che mi si presenta davanti. Avvolti nella fitta nebbia dell’incendio ci sono i due capannoni: uno, a destra, è serrato, presidiato da una guardia privata e circondato da filo spinato; l’altro, accanto, è aperto ed è abitato adesso da circa un centinaio di migranti. Davanti al cancello c’è un grosso cumulo di macerie miste a immondizia e a oggetti o valigie abbandonate durante lo sgombero. Tutto attorno non c’è praticamente niente.

Lamin ci mostra la situazione nel cortile del capannone via Di Vannina

All’ingresso dello stabile incontro Lamin, del Gambia. Stava uscendo a fare una passeggiata, ma decide di accompagnarmi dentro. Lui non vive nell’ex capannone di via Di Vannina, ma in un’altra occupazione simile nei dintorni. Gli chiedo se era qui il giorno che è arrivata la polizia e mi spiega che era venuto a trovare degli amici, quando a un certo punto ha visto i blindati: “Scappavano tutti, anche i ragazzini avevano paura, sono caduti. Anche io mi sono fatto questo, non è ancora guarito,” dice mostrando un profondo taglio sul piede. La polizia, aggiunge Lamin, “ha detto che tornerà. Nell’altro palazzo non si può più andare, ma questo è troppo piccolo per tutti.”

Entriamo nel capannone, il cui cortile interno è pieno di materassi, pozzanghere e rifiuti. Proprio davanti l’ingresso un grosso topo ci taglia la strada. “È vita questa? Siamo come animali, senza bagno. Potrebbero fare un bagno grande per tutti, o dieci bagni. Guarda quanto posto c’è qua,” dice Lamin, mostrandomi un angolo dove c’è accatastato praticamente di tutto. Gli chiedo chi potrebbe farlo. “Non lo so, il governo? Qualcuno,” risponde.

Al piano terra dell’edificio c’è un grosso stanzone con i vetri rotti e alcune sedie in mezzo. Sopra, invece, quelle che dovrebbero essere le camere da letto, con pareti ricavate da pannelli di plastica. Alcuni ragazzi giocano a calcio, la maggior parte è appoggiata per terra e scruta il via vai di gente. Nel frattempo per fortuna il vento si è fermato, e ha smesso di piovere cenere proveniente dall’incendio.

Mi avvicino a un gruppo e faccio la conoscenza di Frank, che distribuisce Peroni calde ad altri ragazzi seduti attorno a un tavolo. È nigeriano, e mi presenta sua moglie Alexandra, una ragazza austriaca che è venuta a trovarlo a Roma. “Io non abito qui”, mi spiega, “ma da quattro giorni vivo per strada—che forse è meglio di qui. Avevo una casa in subaffitto, ma la padrona mi ha rubato i soldi. Io posso dormire a Termini, ma mia moglie no e quindi le ho preso una stanza d’albergo,” dice mostrandomi la chiave. Alexandra mi racconta che non è la prima volta che va a via Di Vannina: “Ci sono amici qui. Ma non capisco questa Italia, non capisco nemmeno questa Europa.”

Frank, intervistato sopra, nel capannone di via Di Vannina.

Poco più in là incontro Dominique, senegalese arrivato nel 2013 a Ciampino. Per un periodo è stato in un centro d’accoglienza a Roma, e quando il progetto è finito è andato a dormire a Termini per un mese. Poi è finito a via Di Vannina, dove vive da due anni. Mi mostra il suo permesso di soggiorno per motivi umanitari: è scaduto e mi dice che ha appuntamento il 21 agosto per il rinnovo. Per questo motivo il giorno dello sgombero è scappato subito: “Non volevo andare in Questura perché il mio permesso per ora è scaduto, potevano esserci problemi. Io vorrei lavorare ma senza documenti non si può. Sono un falegname. Non so cosa posso fare della mia vita sinceramente.”

Dominique nel capannone di via Di Vannina.

Un altro migrante del Gambia mi racconta che è in Italia da un anno e quattro mesi e, dopo un periodo in un centro d’accoglienza a Rebibbia, è stato sostanzialmente sputato fuori dal sistema finendo anche lui lì.

Intanto nello stabile arrivano dei volontari che stanno seguendo la situazione. “L’edificio sgomberato l’8 giugno è pericolante. I migranti dentro avevano creato il bar, i luoghi per pregare, ma non era una bella situazione: c’è l’amianto, ci sono i topi,” mi spiega Federica Borlizzi, dell’associazione di assistenza legale Alterego. Mentre parlo con lei, veniamo interrotte da una donna che abita nel palazzo occupato: “La polizia ha detto che ci dava qualche giorno e poi sarebbe tornata. Ma stavolta se vengono ci sono solo uomini e saranno più violenti. Prima c’erano anche donne e bambini.”

In effetti diversi migranti nei giorni scorsi hanno iniziato a lasciare via Di Vannina. “Molta gente sta andando negli altri stabili occupati della zona, tra cui uno che è un’ex fabbrica della penicillina, dove pare che la situazione non sia molto diversa. Ci sono anche molti minori di cui non abbiamo più notizie. L’altro giorno ne ho trovato uno di 17 anni che era allucinato e ho contattato Intersos,” spiega Federica, secondo cui la situazione all’ex capannone adesso è al limite della crisi umanitaria. “Nonostante sia stata chiamata più volte la Sala Operativa Sociale di Roma, non è intervenuto nessuno. Per lo meno, che io sappia. Ma vengo ogni giorno da martedì scorso e a parte un passaggio veloce non li ho più visti.”

Una stanza del capannone di via Di Vannina.

Quello che lamentano i volontari, infatti, è che da un lato nessuna organizzazione umanitaria sia stata coinvolta in un’operazione del genere, e dall’altro che il comune di Roma non si sia preoccupato in alcun modo di trovare una sistemazione ai 500 che vivevano a via Di Vannina. “Stamattina abbiamo chiamato la presidente del Municipio, che non ci ha dato risposta e dice che non è sua competenza. Dal comune nessuno si è fatto sentire. Noi stiamo provando a sollecitare qualcuno, almeno per i rifiuti,” dice Federica, che denuncia come a Roma non solo manchi un centro di prima accoglienza, ma complessivamente un piano.

Pochi giorni fa la sindaca Virginia Raggi ha scritto al prefetto, lamentandosi dell’eccessiva “pressione migratoria” che negli ultimi tempi starebbe colpendo la città: “non possiamo permettere di creare ulteriori tensioni sociali. Per questo trovo impossibile, oltre che rischioso, pensare di creare altre strutture di accoglienza.”

Secondo le stime della prefettura, a Roma e provincia, nella seconda metà di maggio, sono stati censiti 5.581 ospiti in 70 Centri di accoglienza straordinaria (Cas) e 3.028 nelle strutture del Servizio centrale del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) gestito dal Comune. Numeri che, secondo il ministero dell’Interno, per quanto in aumento restano comunque al di sotto della soglia prevista dall’accordo tra comuni e governo.

Due migranti giocano a calcio all’interno del capannone via Di Vannina.

Il punto nodale, stando alla Rete Romaccoglie composta da diverse realtà sociali della Capitale, “non è la carenza di risorse, ma come sono utilizzate.” A Roma il modello d’accoglienza diffusa continua a essere residuale, in favore di grossi centri—gli stessi che dopo Mafia capitale si era deciso di abbandonare. Lo dimostra l’ultimo bando Sprar, che privilegia strutture da 50 e i 100 posti, per lo più collocate in zone periferiche.

Un altro aspetto da considerare è che Roma continua a non avere un piano per i transitanti. A giugno, stando a quanto promesso dal comune, sarebbe dovuto essere pronto l’ex Ferrhotel della stazione Tiburtina, un vecchio albergo per ferrotramvieri inutilizzato da tempo che avrebbe dovuto accogliere circa 200 persone. Ma ad oggi della struttura non si ha nessuna notizia.

Infine, ci sono migliaia di migranti con permesso di soggiorno o titolari di protezione internazionale che vivono come veri e propri fantasmi. L’UNHCR ha fatto sapere di aver “reiterato una richiesta urgente” al Campidoglio “perché metta in piedi un piano di interventi sociali per i rifugiati,” dal momento che “ci sono moltissimi richiedenti asilo che si trovano fuori accoglienza.”

Di posti come l’ex capannone di via Di Vannina, infatti, Roma è piena. Nei pressi di Tor Vergata, ad esempio, c’è il Selam Palace, un edificio occupato da circa 1200 persone titolari di protezione internazionale, tra cui donne e bambini; in centro, vicino la stazione Termini, invece, c’è il palazzo di via Curtatone, ex sede dell’Ispra, dove vivono circa 400 rifugiati.

Lunedì mattina molto presto—il giorno il cui ci sarebbe dovuta essere la festa—al presidio del Baobab di piazzale Maslax si sono presentati ancora una volta i blindati della polizia. I migranti sono stati caricati su un pullman e portati via per essere identificati “senza l’assistenza di mediatori culturali o della sala operativa sociale del comune,” denunciano i volontari.

Tra i migranti portati in questura c’è anche Moustapha, un ragazzo che abitava nell’occupazione di via Di Vannina e che occasionalmente era rimasto a dormire al Baobab perché lunedì mattina sarebbe dovuto andare al Policlinico per una visita medica. “Sembra che abbia una frattura del bulbo oculare, è da una settimana, da quando c’è stato lo sgombero violento a via Di Vannina, che non riesce a vedere. Ha il permesso di soggiorno, tutto in regola” mi spiega Federica Borlizzi. “Stamattina mi ha chiamata lui, era quasi scioccato. Mi ha detto: ‘Non ci posso credere, c’è di nuovo la polizia’.”

Piazzale Maslax lunedì 19 giugno, in occasione dell’ultimo sgombero.

Questa volta i volontari—dopo un po’ di trattative—sono riusciti a scongiurare il macero e il sequestro delle donazioni e delle tende, mentre i migranti hanno potuto recuperare le loro cose. Ma tutto il resto andrà smantellato e la situazione non è delle migliori.

Poco dopo l’ora di pranzo, quando arrivo al presidio, alcuni operai stanno posizionando delle barriere all’ingresso del parcheggio. “Ci stanno dicendo che qui non possiamo più stare. Lo sgombero stavolta è stato richiesto da Ferrovie dello Stato,” mi spiega Francesca, una volontaria. Le chiedo cosa hanno intenzione di fare adesso. Scuote la testa: “Non lo sappiamo.” Si avvicina Ibrahim, che avevo conosciuto il giorno prima. Mi indica le barriere e allarga le braccia: “Cosa facciamo adesso? Ora non so, forse andrò in stazione a dormire.” Mentre parliamo passa davanti a noi un camioncino degli operatori con dentro cumuli di roba sgomberata dal presidio. Ibrahim lo indica: “Ah ecco, là c’è il mio letto.”

Ad ogni modo, i piani per la serata non cambiano. “La festa la facciamo lo stesso, verranno i musicisti a suonare. Magari la facciamo qui, davanti alla strada” mi dicono i volontari. “Non è che se sgomberi le persone spariscono. Non funziona così.”

Qualche giorno fa il direttore generale di Amnesty International si è chiesto se il comune di Roma abbia o meno una politica di accoglienza: “Se questa politica non esiste, è un fatto grave. Se esiste ed è quella che vediamo in atto, ossia una serie di sgomberi cui da ultimo si è aggiunto il lamento, generico e non argomentato, sui ‘troppi migranti’, è ancora più grave. Il Comune di Roma sta portando avanti azioni contrarie ai diritti umani,” ha scritto in una nota.

La situazione di totale abbandono di via Di Vannina e i venti sgomberi del Baobab dimostrano come il tema immigrazione nella Capitale venga affrontato esclusivamente come una questione di ordine pubblico. In assenza di un piano o di un’alternativa, una volta andati via i blindati queste persone tornano a essere completamente invisibili, mentre le denunce di migranti, volontari e associazioni si schiantano su un gigantesco muro di silenzio.

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